Durante una sosta del trasferimento in macchina con la famiglia, Chihiro s’imbatte in una città vuota scambiata per un parco giochi abbandonato. Da profani quali sono, i genitori s’ingozzano del cibo preparato per gli ospiti assenti, mentre la ragazzina, inquietata, vede il luogo riempirsi di spiriti.
Lei, fuori posto in quel mondo, sparirebbe di sicuro non fosse per l’aiuto di Haku, ragazzo (?) con poteri magici che le rivela l’unico modo per sopravvivere: chiedere alla strega Yubaba, la padrona locale, di essere assunta nello stabilimento termale per yokai (spiriti giapponesi).
Con la sua tenacia, Chihiro si rivela capace di tener testa alla strega, di poter reggere il lavoro e di non lasciarsi inghiottire da quel mondo del tutto nuovo per lei.
In quella dimensione aliena lei sfodera il meglio di sé uscendo dall’infanzia prima del tempo, all’interno di una struttura che è insieme immagine del capitalismo e della globalizzazione, del Giappone svendutosi alla modernità e dell’industria dell’intrattenimento.
Che questo film premiato con l’Orso d’Oro nel 2002 e poi col Premio Oscar sia la storia di una crescita e di un coraggio è dire poco, se non si conta che è soprattutto un racconto di purificazione.
L’immaginario delle terme e della ricerca interiore potrebbe portare noi occidentali verso 8 ½ (1963) di Fellini e non si sbaglierebbe: la differenza cruciale, però, sta nei protagonisti. Il Guido Anselmi di Fellini fagocita l’esterno filtrando tutto con la sua interiorità, dando alla vita esterna il passo della sua mente. Il suo percorso è tutto svolto all’interno e lo porta al perdono, all’accettazione e alla comprensione commossa di tutti i fatti e i personaggi della sua vita: il suo vero nemico è l’aridità.
Chihiro è invece buttata in un mondo sconosciuto e l’energia dimostrata contro le forze esterne la rende eroina fino in fondo, perché funge da esempio non solo per quanto sia riuscita sul versante tecnico della caratterizzazione.
È un perfetto personaggio miyazakiano, perchè in lei l’empatia e l’intelligenza non si scavalcano mai l’un l’altra e l’amore non diventa un debolezza.
Questa Alice nipponica si scontra con la spersonalizzazione del lavoro, che in Miyazaki porta tristezza (per Sophie nel Castello errante) o discordanza con i propri desideri (Porco rosso o Kiki). Non c’è un simbolo più forte di questo approccio nel “furto del nome” operato da Yubaba, vestita d’un abito occidentale blu, colore della forza nel buddhismo, che abita nei piani alti dello stabilimento termale in delle stanze sfarzose nemmeno fosse una zarina russa.
Che ironia che allo stesso tempo lei somigli alla maga Suliman e alla vecchia Sophie di qualche anno dopo; o che sia un diretto riferimento alle classi alte del Giappone, dedite al profitto e ad uno stile di vita occidentale fin dal periodo Meji (1868-1912)!
Non è un caso che per diretto contrasto, nel suo cottage di campagna, Miyazaki ci faccia conoscere la sua gemella Zeniba, che sarebbe stata l’orgoglio dei tradizionalisti europei del XX secolo. Lontana dallo stabilimento della sorella (detta professionalmente Aburaya, mercante d’olio), Zeniba si fa espressione dell’immagine serena del focolare, che a Miyazaki è cara perché opposta alla produzione, simbolo della misura affettuosa contro la velocità ed il massiccio del moderno.
Qui siamo più vicini a Léon Krier, Chesterton e Tennyson piuttosto che a Marx, nella critica contro il mondo contemporaneo.
Sempre su questo tracciato è bene ricordare lo Spirito Senza Volto, che potremmo chiamare perfettamente “Solitudine”, quasi fosse la personificazione di questo stato dell’essere (che è anche emozione), per niente lontano dallo stalker “Me-Mania” di Perfect Blue (1997) di Satoshi Kon.
Lo potremmo vedere come uno spettatore, un patito di junk-food, un drogato di televisione, perfino un pedofilo e nessuna di queste interpretazioni potrebbe essere smentita, per quanto è prismatico il personaggio.
Sono la forza e l’innocenza di Chihiro, che respinge i suoi attacchi e lo aiuta a redimersi, così come la comprensione di Zeniba a cambiarlo, lontano dalla tossicità delle terme che curano solo chi può permettersi un trattamento elevato.
Il punto centrale del film, però, è il motivo del rapporto con la Natura: la sola che per Miyazaki possa offrire libertà, lirismo e rapporto col divino. Questo stesso fulcro spiega il rapporto tra Chihiro e Haku.
Il dio del fiume inquinato è la punta dell’iceberg del lato ambientalista del film: il regalo della polpetta medicinale a Chihiro non è che l’espressione materiale e magica del sentimento che sostiene il legame tra la protagonista ed il suo amore che umano non è.
La Natura nel film guarisce, dà la Grazia ma può anche riceverla: sarà Chihiro ad aiutare Haku come lui ha aiutato lei, restaurando comunione e consonanza perfette tra umano e divino, tra Infanzia/Innocenza e Ambiente/Sentimento cosmico, che sono tra le cose più morbosamente attaccate dalla modernità.
Per segnare l’inscindibilità di questa connessione in Miyazaki forse non serve la prosa ma il verso, anche se di un’occidentale. L’ultima parte della poesia The Night-Wind di Emily Brontë ci mostra il legame tra il vento estivo e la sua amante umana, che inutilmente tenta di resistergli. Non ci sono parole più nette per chiudere il cerchio e mostrare il senso di questa unione interiore, che rimane per sempre in chi ha amato la Natura nell’infanzia e le rimane legato:
Trad.:
‘(…)
Il viandante non m’avrebbe ubbidito;
Il bacio suo si fece ancor più caldo.
‘O vieni!’ sospirò dolcemente;
Contro il tuo volere ti vincerò .
Non eravamo amici dall’infanzia?
Non t’ho amato a lungo?
Almeno quanto hai amato la notte
Il cui silenzio sveglia la mia canzone?
Quando il tuo cuore sarà a riposo
Sotto la pietra del sagrato
Io avrò tempo per piangere
E Tu per star da sola.’
Originale:
‘(…)
The wanderer would not heed me;
Its kiss grew warmer still.
‘O come!’ it sighed so sweetly;
’I’ll win thee ‘gainst thy will.
‘Were we not friends from childhood?
Have I not loved thee long?
As long as thou hast loved the night
Whose silence wakes my song?
‘And when thy heart is resting
Beneath the church-yard stone,
I shall have time enough to mourn,
And thou for being alone.
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