Due ragazze sono stese al buio su un divano. Una è comodamente adagiata tra lo schienale e il bracciolo, ha il volto, le braccia e le mani impiastricciate di sangue e sta dormendo dormendo sonni artificiali causati dal roipnol disciolto nel bicchiere dal quale ha scelto di bere nonostante l’amica l’avesse avvisata di averlo drogato.
L’altra ha i vestiti zuppi di sangue e indossa dei guanti con cui stringe un coltello. Ha alzato il braccio dell’amica e vi si è accoccolata sotto, poggiando la testa sulle sue gambe in cerca di un conforto che lei non ha mai saputo dare a nessuno.
Se dovessi scegliere un’unica scena per descrivere “Amiche di sangue” di Cory Finley, non potrebbe essere che questa.
Per invitarvi a recarvi di corsa nel più vicino cinema a vederlo, devo dirvi almeno la trama in pillole. L’intera pellicola poggia sulle giovani spalle delle due protagoniste: Lily, una ragazza viziata che ha frequentato gli ambienti migliori, interpretata da Anya Taylor-Joye, e Amanda, coetanea che ha grossi problemi nel relazionarsi con il resto del mondo, soprattutto a causa della sue completa assenza di emozioni. L’unico elemento che sembra turbare la vita di Lily è il suo patrigno Mark, tanto che penserà di ucciderlo facendosi aiutare dalla stessa Amanda. Dapprima cercheranno di coinvolgere un piccolo spacciatore con tanti sogni e poche capacità, Tim, ultimo personaggio interpretato da Anton Yelchin prima di morire appena quattoridici giorni dopo la fine delle riprese, ma alla fine dovranno occuparsene da sole, puntando unicamente sull’odio dell’una e sull’innaturale insensibilità dell’altra.
Nonostante la sceneggiatura risulti a tratti eccessivamente artificiosa, il filo narrativo e tenuto sempre teso da un martellante senso d’ansia e angoscia che pervade a volte anche immotivatamente la maggior parte delle scene, dalle quali risulta impossibile distrarsi.
Il film, suddiviso in capitoli, scorre incessante fino ai colpi di scena finali, disimpegnandosi alla perfezione nel monumentale compito di riuscire contemporaneamente a divertire, inquietare e riflettere il proprio pubblico, spingendolo a rielaborare le proprie convinzioni riguardanti l’empatia, la stratificazione sociale e la complessa arte di affrontare la morte.