“Ebbrezza della debolezza”: un elogio alla pesantezza

Fino a qualche anno fa non avrei mai pensato di poter scrivere nero su bianco riguardo la leggerezza e la pesantezza e sicuramente non avrei mai pensato di poter diventare una partigiana del lato oscuro. Ebbene sì, in un mondo in cui la tecnologia cerca materiali sempre più leggeri per le sue creazioni e la massima aspirazione dell’uomo è quella di poter volare, prima verso mete galattiche e poi con ali proprie al di sopra delle nuvole, c’è ancora chi elogia la pesantezza, con i piedi ancorati ben a terra e la testa un po’ più su.

Questo, però, me lo hanno insegnato Milan Kundera e il suo romanzo “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, manifesto indiscusso della sua letteratura e della sua filosofia. Kundera, senza saperlo, scavalca di gran lunga il futuro elogio di Italo Calvino alla leggerezza. Siamo infatti nel 1985, solo un anno dopo l’uscita del romanzo dello scrittore ceco, e Calvino prepara sei lezioni da tenere presso l’Università di Harvard; i temi non sono scelti a caso: sono quelli che lo scrittore profetizza essere dominanti nel nuovo millennio. La prima lezione è dedicata all’opposizione leggerezza-pesantezza, la stessa che Kundera nelle prime pagine del suo romanzo definisce, chiamando in causa la filosofia parmenidea, la più misteriosa e la più ambigua.
La considerazione più importante che Calvino ci offre a favore della sua tesi (“la leggerezza è un valore anziché un difetto”) – e con la quale talvolta mi sembra quasi di trovarmi d’accordo – è che la leggerezza è il requisito più importante per un poeta, o meglio è il mezzo più efficace di cui egli possa servirsi nel suo linguaggio poetico, il suo unico legame  col mondo. La metafora che porta a compimento il suo pensiero – ripresa da una novella di Boccaccio che vede come protagonista Guido Cavalcanti – è quella del poeta-filosofo che portando con sé una gravità piena del segreto della leggerezza, saltando si solleva dalla pesantezza del mondo, una pesantezza che sembra appartenere al regno dei morti.
E’ vero anche che Calvino distingue la leggerezza della precisione e della determinazione, quella che sostiene ed elogia, da una leggerezza dell’abbandono al caso e la vaghezza, citando Paul Valéry e la celebre frase “Il faut être léger comme l’oiseau, et non comme la plume.” (“Bisogna essere leggeri come l’uccello, e non come la piuma”).

È ironico pensare che invece la leggerezza di Kundera è proprio quella del caso, che si oppone fortemente alla pesantezza della necessità e quindi al concetto dell’eterna ripetizione. L’uomo quindi guarda alla ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere. Ed è forse questo il punto da cui parte lo scrittore ceco: l’uomo passa l’intera vita alla ricerca della leggerezza per scappare dalla pesantezza esistenziale; eppure, una volta trovata, l’uomo si allontana via via dal terreno, vola verso una libertà che risulta sempre più priva di significato e sprofonda in un vortice di vacuità. Il fardello che grava sulle spalle degli esseri umani è ora un’insostenibile leggerezza, evidente nell’unicità della vita, che ci si presenta attraverso scelte fugaci e senza più alcuna importanza, poiché troppo lontani dalla realtà e quindi dalla vita stessa. L’uomo allora tende inconsciamente verso il basso, verso la vità più reale, una realtà più fragile e incerta, vuole toccare la terra con la punta delle dita, vuole assaporare la pesantezza con ogni parte del corpo: l’ “ebbrezza della debolezza”.

“Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza meravigliosa? Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo. Ma nella poesia d’amore di tutti i tempi la donna desidera essere gravata dal fardello del corpo dell’uomo. Il fardello più pesante è quindi allo stesso tempo l’immagine del più intenso compimento vitale. Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica. Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa si che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, dall’essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato. Che cosa dobbiamo scegliere allora? La pesantezza o la leggerezza?”

Forse è per questo che mi ostino ad un elogio della pesantezza, perché è proprio quest’ultima che ci permette di dare più valore ad ogni azione e di comprendere ogni più piccola particella del mondo che ci circonda, un mondo pesante, che però rimane sospeso nell’infinito universo. 

Martina Moscogiuri

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