L’angoscia dell’attesa

Che cosa succede se prendiamo un uomo e lo intrappoliamo in un’attesa senza apparente via di uscita se non quella della sua morte? Questa è la domanda che sembra porci la lettura de “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati.

“Assaporava con orgoglio la sua determinazione di restare, l’amaro gusto di lasciare le piccole sicure gioie per un grande bene a lunga e incerta scadenza (e forse c’era sotto il consolante pensiero che avrebbe sempre fatto in tempo a partire).
Un presentimento – o era solo speranza? – di cose nobili e grandi lo aveva fatto rimanere lassù, ma poteva anche essere soltanto un rinvio, nulla in fondo restava pregiudicato. Egli aveva tanto tempo davanti. Tutto il buono della vita pareva aspettarlo. Che bisogno c’era di affannarsi?”

All’inizio del romanzo, chiuso nella Fortezza Bastiani, l’ufficiale Giovanni Drogo vive l’attesa di una guerra che non sembra mai arrivare: quella contro i Tartari che  ripagherà, con la gloria della battaglia, l’averla a lungo aspettata. Ben presto però, quest’attesa si rivela per ciò che è realmente: un’angoscia per la vita e il suo essere immersa in un famelico tempo che tutto divora senza sosta e che conduce irrimediabilmente alla fine delle speranze e delle aspettative umane.

“Difficile è credere in una cosa quando si è soli, e non se ne può parlare con alcuno. Proprio in quel tempo Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangano sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine nella vita.”

L’incomunicabilità tra gli uomini, il senso angoscioso dello scorrere del tempo, l’indecisione continua tra il restare e l’andar via ma, alla fine, il permanere in un’attesa senza speranza: tutti questi elementi legano il romanzo di Buzzati al Beckett di “Waiting for Godot”, ma soprattutto al Kafka de “Il castello” – paragone, quello con lo scrittore praghese, più volte espresso dalla critica, tanto che Buzzati, in un’intervista del 1962 sul settimanale “Tempo“, arrivò ad affermare infastidito che: «Kafka è Kafka, io sono io. Piantiamola con questa storia».

“L’esistenza di Drogo invece si era come fermata. La stessa giornata, con le identiche cose, si era ripetuta centinaia di volte senza fare un passo innanzi. Il fiume del tempo passava sopra la Fortezza, screpolava le mura, trascinava le catene, ma su Drogo passavo invano; non era ancora riuscito ad agganciarlo nella sua fuga.”

A complicare l’attesa – quasi metafisica – di Drogo, sopraggiunge il più umano dei sentimenti: la noia. L’abitudine ricopre le azioni quotidiane – che si svuotano di significato – e ci dà l’illusione di un tempo fermo, paralizzato, ma che invece corre, lento ma inesorabile, verso la fine della vita. L’angoscia descritta da Buzzati non può non risultare inquietante anche per l’uomo più comune: perché è proprio la noia per la ripetitività della vita quotidiana e l’abitudine ad essa quella dal quale non riesce a sfuggire Drogo.

“Come al solito entrava al tramonto nell’animo di Drogo una specie di poetica animazione. Era l’ora delle speranze. E lui ritornava a meditare le eroiche fantasie tante volte costruite nei lunghi turni di guardia e ogni giorno perfezionate con nuovi particolari.”

L’unico modo per sfuggire alla noia dell’attesa è la fantasia, la capacità creativa dell’immaginazione – e qui, se non fosse troppo azzardato, si potrebbe paragonare l’imperscrutabile e imperturbabile omogeneità del deserto che fronteggia la fortezza e che avvolge lo sguardo di Drogo in attesa dei temibili Tartari, alla siepe di leopardiana memoria che occlude lo sguardo e stimola l’immaginazione del poeta – che genera un mondo fantastico, ma certamente non meno surreale dell’attendere continuamente frustrato dell’ufficiale Giovanni Drogo.

“Ma una decisione bisognava pur prenderla, e ciò gli dispiaceva. Egli avrebbe preferito continuare l’attesa, rimanere assolutamente immobile, quasi a provocare il destino affinché si scatenasse davvero.”

Ma l’illusione di avere ancora tanto tempo a disposizione nella propria vita prima o poi crolla: si è abbastanza forti da emergere dall’impasse dettata dall’attesa, senza abbandonarsi all’inevitabile angoscia che ciò genera? Questo è il momento in cui sopraggiunge la vera angoscia dell’attesa e si comprende a pieno tutto il tempo sprecato e che la vita non restituirà. Infatti:

“Da qualche tempo infatti un’ansia, che lui non sapeva capire, lo inseguiva senza riposo: l’impressione di non fare in tempo, che qualche cosa di importante sarebbe successo e l’avrebbe colto di sorpresa.
[…]
Il tempo intanto correva, il suo battito silenzioso scandiva sempre più precipitoso la vita, non ci si può fermare neanche un attimo, neppure per un’occhiata indietro. “Ferma, ferma!” si vorrebbe gridare, ma si capisce ch’è inutile. Tutto quanto fugge via, gli uomini, le stagioni, le nubi; e non serve aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita stanche si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume, che pare lento ma non si ferma mai.”

C’è un solo modo per fermare quel fiume lento che non si ferma mai: la morte, ormai l’unica aspettativa per la vita dissipata da Drogo, l’ultima battaglia per un soldato che non ha mai combattuto e che muore un attimo prima della guerra, con il nemico che incombe alle porte. E allora la vera guerra appare quella combattuta dall’uomo contro il tempo finito della sua vita, la quale ci inganna attraverso le false aspettative di giorni gloriosi e che, puntualmente, vengono deluse, lasciandoci nient’altro che l’angoscia di tutto il tempo vanificato nell’attesa.

“Oh è una ben più dura battaglia di quella che lui un tempo sperava. Anche vecchi uomini di guerra preferirebbero non provare.”

 

Danilo Iannelli

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