“Scrivo perché non ero dotato per il commercio, non ero dotato per lo sport, non ero dotato per tante altre, ero un poco…, per usare una frase famosa [di Sartre], l’idiota della famiglia… In genere chi scrive è uno che, tra le tante cose che tenta di fare, vede che stare a tavolino e buttar fuori della roba che esce dalla sua testa e dalla sua penna è un modo per realizzarsi e per comunicare.”
Così risponde Italo Calvino ad una delle tante domande a tema sul “perché scrivi?”, che personalmente da amici, ammiratori e giornalisti gli sono state poste nel tempo della sua vita.
Eppure, in questa dichiarazione in cui traspare un’idea di scrittura come ultimo salvagente per gli incapaci, si innalza, nella descrizione del mestiere dello scrittore, a toni bassi e quasi comici, un moto d’orgoglio accompagnato da un istinto indomabile e implacabile. Sminuire col registro basso il potere di trasportare nei mondi e soprattutto nei personaggi propri di Calvino, con la “roba che esce dalla sua testa”, prende tutt’a un tratto la forma di un’onda anomala silenziosa e ironica che si abbatte contro un Olivetti posta sopra una scrivania di mogano impolverata, illuminata nella penombra da una lampada inclinata verso il basso.
Se l’uomo ha imparato a prevedere terremoti, maremoti, eruzioni, l’arrivo di un meteorite che ci sterminerà tutti, ancora (e forse mai) saprà come poter sfuggire a tutto ciò, così lo scrittore non può sfuggire alla forza della sua ispirazione. Forza di cui ignora un’origine che sia al di fuori dello stesso movimento interno che la muove, nel modo in cui le calamità elencate sono frutto del movimento incessante della terra e del cosmo, per poi manifestarsi nella superficie e realizzandosi sulla parte esteriore, tornando in seguito a una preesistente (e temporanea) quiete.
Fortunatamente il confronto del moto interiore a contatto con ciò che lo circonda non produce devastazione, ma arte.
Un’esigenza naturale che andrebbe coltivata, non solo per scrivere necessariamente un capolavoro (è giusto comunque avere grandi aspirazioni), ma soprattutto per sé stessi, per stabilire un contatto senza tempo che si possa trasferire in nuovi spazi, per tradurre in lettere, su altri personaggi o addirittura su oggetti inanimati, sensazioni che lasciate stagnare dentro di noi potrebbero solo accumularsi per poi esondare.
Madre di questa esigenza è l’analogia, la quale ha mosso l’immaginazione delle prime civiltà alla costruzione dei miti per spiegare i fenomeni della natura, della stessa mitologia greca e il suo Olimpo, che ha portato Dante a trasferire il suo mondo nelle gerarchie dell’aldilà e Petrarca a scrivere i più bei sonetti della nostra tradizione.
Quello che nel periodo barocco veniva chiamato “Ingegno” e più tardi ha portato Leopardi a immaginarsi come un “pastore errante dell’Asia”, di cui sono infiniti gli esempi letterari, ma è anche la stessa facoltà da cui nasce la scienza moderna e la ricerca. La capacità dell’uomo di allineare sulla stessa lunghezza d’onda concetti derivanti da ambiti diversi (figurativo, sonoro, olfattivo ecc.) riallaccia quella diversità o bianca o nera in cui sono solitamente riposti irrazionalità e razionalità.
Usare la ragione per spiegare sensazioni informi, attingendo da entrambi i pozzi per giungere alla verità che si ricerca. “Ciò che in me sente sta pensando” diceva Fernando Pessoa, poeta portoghese del primo ‘900, abbattendo in una sola frase quella linea di demarcazione insita tra ragione e passione, tra cuore e mente.
Tutto si iscrive in questo scambio di simboli esteriori e sensi, libero da qualsiasi vincolo e unico per ogni soggetto il quale decida, non facendo altro che seguire una delle linee più contigue della storia dell’umanità, di abbandonarsi all’esigenza di creare da quell’apparente nulla. Apparente poiché intangibile ma allo stesso tempo pervadente.
Tante motivazioni e soprattutto ispirazioni diverse hanno mosso la penna di Montale, ispirato dal panorama ligure facendolo aderire ai suoi umori, quella di Ungaretti in guerra che scriveva sui fogliettini che racimolava poesie brevi ma intense (oppure più giustamente: immense); e quelle di giovani ragazzini sui loro diari segreti, delle prime lettere d’amore all’inizio dell’adolescenza. Lo stesso Pessoa si pentì amaramente di non aver scritto lettere d’amore, come spiega qui il cantautore Roberto Vecchioni. Questo grande poeta plausibilmente invidierebbe tanti giovani piccoli romantici, proprio per l’unicità che deriva dalla penna, quindi la mente, di ogni singolo individuo. Dove il talento non è l’unico sistema di valutazione. E questo da solo dovrebbe essere il motivo più valido per approcciarsi a tale attività: creare a prescindere qualcosa di unico nel periodo delle imitazioni, di cui probabilmente solo lo stesso autore può capire a fondo tutti i connotati, incorrendo nel rischio per alcuni di non essere capiti, il vantaggio per altri di essere liberamente interpretati, essendosi espressi comunque in modo unico.
Scrivere come traduzione di stati d’animo, per catarsi, come il movimento del pollice e dell’indice che scioglie il bandolo della matassa, come dare alla luce la propria essenza, come sussulto di vita, azione necessaria, primigenio bisogno, come certificato di esistenza.
Scrivere di galassie mondi e microcosmi dalla propria stanza, dell’inverno in estate, di un passato irraggiungibile o un futuro indefinito nel presente, dei sogni della notte la mattina successiva.
Scrivere.