CFA ed ECO: la moneta africana che esiste e non esiste

Ricordate quando Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista baccagliavano con la Francia sulla sua politica neocoloniale perpetrata tramite il Franco CFA in Africa? Sì? Bravissimi! No? Tranquilli, nessuna polemica ha vita abbastanza lunga da poter essere ricordata di questi tempi. Fatto sta che al di là delle boutade del momento che rientravano in un più ampio ambito di liti di condominio, la discussione sulla moneta è andata avanti nei luoghi più appropriati (i luoghi in cui è valuta corrente), anche senza i pareri degli esperti nostrani. 

L’avvento di nuovi attori nella regione ha cambiato necessariamente le cose. Di conseguenza chi criticava l’eccessivo ruolo della Francia nella creazione e gestione della moneta, ha avuto le sue prime piccole vittorie. In primis la BCEAO (Banca Centrale dell’Africa Occidentale) ha chiesto di far stampare le proprie banconote dalla tedesca Giesecke & Devrient, lasciando solo la rifinitura alla storica zecca dei Franchi CFA di Chamalières in Francia. Inoltre, il cotone utilizzato nella produzione deve essere prodotto nei paesi membri BCEAO. Queste piccole concessioni hanno acceso una spia, e lo spirito di riforma ha conquistato persino il francese Dominique Strauss-Kahn, ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale,  ex ministro francese delle finanze e attuale consulente di diversi governi africani, che in un rapporto sullo stato della zona del franco CFA parla del luogo di stampa e del nome della moneta (problematico poiché mantiene invariata la sigla del vecchio Franco delle Colonie Francesi d’Africa) come di “simboli poco difendibili”, e si fa addirittura più radicale quando propone l’annullamento dei conti dei paesi CFA presso il tesoro francese (a garanzia della convertibilità con l’euro) rimpiazzati magari con depositi alla Banca dei Regolamenti Internazionali di Ginevra. Proposte molto più simboliche che pratiche, ma che secondo Strauss-Kahn aiuterebbero a superare i “non detti dell’attuale sistema”.       

Molto meno simbolico è ciò che è avvenuto nel mese di giugno di quest’anno. Ciò che è emerso dalla riunione dei ministri delle finanze della CEDEAO, la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale, è stato poi confermato dalla conferenza dei capi di stato dei medesimi paesi ad Abuja in Nigeria: dal 2020 si cambia, parte l’ECO, la nuova moneta. Il comunicato finale della conferenza porta le firme di 15 tra presidenti e ministri di tutti i paesi membri (Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea Bissau, Liberia, Mali, Niger, Nigeria, Sierra Leone, Togo) e un paragrafo intero è dedicato alla creazione dell’unione monetaria della CEDEAO. Insieme alla decisione sono stati stabiliti i parametri di convergenza da rispettare per i paesi che aderiranno all’iniziativa, alla stregua del processo di adesione all’euro:

  • Tasso d’inflazione inferiore al 5% entro la fine del 2019.
  • Deficit di bilancio inferiore al 3%.
  • Riserva di moneta pari a un minimo di 3 mesi d’importazioni.

Questi parametri sono resi necessari dalle grandi differenze tra le economie locali, con i paesi CFA ad avere bassi tassi d’inflazione (dovuti alla stabilità dell’agganciamento all’euro) ma crescite relativamente modeste, e giganti come la Nigeria, che corrono veloce e hanno tassi d’inflazione molto alti, tanto più quando la CEDEAO è un’entità molto meno politica di quanto lo sia, ad esempio, l’Unione Europea.                                 

Tuttavia, al di fuori di ciò si sa poco e niente, e l’ambiguità con cui il processo è partito lascia il fianco scoperto agli attacchi sia dei difensori del vecchio CFA, sia agli oltranzisti del cambiamento. Il documento della CEDEAO parla di un regime di cambio flessibile, ma c’è chi in seguito alla conferenza ha parlato di ancoramento allo Yuan cinese o di mantenere il legame con l’Euro, o di creare un sistema ibrido. Altri dubbi riguardano la reale volontà di adesione da parte dei membri della comunità. Il presidente nigeriano Buhari, il cui paese rappresenta i 2/3 dell’economia dell’area, ha espressamente dichiarato di non voler procedere con il processo finché i paesi CFA non sciolgano le riserve riguardo al da farsi, e questo è il nodo centrale della questione poiché riguarda le due maggiori economie dell’area CFA occidentale, Senegal e Costa D’Avorio. Il presidente senegalese Macky Sall non ha mai risparmiato elogi alla valuta attualmente in vigore e, dettaglio fondamentale, è l’unico presidente a non aver partecipato alla conferenza delegando un sottoposto, mandando un segnale piuttosto netto sulla sua posizione. Al contrario il presidente ivoriano Alassane Ouattara è stato presente e decisamente attivo nei lavori di Abuja, salvo poi creare un mezzo disastro pochi giorni dopo in visita a Parigi dal presidente Macron. Interpellato sull’ECO dai giornalisti all’entrata dell’Eliseo Ouattara ha dichiarato:

“I capi di stato della CEDEAO hanno deciso che insieme creeremo una nuova moneta che si chiamerà ECO; a lungo termine, quindi, il Franco CFA si chiamerà ECO.”

Qualunque cosa volesse dire, certamente la frase si presta ad ogni tipo di interpretazione. La criticità di un’affermazione del genere è subito evidente dato il contesto in cui è avvenuta e date le posizioni espresse appena pochi mesi fa sempre in Francia dal presidente sul franco, “moneta solida, ben gestita e apprezzata”. 

Se queste sono le posizioni delle potenze locali verrebbe quasi da chiedersi il senso della conferenza di Abuja, e non sarebbe così peregrino pensare all’annuncio come ad una mossa politica dettata dal crescente consenso verso riforme in ambito monetario. L’argomento è davvero vecchio; un dialogo tra sordi lungo trent’anni (questa l’età delle prime proposte di valute alternative) e in quello che, stando ai recenti eventi, dovrebbe essere il momento decisivo, non esiste nient’altro che un documento, certamente ufficiale, ma che sembra affermare fatti distanti anni luce dalle volontà di alcuni suoi firmatari. A meno di un anno dalla presunta messa in circolazione della valuta non esiste un simbolo, non esistono istituzioni a supporto della stessa e tantomeno esistono stampanti di banconote fumanti.

A tutti sono ormai noti vantaggi e svantaggi che il mantenimento del franco CFA costituisce per i paesi che lo utilizzano, purtroppo nessuno sembra avere la capacità o la volontà di creare qualcosa di diverso, nonostante i proclami. Affrancarsi sì, può aver senso perché per la prima volta sembrerebbero esistere motivazioni valide che vadano oltre slogan populisti e rancori, ma senza prese in giro e con criterio.

Joel Paqui

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