Tutto ha una fine, anche le cose più belle. Esserne consapevoli però non rende più facile accettarlo. Deve essere stata più o meno questa l’atmosfera alla NASA quando il 7 marzo 2009 è ufficialmente partita la missione Kepler dalla Cape Canaveral Air Force Station. Con a bordo circa 12 chili di idrazina, gli scienziati più scettici avevano previsto una durata di 3 anni o poco più, mentre alla NASA le previsioni erano ben più rosee. Si pensava infatti che la missione sarebbe durata addirittura il doppio del tempo stimato. Quest’ottimismo era in parte giustificato da un eccesso di fede degli ingegneri dell’Agenzia Spaziale Americana: inizialmente infatti il serbatoio doveva contenere solamente 8 chilogrammi di idrazina, ma era talmente capiente che decisero di riempirlo tutto.
Composta da uno specchio primario con diametro di 1,4 m ed un’apertura di 950 cm, la missione era un vero e proprio osservatorio nello spazio ed aveva come obiettivo principale la ricerca nella regione della Via Lattea di centinaia di pianeti di dimensioni simili alla Terra vicino alle zone cosiddette “abitabili” (tutte le aree intorno ad una stella dove in un pianeta come la Terra si potrebbe trovare acqua), e l’individuazione delle possibili stelle nella nostra galassia con attorno pianeti di questo genere.
Durante il suo viaggio nello spazio Kepler ha trovato un totale di 530506 stelle e 2662 esopianeti conformi ai criteri di ricerca della missione, mentre si stanno ancora studiando i dati inviati in merito ad altri 2900 possibili candidati ad essere classificati come esopianeti. La maggior parte dei 2662 pianeti che invece già possiedono i requisiti necessari sono stati scoperti durante i primi quattro anni della missione, quando Kepler puntava ancora verso la costellazione del Cigno.
I più piccoli hanno dimensioni simili alla Terra, mentre quelli più grandi raggiungono le dimensioni di Nettuno, che è quattro volte il nostro pianeta.
Passati i primi quattro anni però a causa di problemi con il puntamento i responsabili della missione sono stati costretti a cambiare l’orientamento del telescopio, puntandolo verso una diversa regione di spazio dando ufficialmente inizio alla missione K2. Quest’ultima aveva come obiettivo principale lo studio di una porzione di cielo chiamata “linea blu” mentre la sonda Kepler orbitava attorno al Sole. Ogni 80 giorni, veniva messo un “timbro blu”, che coincideva con lo scatto della panoramica del nuovo campo visivo del telescopio. Per rilevare i pianeti extrasolari, la missione si è servita del metodo di transito, uno dei più precisi fra quelli messi a punto finora. La logica dietro questo metodo di rilevazione è piuttosto semplice: quando un insetto passa davanti ad una lampada, ce ne accorgiamo perché compare un punto nero dove la lampada stava illuminando, allo stesso modo, quando i pianeti passavano davanti alla stella che Kepler stava osservando, la luminosità della stella diminuiva, lanciando un segnale ben preciso al telescopio. Oltre ad i numerosi esopianeti scoperti, K2 passerà alla storia anche per un’altra incredibile conferma: da tempo si pensava infatti che gli esopianeti potessero orbitare intorno a resti di stelle, ma la prova è arrivata solo quando Kepler ha osservato dei detriti di un esopianeta distrutto orbitanti attorno ad una nana bianca ormai alla fine della sua vita.
La missione Kepler si è conclusa ufficialmente il 15 novembre quando dal LASP (Laboratory for Atmospheric and Space Physics) sono stati impartiti gli ultimi comandi alla sonda. In pieno stile NASA, la data della fine della missione ha coinciso con il 388esimo anniversario della morte di Keplero, che ha ispirato il nome della missione ed anche le sue modalità essendo il padre della teoria del moto dei pianeti.
Quindi è vero, anche le cose più belle finiscono, ma la missione Kepler è una delle tante dimostrazioni dell’astronomia che c’è un significato dietro ogni fine ed ogni inizio, e che tutte le cose guadagnate durante il tragitto rimangono come un testamento indelebile del viaggio stesso.