Quelli che sono venuti

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Come i rifugiati hanno cambiato la Germania.

1.Confini

È la calda estate europea, 2015. Persone si muovono attraverso il continente: qualcuno da solo, altri con le loro famiglie. Grecia, Ungheria, Serbia, Austria. Zii e nipoti, madri e figli, fratelli e sorelle tentano di scappare da guerra, estrema povertà, disperazione nelle loro case. E sanno dove vogliono andare: i notiziari riportano di gruppi di giovani migranti che cantano ripetutamente “Germania, Ger-ma-nia”, alcuni sventolando foto della cancelliera tedesca, Angela Merkel. Alle loro spalle si riversa una vera odissea, un lungo, fastidioso e potenzialmente mortale viaggio via dalla loro patria e sul mare. Una volta sul terreno europeo, sono stati frequentemente fermati ai confini, bloccati prima delle recinzioni, respinti dalle forze di polizia, obbligati a dormire in campi di fortuna. Ora in Ungheria per prima cosa è stato promesso loro un passaggio per l’Austria, hanno anche comprato il biglietto per il viaggio in treno – poi improvvisamente trattenuti su ordini del governo ungherese. Dopo il loro viaggio senza fine, dopo le squallide condizioni in cui hanno vissuto così a lungo, dopo gli atteggiamenti meno-che-accoglienti delle nazioni attraverso cui sono passati, la Germania sembra molto simile ad una terra promessa. 

In teoria una situazione come quella che un tempo Angela Merkel e i suoi colleghi europei hanno affrontato nell’estate 2015 non si sarebbe mai verificata: gli ora famosi “trattati di Dublino” dichiarano che ogni richiesta d’asilo deve essere esaminata nel primo stato europeo in cui i richiedenti entrano. Se essi lasciano quello stato e fanno richiesta d’asilo in un altro stato membro dell’Unione, devono essere rimandati indietro. Questa è stata, fin dall’inizio, ovviamente un’ingiusta legge, che ha messo il carico sull’accettazione dei rifugiati sui membri esterni dell’Unione Europea: per prime Grecia e Italia, mentre nazioni come la Germania, circondate da vicini europei, essenzialmente non avrebbero richieste d’asilo da esaminare. Ma nell’estate 2015 i trattati di Dublino non erano più solo ingiusti: sotto l’influsso di così tante persone disperate era semplicemente diventato impossibile farli rispettare.

Dalla Germania lungo tutta la “via dei Balcani” e nei paesi d’origine di molti rifugiati si è diffusa perciò una diceria: le autorità tedesche stavano lasciando le persone entrare anche se provenienti da altri stati dell’Unione Europea. Il 25 agosto una già tormentata agenzia di migrazione e rifugiati, ora conosciuta da tutti i tedeschi con l’acronimo Bamf, disse al mondo che sì, al momento l’agenzia non stava più rimandando indietro i richiedenti asilo siriani agli altri paesi dell’Unione. I trattati di Dublino, in altre parole, erano morti. Il 31 agosto la Merkel pronunciò il suo storicamente vicino “Wir schaffen das” – “Possiamo farlo”. Il 4 settembre i rifugiati bloccati a Budapest erano stanchi di aspettare, così hanno iniziato a camminare in autostrada verso Vienna, puntando a raggiungere il confine tedesco. Perché non avrebbero dovuto? Non volevano stare in Grecia, così sono andati avanti. Non volevano stare in Ungheria – e il governo ungherese non li voleva allo stesso modo. Per il Capo del governo, Viktor Orban, la marcia presto è diventata una meravigliosa opportunità per questo problema: ha ordinato che degli autobus andassero a prendere i camminatori e promesso loro un passaggio al confine austriaco. Orban e la sua squadra li stavano semplicemente abbandonando lì, lasciando che Berlino o Vienna se ne preoccupassero. A quel punto Angela Merkel ha preso una decisione: per alcuni una reazione pragmatica alla rapida evoluzione della situazione, per altri un umanitario atto di compassione degno di essere celebrato, per altri ancora è stato il suo peccato originale, il suo errore fatale. Quelle persone potevano entrare, lo aveva deciso. La Germania e l’Austria hanno procurato loro treni. Questa è stata un’eccezione per sei o settemila dei camminatori esausti. E, invece, quale sarebbe stata l’alternativa? Orban aveva incastrato la Merkel: l’unica alternativa era chiudere i confini. La Cancelliera e i suoi assistenti temevano che la polizia avrebbe dovuto usare la forza per prevenire la creazione di folla all’attraversamento del confine. Ciò avrebbe creato una brutta immagine: cannoni ad acqua, manganelli, spray urticanti usati contro famiglie stanche. Non un’opzione, avevano deciso. E quindi sono venuti.

2. Principi

Uno dei maggiori giornali tedeschi ha ribattezzato le dubbiose e tese ore tra il 4 e il 5 settembre 2015 “la notte in cui la Germania ha perso il controllo”. Alla fine dell’anno all’incirca 890,000 richiedenti asilo erano nel Paese. Avevano incontrato una nazione impreparata: l’ultima volta che la Germania aveva dovuto affrontare un così grande numero di immigrati era stato nei primi del ‘900, quando un largo numero di persone fuggiva dalla sanguinosa guerra dei Balcani. Come il mondo era entrato nel nuovo millennio, il numero dei richiedenti asilo era sceso significativamente. Nel 2007 non erano state esaminate neanche 20,000 richieste d’asilo dalle autorità tedesche.

Già un impegno a fornire riparo esisteva fin dalla fondazione della democrazia tedesca post-1945. Nel 1948-49 il Consiglio parlamentare, l’assemblea costituente per quella che sarebbe diventata la Germania Ovest, discusse riguardo la stesura di una costituzione. Molti dei membri del consiglio erano stati zittiti e perseguitati durante gli anni del nazismo. Ora essi volevano includere il diritto all’asilo nel primo articolo della Grundgesetz, o “Legge fondamentale”. Alcuni volevano che fosse limitata ai soli tedeschi – pensando a coloro che fuggivano dalla zona occupata dai sovietici, che era costruita come uno stato satellite comunista di Mosca. Altri suggerivano di limitare l’asilo a quelli che erano perseguitati perché combattevano per la pace nel mondo, la democrazia e la giustizia. Altri ancora, primo tra tutti il socialdemocratico Carlo Schmid, opponevano qualche restrizione: chi avrebbe definito cosa “combattere per la pace” significasse? Se la protezione fosse dipesa dalla visione dei richiedenti asilo allineata con la posizione dello Stesso tedesco, quanto sarebbe stato un giusto valore? La parte di Schmid vinse la discussione e così  nacque l’articolo 16 e la Grundgesetz d’ora in poi avrebbe affermato: “Le vittime di persecuzioni politiche hanno il diritto all’asilo”. In quei primi anni dopo il collasso del nazismo, i tedeschi avrebbero saputo cosa essere dislocati significasse: dopo la guerra ben venti milioni di “tedeschi” (che includevano persone che avevano nomi tedeschi o origini tedesche da qualche parte nel loro albero genealogico) vennero espulsi dall’Est Europa. Le deportazioni erano ufficialmente tollerate, erano parte degli Accordi di Potsdam con gli Alleati. Le espulsioni erano brutali e in più quelli che se ne andavano non erano sempre solo vittime: molti erano speculatori dell’espansionismo di Hitler, della sua politica di soggiogamento di popoli di cui aveva conquistato le terre. Ciò nonostante questa esperienza di spostamento, di fuga dalla violenza, di un lungo ed estenuante viaggio e poi di essere trattati con ostilità (quelli che vivevano in Germania erano spesso riluttanti a dividere le poche cose che avevano con i nuovi arrivati) non è così diversa da ciò che i rifugiati di oggi hanno vissuto.

Ma l’articolo 16 non è rimasto intoccato. Nel 1993, tra accesi dibattiti, i partiti governanti della Democrazia Libera e dei Cristiai Democratici (FDP e CDU, il secondo è il partito della Cancelliera Merkel) persuasero l’opposizione dei Social Democratici a votare per modificare la costituzione. L’articolo 16 venne trasformato in 16a e fu modificato con altre clausole. D’ora in poi le richieste d’asilo sarebbero state rigettate per chiunque venisse da un “paese d’origine sicuro” o entrasse in Germania da un “terzo paese sicuro”. Poiché la Germania era circondata da terzi paesi “sicuri”, il Bundestag aveva quindi creato un muro virtuale che correva lungo tutto il confine tedesco come un tratto di penna, un provveddimento legale che sottintendeva che un richiedente asilo potesse entrare legalmente solo cadendo dal cielo con un paracadute o forse arenandosi sulla spiaggia di Sylt (coloro che hanno bisogno di asilo possono difficilmente prendere un aereo per un paese sicuro, per ovvie ragioni). La decisione rimane controversa fino ai giorni nostri, vista come un’erosione dei nobili provvedimenti della Legge Fondamentale e motivata da tutte cattive ragioni: la riforma sull’asilo è coincisa con un momento turbolento in Germania, marcato da tremende violenze e risentimento diretti agli stranieri. Rivolte razziste ebbero luogo in Hoyerswerda e Rostock-Lichtenhagen, dove i richiedenti asilo e i “lavoratori stranieri” erano stati portati dal precedente governo socialista della Germania dell’est e dove venivano terrorizzati nelle loro residenze. I giornali alimentavano sospetti e stereotipi, chiedendo se quelli che venivano erano davvero autorizzati alla protezione. I politici al tempo offrivano molti più argomenti: la riforma dell’asilo era stata necessaria, le comunità erano sopraffatte dall’afflusso di persone, ecc. Suonava tutto molto come oggi e col senno di un quarto di secolo poi l’interpretazione più disturbante potrebbe solo essere molto simile a questa: il Parlamento ascoltava la massa.

L’eco del 1993 era piuttosto alto nel 2015. Nuovi nomi sono stati aggiunti alla lista della vergogna: le masse ora dominavano Freital e Heidenau. I rifugi temporanei per i richiedenti asilo erano stati bruciati. E quindi il governo aveva deciso di riformare – o meglio, di limitare – ancora una volta il diritto all’asilo, per impedire più arrivi, per tranquillizzare le folle la cui rozza rabbia e il risentimento stavano andando fuori controllo.

C’è certamente un lato positivo della storia. Ci sono quelli che accolgono alla stazione centrale di Monaco, che applaudono ai treni che arrivano. Ci sono masse di persone di ogni credenza, orientamento politico, età e provenienza che fanno volontariato – il famoso Willkommenskultur. Ci sono gli impegni intrapresi dalle chiese tedesche e dalle comunità ebraiche, che sostengono coloro che arrivano qui. Gli abiti donati, le case aperte, i corsi di lingua organizzati, le proteste e le veglie contro la violenza e la discriminazione razziste. Gli impiegati che si sono presi dei rischi e hanno dato tirocini a giovani rifugiati. Mia nonna è tra questi, un’insegnante del liceo in pensione che ha con successo guidato i “suoi” rifugiati attraverso il difficile esame di lingua tedesca. Questo coinvolgimento civile è la prova vivente che lo spirito di quelli che hanno scritto la nostra costituzione è vivo, la prova vivente che la maggior parte dei tedeschi è diventata democratica nei passati settant’anni, la prova vivente che ci sono milioni in questo paese che hanno sacrificato ore, giorni e settimane del loro tempo ad aiutare le persone bisognose. È una dimostrazione di forza, di impegno e compassione, che permette alle persone come me, che hanno sempre difficoltà con le implicazioni dell’oscuro e vergognoso passato del nostro paese, di essere orgogliosi di questa società. Di come ha aperto le sue porte nel momento del bisogno.

Come queste due parti disparate vanno bene insieme? Come l’apertura dei confini della Merkel quadra con i continui tentativi della sua coalizione di limitare e scoraggiare l’immigrazione, con l’aumento della politica delle deportazioni e la sempre in espansione lista dei “paesi d’origine sicuri”? Come può esserci una così grande volontà di aiutare da un lato, e un tribale, violento e virulento rifiuto di una società aperta dall’altro? Perché la Germania è ora divisa. Divisa lungo la linea del “i rifugiati sono benvenuti” e del “chiudete i confini”, più appassionatamente e più pericolosamente che divisa lungo la linea della religione, dell’etnia o materiale. I rifugiati hanno cambiato la Germania, il modo in cui percepiamo noi stessi.

3.Lo shock

24 settembre 2017, ore 18: fra l’aiutare a organizzare un evento scolastico e il lamentarmi per la scarsa connessione del cellulare, continuo ad aggiornare le notizie sul telefono appena escono i primi exit poll delle elezioni federali.

Era ampiamente previsto che Alternative für Deutschland, un partito populista di destra fondato da degli euroscettici nel 2013 e trasformatosi poi nella voce dell’opposizione alle politiche di accoglienza nei confronti dei migranti, potesse andare molto bene a livello elettorale – nonostante fossero passati due anni dagli accesi dibattiti del 2015 e dalle immagini quotidiane di migliaia di persone che si riversavano nel paese, le questioni di diritto d’asilo e di immigrazione sono rimaste al centro della campagna elettorale.

L’ascesa della destra populista era, ovviamente, tutt’altro che un fenomeno esclusivamente tedesco, e il suo risultato finale del 12,6% dei voti espressi è comunque inferiore al supporto di cui hanno goduto partiti simili in altre nazioni europee. Ma in Germania, sensibilità storiche comportavano che qualsiasi significativo segno di supporto per l’AfD sarebbe equivalso a un cambiamento storico nel panorama politico. Pertanto, il risultato ha causato onde d’urto in tutta la nazione. In alcune parti del paese, il supporto per l’estrema destra è stato persino superiore alla media: negli stati dell’ex Repubblica Democratica Tedesca, il partito ha vinto tra un quinto e un quarto dei voti espressi. Si può offrire una varietà di spiegazioni a questo fenomeno: scollamento dalle élite politiche e la stagnazione economica che affligge l’ex Germania dell’Est, che un tempo prometteva si sarebbero sviluppati “paesaggi fiorenti” dopo la riunificazione. Gli elettori del partito sono descritti con gli stessi termini di chi ha scelto la Brexit e catapultato Trump alla Casa Bianca: classe operaia, abbandonata a sé stessa dalle ondate di rapidi cambiamenti, sentendosi ignorata.

Recentemente, un sociologo ha fatto notizia comparando l’esperienza dei tedeschi dell’est con quella dei migranti, entrando in forte contrasto con chi sottolineava come mentre entrambi i gruppi avevano “perso” i loro paesi in un modo (la frattura avvertita dal crollo della DDR era considerevole), i tedeschi dell’est non hanno mai dovuto andarsene fisicamente, non hanno mai dovuto adattarsi a una cultura e a una lingua completamente nuove. Questo è chiaro: l’AfD è un partito apertamente ostile a molti principi della moderna democrazia tedesca, i suoi rappresentanti hanno attaccato non solo il diritto di asilo ma anche la libertà religiosa e la stessa nozione di diritti delle minoranze. Attira l’attenzione giocando sul pregiudizio, le sue provocazioni calcolate causano ferite e divisioni (gli esempi sono numerosi: uno dei leader del partito, Alexander Gauland, ha descritto il Terzo Reich come non più di una “merda d’uccello” nella lunga storia della Germania, o ha suggerito di “sbarazzarsi” del ministro socialdemocratico per l’integrazione della discendenza turca, Aydan Oezoguz, mandandolo in Anatolia. La sua collega Alice Weidel ha commentato riguardo il bilancio del governo in parlamento che “burka, ragazze con il velo, assassini dipendenti dal welfare e altre nullità” non sosterrebbero la prosperità e lo stato sociale della Germania). Mentre non tutti gli elettori del partito sono degli spaventosi razzisti, e i tentativi di riportarli nel rispetto delle politiche democratiche potrebbero essere fruttuosi, è difficile vedere come una persona rispettabile sarebbe in grado di guardare a tali esempi di incitamento all’odio e giustificare ancora questo partito. Il partito che ha riportato l’odio nella politica tedesca.

4.Le conseguenze

 Questa è la terza estate da quando sono arrivati, eppure il dibattito prosegue ininterrotto. Oggi è alimentato da una serie di crimini di alto profilo commessi da migranti e richiedenti asilo: a giugno, una quattordicenne è stata violentata e uccisa, il sospetto è un iracheno, a cui era stato negato l’asilo e che stava per appellarsi a quella decisione, fuggito poco dopo che il suo corpo era stato scoperto con la sua famiglia. L’omicidio di Wiesbaden di Susanna F. si lega a reati simili compiuti in altre città i cui nomi sono diventati ormai parole pesanti: Friburgo e Kandel. Nonostante la tragedia di questi casi e i fallimenti a volte oltraggiosi delle autorità che li accompagnano, qualsiasi analisi seria dovrebbe naturalmente riconoscere che si tratta di crimini individuali, non rappresentativi della stragrande maggioranza di chi è arrivato. Eppure, nel clima politico predominante, sono diventati strumenti di reclutamento efficacemente letali per l’AfD. Spesso danno direttamente la colpa alla Merkel e all’establishment per tali eventi. Questo rende l’idea di quanto sia diventata acida l’intera questione dell’immigrazione. Lungi dall’essere un ragionevole scambio di argomenti sui benefici economici e sociali e gli svantaggi di una politica di immigrazione permissiva, l’AfD e altri sono scesi in stereotipi di base e politica del terrore.

Il dibattito sui rifugiati ha creato un suo vocabolario, parole chiave che fluttuano intorno alle notizie per alcune settimane, proposte politiche lanciate per combattere la marea populista: “centri di transito”, “centri di ancoraggio”, più deportazioni. Recentemente, la famiglia dei talk-show tedeschi è stata criticata presumibilmente per esser stata troppo focalizzata sulla questione della crisi migratoria, andando così a rafforzare l’agenda delle forze di destra. Ovviamente è necessaria una conversazione aperta e onesta su questo argomento. I tedeschi di tutte le fazioni politiche riconoscono che l’arrivo dei rifugiati ha avuto un impatto significativo che deve essere discusso. Eppure, è altrettanto vero che il dibattito annega altri temi altrettanto cruciali: il futuro dell’Europa, pensioni, posti di lavoro insicuri, cambiamenti climatici. L’altro problema chiave è il grado di divisione, la tossicità che definisce il modo in cui ora parliamo di immigrazione.

Chiaramente, non tutti quelli che vengono qui hanno il diritto di rimanere. Ed è anche vero che per un periodo di tempo alla fine del 2015 c’è stato un collasso del controllo, in quanto lo stato tedesco non era più in grado di processare i nuovi arrivi. Tuttavia, la Germania ha un impegno storico a fornire riparo, e molti tedeschi avranno antenati che hanno vissuto il trauma dello sfollamento e della fuga. Il dibattito che abbiamo oggi dovrebbe essere informato di questo. Il diritto di asilo non è negoziabile, deve essere garantito a prescindere dalle considerazioni politiche del giorno. Coloro che sono venuti ci hanno cambiato, questo è sicuro.

E la sfida di integrarli pienamente nella società, al di là delle necessità immediate di alloggi e assistenza sanitaria, non verrà risolta per anni. Perché, sembra chiaro, quelli che sono venuti è probabile che rimangano a lungo. Riceverli adeguatamente, con regole e umanità, potrebbe darci un’opportunità eccezionale per essere orgogliosi del nostro paese. Perché, nonostante tutte le critiche che si possono fare ad Angela Merkel, nonostante tutte le accuse rabbiose che le imputano di non essere riuscita ad agire nell’interesse dei tedeschi, che cosa è “Possiamo farcela” se non un’espressione della massima fede nel nostro paese? Questa affermazione non è forse l’incarnazione di una fiducia patriottica, una convinzione di avere la capacità di aiutare queste persone? Chi, se non questo paese, può farlo? Possiamo farlo. E lo faremo.

 

Traduzione di Martina Moscogiuri e Claudio Antonio De Angelis

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