Il mondo è stato svegliato di soprassalto dai bombardamenti su Damasco coordinati da USA, UK e Francia, accorgendosi che in Siria si sta combattendo una guerra che ogni giorno di più assume un aspetto “mondiale”. Eppure, l’inizio del conflitto è datato marzo 2011. 7 anni fa.
Nel 2014 Ossama Mohammed, regista siriano che vive in Francia dal 2011, e Wiam Simav Bedirxan, una videomaker che ha agito sul campo in prima persona, hanno realizzato un film crudissimo sulla guerra che sta dilaniando il loro paese. “Eau Argentée – Autoritratto siriano”, presentato a Cannes e Toronto, è un documentario devastante, che merita almeno una visione (si può trovare su Netflix).
Nella prima scena viene inquadrato un prigioniero intento a baciare i piedi di un soldato, che poi lo pesta a sangue. La risoluzione è bassissima, si fa fatica a capire che si tratta di esseri umani.
Il seguito va riportato così com’è: “La sua famiglia è andata dalla polizia, chiedendo il suo rilascio. Scordatevelo, ha detto l’ufficiale. Fate un altro figlio. Se non ce la fate, le vostre donne mandatele qui, le aiuteremo noi”.
Da qui in poi è impossibile smettere di guardare, perché si rimane pietrificati di fronte a un orrore inimmaginabile o al quale vogliamo rifiutare di credere. Folle pacifiche trucidate dai proiettili dell’esercito. Volti insanguinati. Strade deserte e distrutte. Carrarmati, torture, morti. Ma soprattutto le rovine di città che dovrebbero risuonare di vita e invece si vestono di un silenzio mortale.
Il film è questo, un susseguirsi tremendo di frammenti, sequenze, fermi immagine della vita quotidiana oggi in Siria, cioè massacro e violenza, la più insensata. Un popolo contro sé stesso e ormai contro il mondo intero, come ribadiscono i manifestanti, che gridando chiedono libertà, una richiesta davvero così assurda?
E per questo è importante vederlo, nonostante sia del 2014. Per comprendere, al di là della cronaca e del resoconto giornalistico, il nocciolo della questione. Un caos totale, che degenera nelle barbarie più tremende. Di fronte a questo scenario le parti coinvolte nel conflitto e le posizioni politiche iniziano a sfumare in un inferno che non risparmia nessuno e se la prende con un popolo che è divenuto vittima sacrificale di qualcosa che ha perso di senso. L’Afghanistan è recente, così come l’Iraq, i Balcani, la Libia, la Nigeria, il Ruanda e tanti altri conflitti, più o meno dimenticati dall’opinione pubblica.
Film del genere servono. Non è una descrizione dello svolgimento della guerra, non segue la vicenda di poche persone, è un racconto totale, che abbraccia tutto e tutti, penetrando nel cuore di una delle più grandi tragedie del XXI secolo.
Ma c’è spazio per una flebile speranza, rappresentata senza retorica alcuna da un bambino che vediamo verso la fine. Tiene in mano un fiore, sorride anche. Sono immagini molto poetiche, che cozzano meravigliosamente con l’orrore che abbiamo visto finora. E ci lasciano con un senso di vuoto, come se il velo di Maya che ci eravamo costruiti per rifiutare questa realtà fosse stato squarciato dalle bombe.