156 pagine, 43 racconti – nel senso più puro del termine – in cui Gino Strada raccoglie… Cosa raccoglie, cosa racconta? Racconta di un mondo che sembra fantasia, di un mondo che non può e non deve esistere, reso ancor più surreale da una narrazione semplice, diretta, estremamente umana.
Ma questa non è la recensione di un libro, è un tentativo di fare ordine in mezzo all’uragano che mi si è abbattuto addosso quando ho voltato l’ultima pagina e mi sono trovato di fronte un foglio bianco, l’ultimo che ormai mi separava dalla copertina e dai minuti di riflessione e introspezione che inevitabilmente sarebbero – e sono – seguiti.
I primi racconti mi hanno lasciato piuttosto indifferente, mi scorrevano addosso lasciandomi con una punta di fastidio e poco di più: erano semplicemente troppo, descrivevano un mondo lontano nello spazio e nel tempo, le cui vicende erano talmente incredibili che il mio cervello ha logicamente sistemato tutto nella sezione “favole e leggende”. Un episodio alla volta, un nome alla volta, una guerra alla volta, tuttavia, ho iniziato a percepire il peso e la forza che ogni parola aveva. Ciò che più mi sconvolge è la ripetitività di queste storie: cambiano i protagonisti, cambia la forma degli occhi, il colore della pelle, la lingua, l’ideologia, la religione… cambia tutto ma in fondo non cambia niente. Una violenza raccapricciante, storie agghiaccianti fatte di morte, mutilazioni, sofferenza e tutte quelle espressioni che ci fanno storcere il naso e volgere la testa dall’altra parte o chiudere gli occhi per smettere di guardare, che becera ipocrisia! No, non dobbiamo volgere lo sguardo, dobbiamo invece guardare, leggere, assimilare tutto ciò fino a sentire il suono di quei luoghi e quelle storie, finché l’odore di quelle vite e quelle morti non ci penetra nel naso, fino ad aver la vista saturata da quelle immagini. Dobbiamo farlo soprattutto perché in mezzo a quei disastri e quegli orrori, la vita continua. Queste non sono però parole di speranza e sollievo, tutto il contrario: sono parole di frustrazione e di rabbia, perché lì in mezzo, di vita, non ce ne dovrebbe essere.
Non ci dovrebbero essere i bambini che giocano con i flares inesplosi, o che raccolgono le granate-giocattolo, i “pappagalli verdi”, non ci dovrebbero essere donne colpite da un razzo mentre stendevano il bucato, non ci dovrebbero essere vecchi con schegge e proiettili nell’intestino perché troppo lenti per fuggire o giovani uomini uccisi per essersi rifiutati di uccidere. Non ci dovrebbero essere e invece sono tutti lì, in mezzo ai campi di battaglia di tutto il mondo, sono lì durante e dopo le guerre (penso alle infami mine antiuomo che mietono innumerevoli vittime ben dopo la fine degli scontri). Me lo ripeto, per essere sicuro di avercelo ben chiaro in testa: NON CI DOVREBBERO ESSERE. Non è giusto, non è umano, non è dignitoso e non è degno. Non lo è per noi più che per loro, per la sedicente civiltà democratica e giusta basata sul rispetto dei diritti umani e della dignità della persona in cui crediamo di vivere. Ironico parlare di “civiltà”, riempirci la bocca di questa parola dal retrogusto dolciastro tipico del positivismo sociale, mentre i civili apparentemente non meritino nessun rispetto, nessuna dignità, nessuna considerazione, se hanno un documento diverso dal nostro.
Questo è uno degli orrori più grandi in cui viviamo: non proteggere i civili durante un conflitto vuol dire costringerli a parteciparvi o ad esserne vittime, costringerli ad una scelta che non augurerei mai a nessuno di dover fare, vuol dire negare loro ogni diritto, abbattere tutti i paletti che per secoli hanno cercato di dare una parvenza di dignità alla guerra, vuol dire lasciare che la brutalità umana, ormai libera e svincolata, si scateni in tutta la sua furia. La guerra è disumanizzante, deve esserlo per convincere chi la combatte a commettere determinate atrocità per aiutarlo a giustificarsi con se stesso e con gli altri, ma con il coinvolgimento dei civili nei conflitti, il confine fra “guerra” e “pace”, fra “combattente” e “persona”, fra “nemico” e “avversario” si fa estremamente sottile e fragile, e se questo confine cade cosa succede?
Rwanda 1994, Kurdistan iracheno 1991, USA 2001, Sabra e Chatila 1982, e poi Yemen, Eritrea, Colombia, Siria, Nigeria, Sudan, Pakistan, Afghanistan, Balcani… Sono solo alcuni degli esempi di cosa succede.
E noi ci crogioliamo nel nostro rassicurante cordoglio distaccato, nella nostra falsa tristezza per non poter fare di più, nella ottusa convinzione che in fondo, un pochino, se la siano cercata perché se loro sono diversi da noi e a noi queste cose non succedono vuol dire che loro da qualche parte hanno, mentre noi siamo placidamente ed ingenuamente nel giusto.
Noi siamo la civiltà.
Mattia Comoglio