Il suicidio dell’ultimo samurai

La prima volta che presi in mano un romanzo di uno scrittore giapponese fu ormai quattro anni fa, “Io sono un gatto” di Natsume Sōseki. Mi innamorai dopo neanche una decina di pagine dello stile delicato e sognante, capace di mettere ragionamenti di filosofia e decadenza morale nella bocca di un gatto, e ciò nonostante di farlo sembrare perfettamente normale, come se un gatto non potesse per sua natura far altro che ragionare del corso della storia. Quella leggerezza l’ho poi ritrovata in Yusunari Kawabata e in Jun’ichirō Tanizaki, per arrivare infine alla sublimazione definitiva: gli scritti di Yukio Mishima.

In opere come “La foresta in fiore” o “Il padiglione d’oro” la leggerezza e la poesia di Mishima raggiunge livelli inimmaginabili, paragonabili solamente a quelli dei fiori di ciliegio che del Giappone sono simbolo. E proprio con questi fiori la magia di Mishima condivide l’effimerità. Fin da giovane ossessionato dall’idea della morte, sia a livello personale sia artistico, decide di unire questo disagio esistenziale al suo ideale politico di patriottismo tradizionalista.

“Non desidero nulla. La sola cosa che desidero è che una di queste mattine, mentre i miei occhi sono ancora chiusi, il mondo intero cambi.”

Il mondo però era già cambiato, purtroppo non come avrebbe voluto lui. La Costituzione del 1947 e la firma del trattato di San Francisco del 1951, che segnava di fatto la definitiva conclusione della seconda guerra mondiale e l’inizio del protettorato degli Stati uniti sul Giappone, avevano secondo lui subordinato il sentimento nazionale giapponese – identificato nell’Imperatore – alla democrazia e all’occidentalizzazione.

Il 25 Novembre 1970, all’età di 45 anni,  insieme a quattro membri del Tate no Kai (“Associazione degli scudi”, un organizzazione paramilitare di cui era fondatore e finanziatore) tra i quali Masakatsu Morita e Hiroyasu Koga, occupa l’ufficio del generale Mashita dell’esercito di autodifesa base militare di Ichigaya. Dal balcone dell’ufficio, di fronte a un migliaio di uomini del reggimento di fanteria, oltre che a giornali e televisioni, tenne il suo ultimo discorso.

“Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.”

Dopo aver terminato il discorso rientrò nella stanza e si apprestò a fare seppuku, il suicidio tradizionale. Morita si avvicinò con la katana e si posizionò alla sinistra del suo maestro, mentre Yukio Mishima si accarezzava l’addome con la mano sinistra, cercando il punto in cui spingere lo yoroi-dōshi, un lungo pugnale affilato. La lama affondò nella carne per cinque centimetri, ma immediatamente il corpo reagì e i muscoli addominali si tesero cercando di espellerla. Mishima gonfiò il torace e usando entrambe le mani, con uno sforzo sovrumano spinse la lama verso destra per tredici lunghi centimetri, poi finalmente si accasciò. Con tutta la sua forza Morita portò giù la sciabola, ma il fendente non andò a segno, colpendo il maestro sulla spalla destra. Morita alzò di nuovo la spada, ma di nuovo la katana andò fuori controllo e si abbatté sulla schiena. Al terzo tentativo Morita colpì il collo, ma non riuscì a tagliare fino in fondo. Fu Hiroyasu Koga a strappargli di mano la spada e a decapitare definitivamente Yukio Mishima.

Perse così la vita dopo un lunghissimo travaglio uno degli scrittori più controversi  dello scorso secolo. Fu considerato da alcuni vicinissimo al fascismo per i suoi sentimenti nazionalisti, ma al contempo è molto apprezzato dagli ambienti progressisti per la sua dichiarata omosessualità (tant’è che secondo la scrittrice Marguerite Yourcenar il suo allievo Morita era anche suo amante). Io personalmente mi ritrovo a condividere la visione di Alberto Moravia, che dopo averlo incontrato a Tokyo lo definì “un conservatore decadente”: un immenso scrittore vittima della sua stessa nostalgia per un Paese amato in maniera morbosa, e del quale non ha potuto arrestare il cambiamento neanche con la morte.

Paolo Palladino

 

BIBLIOGRAFIA:

Mishima: a Vision of the Void, Marguerite Yourcenar, University of Chicago Press, 2001

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