Dal 7 novembre al 10 marzo 2019 il MAXXI di Roma ospita, con l’esposizione “Paolo Pellegrin. Un’antologia”, oltre 150 immagini che ci guidano lungo il percorso creativo del fotografo romano. Paolo Pellegrin nasce a Roma nel 1964 e frequenta inizialmente la facoltà di Architettura all’Università “La Sapienza” di Roma, ma abbandona gli studi senza conseguire la laurea triennale per spostarsi all’Istituto Italiano di Fotografia.
Viene riconosciuto come uno dei maggiori fotoreporter di guerra e collabora con testate giornalistiche quali Newsweek e New York Times magazine. Vincitore di numerosi premi, quali lo Eugene Smith Grant in Humanistic Photography (2006), l’Olivier Rebbot for Best Feature Photography (2004) e ben dieci World Press Photo tra il 1955 e il 2013, approda al Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma con una mostra che ripercorre ben vent’anni della sua attività (1998-2017), approfondita mediante due sezioni: la prima dedicata all’essere umano, la seconda focalizzata sulla sua visione della natura. Nella parte iniziale domina infatti il buio, popolato dal racconto di un’umanità sofferente: la guerra, le tensioni, la distruzione, ma anche l’intima bellezza dell’essere umano nelle sue espressioni più vere e profonde.
La seconda parte è invece caratterizzata da uno spazio luminoso in cui prevalgono immagini di una natura che ci sembra ricordarci la fragilità della condizione umana. Le due parti del percorso sono collegate tramite un passaggio in cui il visitatore viene proiettato dietro le quinte del lavoro di Pellegrin: taccuini, appunti, ritagli, disegni, miniature, danno una visione di complessità e di ricchezza di un processo creativo che si fonda su ricerca, conoscenza, interesse, passione e preparazione.
Il reportage è per Pellegrin una manifestazione dell’interpretazione personale, la sintesi di una posizione critica del fotografo rispetto alla visione impersonale della realtà: un racconto, scandito per momenti e capitoli, che aiuta a mettere in contesto la situazione affrontata e chi la documenta. Le fotografie sono frammenti di una scrittura per immagini e riflettono un tempo storico, basato sulle fisionomie, singole e collettive, delle persone che vivono una tragedia. Ma diventano anche una questione personale per Pellegrin, che sente la necessità di condividere, con la sua presenza e testimonianza, la responsabilità della nostra cultura verso questi eventi drammatici. Ogni suo reportage ha l’obiettivo di far emergere le reazioni umane che si sviluppano in risposta ad eventi destabilizzanti come guerre o massacri, ma anche nei periodi successivi alle devastazioni militari, come l’esodo dei rifugiati, la ricostruzione di una vita nelle macerie e la fuga. E’ un continuo tentativo di indagare negli spazi interiori del comportamento umano, senza ambire a definirli e a perimetrarli: la fotografia ha l’importante compito di rendere indimenticabili i tratti di un dolore e dei suoi effetti perduranti nel tempo. La sua fotografia può infatti esser definita “antropologica” per l’odissea che compie nell’umano e nel disumano e per l’atteggiamento di disponibilità, rispetto e interesse verso i momenti della storia.
In occasione della mostra è stato pubblicato da Silvana Editoriale, in edizione limitata, il volume “Paolo Pellegrin” di Germano Celant, curatore della mostra, che raccoglie oltre millecinquecento immagini ordinate cronologicamente, offrendosi come una summa dell’intera opera del fotografo.