Questa è una di quelle storie che si rinvengono all’alba sulla spiaggia dopo le notti di burrasca, in mezzo a scheletri di legno, lattine vuote, reti strappate ai pescatori, palloni arancioni sgonfi e una boa. Questa è una storia che per capirla bisogna saper guardare all’orizzonte durante il tramonto e non apprezzare il fuoco del cielo, bensì il suo riflesso sull’acqua. Questa è la storia di Stefano Polesel, il trequartista nato dalle onde.
Polesel è uno dei tanti figli di un goal minore, uno di quelle centinaia di migliaia di onesti mestieranti che sono riusciti a tirare avanti per qualche anno portando a casa uno stipendio tutto sommato dignitoso solo grazie a quello che sapevano fare con i piedi, pur senza mai diventare icone. Forse sarebbe stato uno dei tanti dimenticati non solo dalle grandi masse calciofile, ma anche da quegli scellerati che ricordano a memoria la formazione del Rimini in Serie B nel 2006/2007 come me, se non fosse stato per il suo legame speciale e romantico con il grande padre della vita e, va da sé, anche di tutte quelle minuzie che esser vivi comporta, come giocare a pallone: il mare.
Nasce il 23 novembre del 1974 a Burano, isola della laguna veneziana, e già da questo si delineano le due condizioni che lo accompagneranno per tutta la carriera: il contatto con l’acqua e la posizione subalterna rispetto a chi è più famoso, più chiacchierato, più ammiccante. Burano è infatti l’isola gemella di Murano, celebre in Italia e nel mondo per il suo vetro, meta di shopping e di campi scuola.
Fin dai suoi primi passi con il pallone tra i piedi, poi, questa bene o male dizione sarà ancor più evidente. Inizia a giocare nel settore giovanile del Calcio Venezia, che – state attenti – non è però il ben più affermato Venezia di Maurizio Zamparini, che proprio in quegli anni iniziava a imporsi nelle cronache calcistiche italiane, bensì una piccola società orgogliosa della propria venezianità, che in quel periodo raggiunse il massimo traguardo nella sua storia: il campionato interregionale, quinto livello del calcio italiano.
Fin dalle giovanili, Polesel mostrò un carattere ribelle e anarchico, come certe onde che non sembrano chissà quanto spaventose ma che comunque ti trascinano al largo, abbinato però a un estro abbagliante. Fu ceduto prima al Verona e poi al Parma, come trampolino di lancio per quella che sarebbe potuta essere una carriera abbagliante, ma chi si lancia da un trampolino di solito atterra in una piscina, e si sa che chi ama davvero il mare odia l’acqua con il cloro. Il giovanissimo Polesel torna così in eccellenza, nella sua piccola realtà veneziana, preferendo poter tornare a casa tutte le sere in vaporetto piuttosto che avere l’opportunità di militare in giovanili prestigiose. Tu chiamale se vuoi, scelte di vita.
L’anno successivo, siamo nel 1993, viene ceduto alla Miranese, società con sede a Mirano, sempre nella provincia di Venezia, e da lì, dopo una stagione di alta e bassa marea, al Sandonà. Questa sarà la grande occasione per il trequartista. Il Sandonà è appena stato promosso in C2, e a San Donà di Piave l’odore del mare si sente.
Pur essendo appena ventenne, Polesel colleziona 33 presenze condite da 9 goal e 7 assist. In quell’annata si affermò come uno dei giocatori più promettenti della categoria: le sue giocate erano come messaggi in bottiglia che giungevano sulla battigia portando con sé misteri e passioni, e non furono in pochi a volerli raccogliere. Ci provò Trapattoni, all’epoca allenatore del Cagliari, che lo volle in Serie A. Polesel rifiutò, e il perché resta ancora ignoto. Va bene così, però, perché se anche il mare perdesse ogni suo mistero non avrebbe lo stesso fascino. Inizia così una seconda stagione in C2 con il Sandonà, che aveva sfiorato nell’annata precedente la promozione in C1, venendo però sconfitto dal Fano ai play-off. A novembre arriva però l’offerta del Venezia, quello “vero”, militante in Serie B. Giocò lì per due stagioni, sempre da titolare, raggiungendo al termine della seconda la promozione in Serie A. Qui vorrei scrivere la parola fine, dipingendo l’immagine di un rampante Polesel che si gode la massima serie con vista mare, ma è destino delle onde quello di ritornare indietro una volta raggiunto il punto più distante sulla riva. Viene ceduto al Ravenna in Serie B, e da lì nel giro di sei mesi al Padova, in C1. Sotto i colli euganei concluse anche una discreta stagione, collezionando in metà campionato 14 presenze e 2 reti, ma in un contesto del genere l’uomo venuto dal mare non avrebbe mai potuto essere felice.
A fine stagione mette il costume e le pinne in valigia e ritorna a casa. Ad acquistarlo è il Mestre, in C2. Questo trasferimento segna un’ulteriore discesa di categoria, ma anche una ritrovata dimensione che gli permetterà di esaltare tutte le sue funamboliche qualità. Polesel ha ormai 25 anni, è nel pieno della maturità calcistica, e con la maglia arancione dei mestrini si impone come leader tecnico e caratteriale della squadra. Lui proprio è il simbolo del Mestre che nella stagione 2000-2001 sfiorerà la storica promozione in C1, salvo vedere i propri sogni sfumare al cospetto della Triestina nella finale dei play-off, sempre loro.
Da lì inizierà un lungo girovagare che ha il sapore di una gita fuori porta intorno casa: prima il Città di Jesolo, dove resterà per 3 anni, poi di nuovo al Sandonà, dove si toglie l’ultima soddisfazione della carriera vincendo il campionato 2006-2007 e riportando così la squadra che lo aveva lanciato in Serie D. Verranno poi il Città di Eraclea e il Calcio Caltana, squadre militanti negli inferi del calcio italiano; non c’è neanche bisogno che ve lo dica: guardate la cartina, sono tutte affacciate sul mare intorno Venezia.
Termina così nel 2009 una carriera che avrebbe potuto dargli forse di più, ma che gli ha concesso certamente tutto ciò che desiderava: un pallone tra i piedi con vista mare. Nessun uomo è un’isola, ma forse qualche calciatore sì, e il grande pubblico, ammassato sulla riva, non ha mai potuto vederne il talento.
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