Twelve days of Brexit

Mentre i negozi e le strade si riempiono di addobbi e il clima natalizio comincia a ricoprire ogni tipo di attività, nel Regno Unito le luci colorate ad intermittenza sugli alberi di festa sembrano quasi rappresentare un countdown finale per la decisione sul piano di uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, esacerbando il clima di tensione che si sta respirando all’interno della House of Commons. L’intero accordo dovrà essere votato l’11 Dicembre. Ora, dopo più di due anni di discussioni e dibattiti, sarebbe anche interessante capire in che modo si è arrivati ad un accordo e cosa si prevede accadrà nei prossimi anni tra il blocco europeo e il Regno di Sua Maestà.

Prima di tutto, si ragiona sui costi “ovvero i soldi che Londra dovrà versare nelle casse comunitarie nei prossimi anni, per far fronte agli impegni già presi a livello comunitario fino al 2020 e ad altri costi legati alla permanenza per quasi mezzo secolo nell’UE, come ad esempio le pensioni da pagare agli ex funzionari europei di nazionalità britannica. In tutto, le stime parlano di un conto che si aggira sui 45-50 miliardi di euro, da versare tra il 2019 e il 2064 (anche se la parte più consistente andrà pagata entro il 2025).” (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale)

Altro punto importante è lo status dei 3 milioni di cittadini europei al momento residenti nel Regno Unito e di tutti quei cittadini britannici che risiedono in territorio dell’Unione. Per permettere inoltre ad entrambe le parti di affrontare le spinose questioni relative ad immigrazione, mercato unico e esportazioni di tè, si avrà fino al 2020 un periodo di transizione nel quale tali politiche rimarranno invariate. In questi due anni, l’Unione Europea andrà a rivedere con il collega britannico tutti i trattati bilaterali che possano delineare un nuovo rapporto su queste tematiche. Punto spinoso per sua Maestà: in questo periodo di transizione il Regno Unito perderà il proprio diritto di voto non facendo parte più formalmente dell’Unione.

Una delle questioni più difficili durante le trattazioni è stata indubbiamente la questione dell’Irlanda e la divisione dell’intera isola. Dagli accordi del Venerdì Santo di due secoli fa, in cambio della cessione delle ostilità tra le due fazioni, entrambe le parti si impegnavano a non creare barriere fisiche tra i due territori. Se il Regno Unito non dovesse però riuscire a trovare un accordo (audace) che vada a togliere tutti i dazi e le tariffe dai prodotti europei, quest’ultimi non potrebbero liberalmente circolare e dovrebbero esser soggetti a controllo. La soluzione proposta dal Presidente Jean-Claude Juncker è stata quella del cosiddetto backstop, dunque una libera circolazione tra Irlanda e Irlanda del Nord con una dogana sul resto dell’isola britannica. Non accettabile per il governo inglese, la soluzione proposta dal Premier Theresa May è stata un’unione doganale alla fine del periodo di transizione. Bruxelles ha detto di sì, ma a qualche piccola condizione:

“Londra non avrà un diritto di recesso unilaterale dall’unione doganale stessa; dovrà accettare la legislazione europea in tema di concorrenza e di aiuti di stato (anche la legislazione futura a cui non potrà contribuire); e dovrà accettare che, in caso di controversie, a esprimersi resti la Corte di giustizia europea. Londra si impegnerà inoltre a garantire un adeguato ‘level playing field’, in modo che le imprese britanniche non possano in futuro fare concorrenza sleale a quelle europee attraverso una regolamentazione meno stringente in campi sensibili come l’ambiente, la tassazione e il lavoro” (ISPI)

Tutto ciò, sarà votato dal Parlamento britannico martedì 11 Dicembre.

Inutile dire che gran parte dei deputati si siano già espressi decisamente contro questo tipo di accordo. Sono ben 94 i membri del parlamento conservatori, dunque dello stesso partito del Premier, che voterebbero contro l’accordo, secondo le ultime analisi del The Guardian. Per non parlare del leader dell’opposizione Jeremy Corbyn, a capo del partito labourista, che non ha perso occasione per sottolineare il rigetto di tali conclusioni e la necessità di una maggiore imposizione del Regno Unito sulla questione.

Ora, il punto è: se l’accordo non dovesse essere approvato, che si fa?

Le opzioni sono diverse: abbiamo un’opzione no-deal, dove il Regno Unito esce senza alcun tipo di accordo. I costi stimati per questo tipo di soluzione sono di 140 miliardi di pound nei prossimi 10 anni. L’accordo raggiunto da Theresa May parrebbe possa costare circa 100 miliardi di pound nella prossima decade al governo di Sua Maestà.

E se il Regno Unito restasse all’interno dell’Unione Europea?

Secondo l’Istituto Nazionale per l’Economia e la Ricerca Sociale, l’uscita dall’Unione comporterà nel lungo termine una crescita del PIL inferiore del 4%. In termini di miliardi di pound, non è poco.

Mentre si può pensare a quanto costerà comprare a Natale 2025 una scorta di Earl Grey marcati Twinings o un viaggio a Londra sotto dicembre, il suggerimento è di godere il più possibile di queste due settimane natalizie prima del voto in Parlamento che probabilmente respingerà il piano della May e ci porterà davanti una prospettiva di un’Europa un po’ più debole e di un Regno Unito sempre più alla deriva, sempre più a largo, e lontano dall’intero continente.

Matteo Caruso


Sitografia:

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