Eutanasia: necessità di una regolamentazione?

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“Eutanasia” è un termine di origine greca che significa letteralmente “morte dolce”. Attualmente è utilizzato per designare il fatto che un medico ponga fine alla vita di un malato incurabile, su sua richiesta, per abbreviare le sue sofferenze. Lontana dall’essere accettata dai Paesi del mondo, questa pratica è anzi considerata quasi dappertutto illegale e costituisce un’infrazione dal momento che è ritenuta omicidio volontario.

Ciò nonostante, di fronte alla richiesta sociale emergente, la questione della legalizzazione dell’eutanasia deve essere affrontata, come avvenne in certi paesi tra cui ad esempio i Paesi Bassi (legalizzazione nel 2001) ed il Belgio (legalizzazione nel 2002). Si riscontra in effetti la volontà, da parte degli individui, di disporre dei loro corpi e di scegliere come morire. Questa stessa volontà si iscrive in una lotta a favore della libertà individuale che rimette in causa il controllo sociale – legittimato dall’esistenza di leggi specifiche – di certe pratiche individuali.

Questa domanda sociale si realizza in primis nella pratica, poiché si registrano dei casi in cui la vita è ridotta in modo circoscritto sotto il profilo medico, nonostante questo atto sia illegale. È quindi di fronte a questa realtà che il diritto deve necessariamente fornire una risposta: quest’ ultimo non dovrebbe essere utilizzato proprio come strumento dinamico atto a regolamentare le pratiche e le richieste della società?

Come abbiamo già sottolineato, la maggior parte dei paesi europei penalizzano ancora l’eutanasia; allo stesso tempo, ogni paese possiede la propria legislazione relativa ai malati in fin di vita. In Francia, ad esempio, la legge Leonetti (2005) prevede la sedazione profonda e continua: questa pratica consiste nel far sprofondare il paziente in un sonno profondo e nel cessare in seguito il trattamento, di modo che il malato muoia a causa della disidratazione e della denutrizione. In questo caso la sedazione non è responsabile del decesso e quindi, tecnicamente parlando, non risulta che l’atto medico abbia messo fine alla vita del paziente. In numerosi altri paesi le legislazioni prevedono la possibilità per i pazienti di rifiutare i trattamenti e il divieto dell’accanimento terapeutico. È evidente quindi che si tiene in conto la volontà del paziente riguardante certi aspetti delle sue cure. Tuttavia egli non ha ancora la possibilità di vedere rispettato il suo desiderio di abbreviare le sue sofferenze tramite l’amministrazione di una sostanza che porrebbe fine alla sua vita. Non è forse ipocrita autorizzare delle procedure che, tecnicamente, non provocano il decesso ma che comportano comunque la morte senza prevedere l’inserimento, in un quadro medico strettamente definito, di questi atti che mettono fine alla vita del paziente? Ci si pone questa domanda tanto più che, al contrario di quanto avviene per la cessazione del trattamento, l’eutanasia, nei paesi in cui è autorizzata, è una pratica legalmente regolamentata che deve attenersi a delle condizioni severe e che è soggetta a controlli che permettono di verificare le circostanze nelle quali è stata esercitata ma anche di assicurare il rispetto della volontà del paziente.

Nel cuore del dibattito giuridico gli oppositori alla legalizzazione dell’eutanasia schierano al primo posto il divieto di uccidere invocando la protezione del diritto alla vita, diritto fondamentale garantito dall’articolo 2 della convenzione europea dei Diritti dell’Uomo. Al contrario, i propugnatori dell’eutanasia invocano il diritto al rispetto della vita privata, protetto dall’articolo 8 della stessa Convenzione, che include tra l’altro il diritto di scegliere in che modo porre fine alla propria vita. I sostenitori dell’eutanasia chiedono allo stesso tempo il divieto di sottomissione a dei trattamenti disumani o degradanti, divieto evocato tra l’altro dall’articolo 3 della Convenzione, la quale considera degradante morire in agonia. Di fronte a questa contraddizione tra molteplici diritti fondamentali e all’assenza di un consenso tra gli Stati del consiglio d’Europa, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo adotta un approccio conciliatore senza schierarsi né a favore né contro il diritto all’eutanasia, di modo da lasciare un ampio margine d’azione agli Stati Uniti quanto alla maniera in cui regolamentare questa polemica. Questa posizione mette in luce la sensibilità di tale argomento, al quale la Corte al momento non riesce a dare una risposta perentoria. La giurisdizione di Strasburgo è solita utilizzare questo approccio quando sono in gioco questioni etiche oggetto di intense controversie, come accade anche per la questione dell’interruzione volontaria di gravidanza.

Il comitato dei diritti dell’uomo dell’ONU adotta un approccio simile alla Corte: nel suo rapporto dal titolo “Osservazione generale n°36” introduce l’idea secondo la quale il diritto alla vita, previsto dall’articolo 6 del Patto Internazionale relativo ai diritti civici e politici, non impedisce la legalità di una pratica come l’eutanasia, insinuando addirittura che un tale diritto dovrebbe essere attuato dagli Stati in un quadro regolamentare rigoroso. Così facendo, il Comitato dei diritti dell’uomo lascia un ampio margine di manovra agli Stati quanto alla realizzazione di una tale pratica.

Questa mancanza di consensi all’interno dei paesi europei fa sì che i pazienti desiderosi di porre fine alle loro vite abbiano l’opportunità di recarsi in Paesi nei quali questa pratica è autorizzata e viene incontro alle loro volontà. è infatti frequente che i malati, agonizzanti, raggiungano la Svizzera per beneficiare del suicidio medicalmente assistito, in quel fenomeno che può essere definito come “turismo mortuario” e che mostra in che misura gli Stati non riescano ad andare incontro alle volontà individuali dei loro abitanti. È ipocrita continuare a chiudere gli occhi sulla necessità di realizzare un quadro giuridico che si occupi dell’amministrazione di sostanze letali volta ad alleviare le sofferenze del malato. Appurato che gli Stati non si avvicinano ai desideri dei singoli individui, il loro ultimo ricorso è almeno quello di tenere in considerazione le pratiche esistenti con lo scopo di regolamentarle e renderle il più rispettose possibile dei diritti fondamentali.

 

Louna Monaco
Traduzione di: Eleonora Valente


Bibliografia:

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