stesa, sdraiata a pancia in giù
o di lato, accoccolata su un fianco
col corpo abbandonato
alla mercé di un letto caldo, accogliente, soffice
con la testa poggiata sul cuscino
sul quale vorrei posare anche i miei pensieri,
riporli per la durata di una notte
in un luogo che non sia mio
il piumone e la mia aura burrascosa
fanno a gara
per inghiottirmi, fagocitarmi
in una delle tante realtà
che abito senza realmente vivere
mi ritrovo tutte le sere
ad osservare quel comodino
quella stessa abat-jour,
la tazza per bere,
qualche libro impilato,
occhiali da vista che rifiuto di indossare,
pasticche di calmanti che aiutano ad anestetizzare corpo e mente nel momento del bisogno
– ci vuole un po’ d’anestesia, per continuare a vivere
tutte queste cose
che dicono qualcosa di me
perché a me appartengono:
di me hanno le impronte, l’odore, i segni dell’usura, il riverbero del mio respiro
sono solo un pretesto,
una rassicurazione, la manifestazione di una ritualità,
di un qualcosa che va avanti
nonostante tutto
e quel qualcosa forse sono io,
che tutte le sere
mi corico nello stesso punto del letto,
osservo i medesimi oggetti,
penso di star subendo la vita
giorno dopo giorno
sempre allo stesso punto:
proprio come loro
mi impolvero
non cambio posizione
e non cerco attenzione
eppure a fine giornata
io veglio su di loro
e loro su di me
ci osserviamo silenziosamente
fin quando il giorno arriva
e i rimasugli della notte
si portano via
il nostro piccolo rito quotidiano di intimità