Dopo la professoressa accoltellata da un alunno lo scorso 1 febbraio, la scorsa settimana un nuovo caso di violenze nei confronti di un docente da parte di alcuni alunni ha scosso l’opinione pubblica italiana: mi riferisco ovviamente al video del professore deriso e aggredito da un gruppo di studenti dell’istituto I.T.C. Carrara di Lucca. Durante la stessa settimana, è inoltre rimbalzato – sui social prima e in televisione poi – un altro video, quello del 17enne bullizzato in aula da un suo compagno di classe nell’I.I.S.S. Enrico Fermi di Lecce.
Che cosa accomuna questi due eventi di cronaca? La risposta mi sembra scontata: la violenza. E, se la direzione di tale violenza appare senz’altro non congruente, a mio parere non possiamo dire altrettanto delle origini: ovvero la mancanza di rispetto per il ruolo educativo e istituzionale del professore e, di conseguenza, nei confronti dell’istituzione scolastica; ma anche il disagio serpeggiante e aggressivo della generazione oggi in età scolastica.
In entrambi i casi, certamente, alla violenza di questi eventi si deve evitare la risposta che, partendo dall’anonimo sudiciume dei social, è rimbalzato fino ai programmi televisivi e radiofonici: ovvero – ancora – quella della violenza.
In questo breve articolo non mi interessa puntare il dito su uno o sull’altro attante, oppure parlare a bocce ferme e decretare la palese colpevolezza dell’uno o dell’altro ragazzo o, ancora, illustrare le conseguenze legali che questi gesti comporteranno: basta fare una breve ricerca sul web o accendere la tivù per reperire queste informazioni. Mi sembra piuttosto che possa essere interessante cercare un altro tipo di risposte e riflettere non tanto sugli eventi presi singolarmente – che di per sé, ci mancherebbero, sono già gravissimi – quanto sul fatto che questi avvengano all’interno di un aula scolastica.
Già, perché atti di violenza e derisione purtroppo non sono affatto un fenomeno recente all’interno del mondo giovanile e scolastico – e del mondo umano tutto, oserei dire: la nuova problematica sorge quando questi avvengono all’interno dell’edificio scolastico, dinanzi agli occhi inermi della classe che documenta con il proprio smartphone, o direttamente e nei confronti dell’insegnante che, come mostra appieno il video dell’aggressione di Lucca, appare totalmente inerme.
Il punto di partenza infatti non può che essere la reazione del professore di Lucca durante l’aggressione da parte dei suoi studenti. Negli ultimi giorni se ne sono sentite di tutti i colori: da chi invocava il ceffone educativo e il ritorno alle bacchettate sulle mani a chi – più saggiamente – indicava la via del provvedimento disciplinare. Inutile dire che è quest’ultima la via da seguire: ma non basta. No, non basta soltanto cominciare ad adottare i sacrosanti provvedimenti disciplinari per gli alunni che agiscono in questo modo; prima di ogni cosa bisogna riqualificare ai loro occhi la figura dell’insegnante e della scuola.
La postura e la gestualità dell’insegnante aggredito a Lucca, personalmente non mi suggeriscono l’idea di una timorosa sottomissione – a differenza di ciò che spesso ho sentito in questi giorni – quanto piuttosto quella di una rassegnata passività.
Il professore viene purtroppo sovente lasciato solo: non soltanto dall’istituzione scolastica, ma anche e soprattutto dai genitori e dalle famiglie degli alunni.
Del tacito patto che dovrebbe esserci tra gli insegnanti e le famiglie degli alunni ne abbiamo già discusso nell’articolo del 7 febbraio 2018, riferendoci all’insegnante accoltellata a Santa Maria a Vico (CE); in questa sede ci basti riflettere allora sulla mancanza di fiducia – e successivamente di rispetto – che i ragazzi mostrano sempre più nei confronti della figura dell’insegnante e dell’istituzione scolastica.
La scuola e l’insegnante devono tornare ad essere un punto di riferimento saldo all’interno della vita degli studenti, i quali oggi più che mai hanno a mio parere fortemente bisogno di figure stabili in cui riporre la propria fiducia. Come però?
Di certo non con gli schiaffoni, le bacchettate e le minacce di morte, come quelle recapitate a uno degli studenti dell’ITC Carrara di Lucca; la risposta alla violenza dei ragazzi, lo ribadisco, non può essere la violenza: altrimenti si lascia tacitamente intendere loro che è con la forza che si ottiene il rispetto altrui.
Citando Michele Salvemini – al secolo Caparezza – “Non ascoltare questi maldicenti/ Non si va avanti con la forza ma con la forza degli argomenti”: bisognerebbe restituire autorevolezza – più che autorità – all’insegnante e all’istituzione scolastica; non attraverso le punizioni, che siano esse corporali – come ancora auspica qualche retrogrado – o disciplinari, ma attraverso la riqualificazione del ruolo educativo e formativo del professore e della scuola tutta. Si dovrebbe estirpare la convinzione che la scuola serva soltanto ad ottenere il “pezzo di carta” utile ai fini lavorativi: a partire dalle famiglie, sarebbe opportuno iniziare ad inculcare ai ragazzi, sin da bambini, “l’educazione all’educazione”, ovvero la consapevolezza che a scuola non si imparano soltanto nozioni più o meno utili nel mondo lavorativo, ma si acquisisce un bagaglio culturale e formativo necessario allo sviluppo di ogni individuo che miri a coesistere civilmente all’interno della società umana.
E ciò, si noti bene, dovrebbe avvenire anche attraverso una riqualificazione degli indirizzi professionali – mi sembra importante sottolineare che i due succitati eventi sono accaduti proprio all’interno di istituti professionali – oggi ritenuti sede privilegiata dello studente che “non ha voglia di studiare” e che dovrebbero invece essere riassorbiti all’interno di un nuovo mondo educativo e formativo, più ampio e fluido, che non si basi unicamente alle nozioni offerte, ma faccia perno sulla formazione di un cittadino educato e consapevole, a prescindere specializzazione teorica e/o pratica che egli abbia scelto.
Per concludere, bisognerebbe auspicare un aggiornamento del concetto di auto-educazione post-sessantottesco e soprattutto, grazie all’intervento e alla ritrovata consapevolezza delle famiglie, rendersi conto che l’insegnante, checché se ne dica, è ancora una figura indispensabile nell’educazione e nella formazione dei ragazzi – non solo per l’aspetto didattico, ma anche per quello formativo-educativo – e che la scuola, oltre a fornire un titolo di studio utile nel mondo del lavoro, plasma l’adolescente e lo guida, fornendogli i mezzi culturali necessari, alla comprensione e al suo inserimento nel mondo degli adulti. Solo in questo modo – non attraverso l’autorità imposta – si potrà investire nuovamente l’insegnante e la scuola dell’autorevolezza che meritano e far così in modo che essi vengano rispettati e, insieme, possano formare cittadini che rifuggono la violenza e rispettano la diversità.