L’uomo sogna di volare

È tutto pronto. Tra poco si parte.

I passeggeri sistemano i bagagli, una voce femminile gracchia istruzioni di sicurezza, i motori rombano già. Un bimbo piange, singhiozza: non piangere, piccolo!
Non piangere: tra poco si vola!
E in preda a un febbrile entusiasmo, nemmeno mi rendo conto che le operazioni preliminari sono terminate. Schiacciato al seggiolino dall’accelerazione, sorrido. Una vibrazione, poi un leggero rollio, poi il vuoto, la sua estatica ebbrezza, la sua adrenalinica paralisi.
Stiamo salendo, stiamo volando.
Fuori dall’oblò il mondo si ridimensiona progressivamente. L’umanità adesso è soltanto un’inerme massa di formichine impazzite: da quassù, vi schiaccio tutti con un dito. Ma ecco, ecco: saliamo ancora. Adesso l’uomo è scomparso: di lui resta soltanto traccia nelle regolari geometrie applicate al caotico saliscendi morfologico del terreno.
Il bimbo non piange più.
Adesso sorride: dopotutto l’uomo sogna di volare.

Prima che possa rendermene conto siamo sopra le nuvole: sinuosa distesa di zucchero filato, paese di pacifici balocchi . Mi immagino lì, a poggiare le suole su quella dolce e fresca coperta di spuma di latte. Un giorno o l’altro, mi dico, l’uomo verrà a vivere quassù: quando la Terra sarà satura, esaurita, il cielo diverrà il nuovo mondo.
Ma perché non farlo adesso? Scendere, costruirsi un’umile casetta sempre abbacinata dal sole, guardare il mondo dall’alto della mia alba dimora. Oppure.. Oppure vivere da nomade, libero, saltando da un nembo all’altro, facendomi trasportare da uno spumoso vettore dove più gli aggrada: oggi Italia, domani Nord Africa, dopodomani Arabia, tra una settimana India, tra un mese Australia, tra un anno America del Sud. Esplorare il mondo da una nuvola, osservarlo dall’alto del cielo, illudendosi che l’uomo sia soltanto un microscopico e impotente microbo, smarrito nel grandioso e inattaccabile organismo terrestre.

Un’hostess bionda, munita di chilometriche gambe opportunamente adombrate da calze velate, ammiccando mi offre da bere e uno snack.
Non voglio niente: voglio le nuvole.
E allora frignando, strepitando, dibattendomi sul mio sedile chiedo a gran voce di farmi scendere, di potermi far stringere dal premuroso abbraccio di quella candida ovatta. La hostess sorridendo mi ignora, nessuno sembra ascoltarmi, nessuno si cura del mio dolore.

Puntando verso la lacrimosa terra, cominciamo la nostra discesa.
Tremo, piango, urlo.
Un sussulto è tutto ciò che resta della diafana schiuma di latte che ci siamo lasciati sopra le nostre teste. Un frettoloso sole illumina le pieghe della cartapecora marina. Il mondo comincia a riprendere forma; l’uomo da batterio ritorna formica e pian piano riprende le proprie catastrofiche dimensioni.
Un altro rollio, un nuovo sobbalzo mi riporta con i piedi a terra; ma la testa, il cuore, sono rimasti sulle nuvole.
Il bimbo piagnucola di nuovo.
Una mano mi scuote.
Il sogno è finito.

Danilo Iannelli

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