Che cos’è il femminismo?
Se andiamo a cercare la definizione di femminismo sul dizionario ne troveremo alcune formalmente impeccabili ma spesso dissociate dalla realtà sostanziale delle cose. Il vocabolario della Treccani, per esempio, riporta:
femminismo s. m. [der. di femmina]. – Movimento delle donne, le cui prime manifestazioni sono da ricercare nel tardo illuminismo e nella rivoluzione francese; nato per raggiungere la completa emancipazione della donna sul piano economico (ammissione a tutte le occupazioni), giuridico (piena uguaglianza di diritti civili) e politico (ammissione all’elettorato e all’eleggibilità), attualmente auspica un mutamento radicale della società e del rapporto uomo-donna attraverso la liberazione sessuale e l’abolizione dei ruoli tradizionalmente attribuiti alle donne.
Non è facile dare una definizione rappresentativa del fenomeno del femminismo, non perché i dizionari non siano abbastanza capaci ma piuttosto per due caratteristiche essenziali di questo movimento rivoluzionario. In primis, il suo carattere fortemente esperienziale, in secundis, la grande varietà di articolazioni teoriche del fenomeno. Allo stesso tempo, questa definizione formale ci permette di fare luce su una dissociazione grave tra definizione e realtà, che riguarda la quasi totale mancanza di uno spazio in cui gli uomini abbiano modo di discutere ed esplorare loro stessi e il loro ruolo come uomini.
Quando ci riferiamo all’“abolizione dei ruoli tradizionalmente attribuiti alle donne” le protagoniste del femminismo sono – state nella storia e continuando ad essere – le donne e il loro tentativo di cambiare la propria posizione all’interno della società. Per questo, dal Novecento in poi, abbiamo assistito al proliferare di associazioni, spazi, movimenti, occasioni per le donne di incontrarsi ed esplorare il significato del nascere e diventare donne. Il tentativo, condiviso da tante, è quella di ridefinirsi come qualcosa al di là di semplici guardiane del focolare, di esplorare la propria individualità per costruire una versione di sé il più fedele possibile a sé stesse. Così le donne tendono a definirsi sempre più spesso in positivo, come un essere con degli attributi. Ci sono donne che si sono scoperte estremamente legate alla famiglia o alla carriera, donne che riscoprono energie inimmaginabili dentro sé stesse, donne che passano la vita a sperimentare, donne che preferiscono rimanere nella loro comfort zone, donne che si autodefiniscono indipendenti, femminili, libere, creative, comunicative, solidali.
Domande come “Cosa vuol dire essere donna per me? Cosa vuol dire essere donna in questo momento della storia? Qual è il rapporto tra il mio corpo e il mio essere donna? Cosa vuol dire amare un uomo essendo donna?” sono degli enormi punti interrogativi le cui risposte ci definiscono. Mattoncino dopo mattoncino, nell’ultimo secolo, le femministe hanno costruito un terreno fertile perché noi donne potessimo porci queste domande, a livello individuale e sociale. Certo, questa non è pratica assoluta, e il femminismo non avrà raggiunto il suo obbiettivo finché ogni donna non sarà messa in condizioni economiche, simboliche e sociali tali da potersi permettere di adottare un tipo di esercizio esplorativo nella sua vita quotidiana e in tutte le sfere. Ma è innegabile che il terreno è fertile in questo senso e sempre più donne partecipano a quella che è la grande rivoluzione femminista.
Ma quando parliamo di un “mutamento radicale della società e del rapporto uomo-donna attraverso la liberazione sessuale” i protagonisti dovrebbero essere le donne come gli uomini. Eppure la realtà mostra qualcosa di diverso. Gli uomini, responsabili della sottomissione della donna nella storia, hanno dovuto e stanno accettando volenti o nolenti questa trasformazione della definizione dell’essere donna. Molti resistono e il femminicidio, il tentativo di rappresentarci come isteriche, le campagne che auspicano più controllo sui nostri corpi non hanno mai smesso di esistere. Ma queste resistenze sono abbastanza comprensibili (se pur mai giustificabili) nell’ottica in cui ogni grande rivoluzione affronta sempre resistenza al cambiamento. Il problema più sottile, invece, sta nel fatto che persino gli uomini più entusiasti della rivoluzione femminista interpretano il loro ruolo nella chiave di sostenitore della causa e/o aiutante delle loro compagne o amiche durante questo processo di trasformazione. Il che è bellissimo ma decisamente insufficiente.
Per secoli la società si è sostenuta sulla sinergia di ruoli ben definiti uomo-donna. Poi la donna ha iniziato a definirsi diversamente e indipendentemente. L’uomo si è così trovato a definirsi sempre di più in negativo. “Cosa vuol dire essere uomo in questo momento della storia? Qual è il rapporto tra il mio corpo e il mio essere uomo? Cosa vuol dire amare una donna essendo uomo?” Gli uomini rispondono a queste domande sempre più in termini di quello che l’uomo non può più essere in questo momento della storia. Essere uomo non significa essere dominante, essere uomo non significa essere violento, essere uomo non significa non aiutare con le faccende domestiche o con i bambini. Ma l’identità non può essere pensata solo in termini negativi, non si può essere semplicemente tutto ciò che rimane. E così ci troviamo spesso ad avere a che fare con uomini confusi, con uomini persi, con uomini che si sentono costantemente sminuiti o non amati abbastanza, con uomini che non sanno più cosa in loro vada o non vada bene nell’ottica del ripensamento dei ruoli.
Quante volte vi è successo, donne e uomini, di trovarvi incastrati in conversazioni di coppia che ricalcano problemi come: non mi dai abbastanza, i miei bisogni non sono soddisfatti, ti voglio libera però (…), ho bisogno di più attenzioni, so che questa cosa per te è importante ma io sto male, voglio essere l’unica cosa che conta per te? O peggio, quante volte vi trovate a vedere storie che finiscono dopo estenuanti discussioni in cui non si capisce perché non ci si capisce senza nemmeno ben capire perché ci si sta lasciando?
Senza ovviamente implicare tutti i problemi dei rapporti uomo-donna al femminismo, affrontando determinate discussioni con gli uomini in termini di “possiamo provare a leggere questo problema attraverso le lenti del ripensamento dei ruolo e delle dinamiche uomo-donna?”, vi stupireste a scoprire quanti uomini, senza esserne consapevoli, ricadono nella trappola di considerare la propria compagna come la responsabile della propria felicità e benessere. O si sentono costretti ad accettare condizioni che non capiscono. E quante donne accettano questa visione. O si sentono in colpa per non riuscire ad accettarla. O fanno fatica a trovare un equilibrio.
Il femminismo non dà delle risposte ma offre piuttosto un metodo di esplorazione individuale e collettiva tale per cui è possibile definire il fenomeno anche come un approccio alla vita, un metodo sperimentale ed esperienziale, un costante lavoro di scoperta di noi stesse che ci impedisca di fare qualcosa solo perché così è consuetudine, e al contrario ci avvicini il più possibile a ciò che siamo nella speranza di trovare in questa autenticità la più pura delle felicità. Il problema è che le donne hanno sempre più strumenti per adottare questo tipo di pensiero critico alla propria identità e ruolo e potersi dare delle risposte. Ma gli uomini?
Noi donne possiamo definirci come esseri senza gli uomini, ma non possiamo definirci nel rapporto di coppia o in qualsiasi rapporto uomo-donna, senza gli uomini. Manca metà della squadra. E questa è un enorme perdita per la rivoluzione femminista, che viene rallentata e minata dal fatto che circa metà della popolazione mondiale non vi sta partecipando adeguatamente, a livello individuale ma soprattutto sociale. Se certi uomini sono arrivati a praticare questi esercizi nella loro intimità, infatti, a livello sociale questo tema è praticamente inesistente. Quante volte capita di sentire di spazi, momenti, occasioni e movimenti per gli uomini di trovarsi solo tra uomini per riflettere sulla propria identità e ruolo? Sicuramente non abbastanza.
Esiste in Italia, un’associazione nazionale che si chiama Maschile Plurale che si descrive come una realtà di uomini “impegnati da anni in riflessioni e pratiche di ridefinizione della identità maschile, plurale e critica verso il modello patriarcale, anche in relazione positiva al movimento delle donne”. Anche, ma non soltanto. Perché è giusto e sacrosanto che le donne abbiano modo di esplorarsi, definirsi e pretendere di vedere i loro bisogno soddisfatti. Ma è giusto che, sulla scia del ripensamento femminista dei ruoli e dei generi, anche gli uomini abbiamo la stessa opportunità, indipendentemente dalle donne. Così che quando si discuta di come costruire un nuovo modello di parità, lo si possa fare davvero assieme e non sulla base delle nuove definizioni di donne e delle nuove non-definizioni degli uomini. Non sulla base del fatto che gli uomini siano tutto quello che non erano prima, o smettano di essere tutto quello che noi non vogliamo. Questa non è vera parità.
Una vera parità prenderà forma non soltanto se noi donne avremmo combattuto per ottenere gli spazi e le occasioni che meritiamo, ma anche se gli uomini saranno riusciti ad assumersi la responsabilità di alzarsi con una voce, una voce maschile e femminista. E questo implica la necessità di costruire degli spazi di discussione, confronto e sperimentazione tra gli uomini e per gli uomini, col sostegno delle donne e indipendentemente dalle donne. Perché uomini e donne possano superare l’antagonismo che ancora permea. Perché donne e uomini assumano entrambi un ruolo attivo in questa rivoluzione. Perché le donne non siano più vittime e gli uomini non lo diventino. Perché questo dovrebbe essere il senso della parità di genere.