Mektoub, my love, ovvero Kechiche all’attacco

Il nome di Abdellatif Kechiche (1960) suscita sempre una serie di reazione fortissime a seconda di chi ne parla: le femministe lo odiano e sperano di fargli abbassar la cresta a suon di citazioni della meschina Laura Mulvey e della sua teoria del male gaze; i cinefili lo amano per quel suo stile magmatico, pervasivo, con una passione estetica del fisico giovanile guardato da vicino con camere a mano.

Non è certamente per tutti gli stomaci: guardare una vita con una dilatazione temporale tale da sembrare quella reale non è esattamente un magnete per i palati commerciali e per chi vuole una storia con il distacco americano.

Kechiche vuole occhi attivi e voraci da parte dei suoi spettatori. Le critiche ed il fatto umiliante d’aver dovuto vendere la sua Palma d’Oro per La vie d’Adéle non hanno fermato il suo progetto monumentale, una trilogia che inizia proprio con Mektoub, my love.

Ispirato dal romanzo di François Bégaudeau “La blessure, la vraie”, Kechiche ha modificato la storia d’origine per imporre un nuovo ambiente e nuovi personaggi.

Il protagonista è Amin (Shaïn Boumedine), ragazzo introverso, timido con le ragazze, un po’ vouyeur, aspirante sceneggiatore che da Parigi torna nella sua solare Sète. Nel calore dell’Occitania lui osserva amici e parenti con fare circospetto, contemplativo, mosso dal bisogno di vedere e di desiderare in silenzio.

Suo cugino Toni (Salim Kechiouche) va a letto con la sua amica Ophélie (Ophélie Bau), fidanzata di un militare lontano. La ragazza ha linee formose, non è timida nel mostrarle e la sua origine dalla campagna le conferisce un fascino agreste. Attorno a questo trio si muove una corte di conoscenze, amicizie, legami familiari tra cui uno zio particolarmente simpatico e sanguigno.

L’interesse di Amin va alla sua Ofelia, amica d’infanzia maliziosa e smaliziata al contempo. Un accordo stipulato per amor dell’arte in questo film porterà ad una nuova intimità sognata dal protagonista ma per la totale o sfumata realizzazione del desiderio bisognerà aspettare le altre due parti della trilogia.

I fan di Kechiche saranno felici di vedere nel ruolo della zia Camélia la presenza di Hafsia Herzi, cui il regista ha dato fama grazie a “Cous Cous”, film che le ha fatto vincere il Premio Mastroianni.

Nell’orgia delle forme si stringono i rapporti, si fa l’elogio della vitalità, si recupera il senso del corpo. Le due citazioni dell’inizio, una evangelica e l’altra coranica, sono sempre in linea con l’esaltazione del bello, del fiorente, del giovane. Kechiche è un Mimnermo mischiato ad un Rossellini.

La tristezza dei Dardenne è lontana. Al suo posto c’è uno sguardo pressante che ama e spia al contempo con piacere continuo. Emblematica la scena del parto degli agnellini con un sottofondo di musica classica, proprio come la sequenza della discoteca dove c’è un esplodere di fisionomie femminili che sembrano attaccare più che mostrarsi.

Da oggi al cinema, il film di Kechiche non è che un frammento di un trittico pronto a portarci nella vita del suo Antoine Doinel. Il consiglio è solo uno: immergersi e non opporre resistenza.

Antonio Canzoniere

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