Un sogno senza trama

Nella filmografia di Tarantino C’era una volta a Hollywood è quello che deve di più alla commedia ma questo suo lato leggero ne spiega il fascino solo in parte: in essenza è un film piacevole fatto per essere tale, un divertissement.

Per ammaliare e trascinare lo spettatore le carte ci sono eccome: la sceneggiatura manca in struttura ma va in surplus per l’eleganza e la scioltezza del fraseggio; le luci del vecchio collaboratore di Oliver Stone, Robert Richardson, sfruttano a pieno il fascino del sole californiano; la Sharon Tate col corpo della bellissima quanto brava Margot Robbie è rievocata con affetto, quasi accarezzata dalla camera che l’adora e la fa amare.

Al piacere visivo non corrisponde però un trasporto narrativo. Due sono le storie che la cinepresa segue e Tarantino intreccia assai debolmente: quella della Tate fino al giorno della sua uccisione a Cielo Drive (9 agosto 1969) e l’altra, più importante, che ci racconta la zoppicante carriera di Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), aiutato dall’amico e autista Brad Pitt (Cliff Booth).

A questi due è dedicata la parte più corposa del racconto. La famiglia di Manson sta nel sottofondo, come ricettacolo di gente stupida, sviliti insieme alla messa in scena dell’orrore. Non c’è eccidio nel film, al massimo un finale splatter e d’impronta comica che strizza l’occhio ai B movies e dà ai due protagonisti maschili l’opportunità di diventare eroi, in una scena tutta sopra le righe.

C’è di sicuro gusto nel vedere i killer di Manson ridotti a fantocci da fare a pezzi: il tono affettuoso con cui la Tate è ritratta fa sperare in un cambiamento repentino degli eventi ed aumentare la preoccupazione, smentita dalle azioni fulminee e secche di un Brad Pitt sotto l’effetto di acidi. Il percorso però è anticlimatico in tutto e non c’è qui l’euforia o la soddisfazione che Taratino aveva congegnato per finale di Bastardi senza gloria (2009).

Lì i personaggi seguivano un percorso serratissimo e centripeto in un gioco al massacro, attratti dal comune obiettivo del Führer nel cinema parigino: c’era un magnete più che sufficiente ad attirarli verso la fine dei giochi e l’esplosivo eccidio dei nazisti.

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C’era una volta ad Hollywood è costruito su due binari che non si intrecciano se non alla fine e senza un reale collante a tenerli vicini. Gli omicidi di Cielo Drive sarebbero stati una base perfetta per fare di un film un omaggio-canto del cigno per l’Hollywood scomparsa: il punto debole del lavoro di Tarantino è di aver fatto ricordare la strage senza un giusto uso di ellissi.

Nel risultato finale prevale un tono leggero che prende il sopravvento tanto da cambiare la Storia: perciò la figura della Tate, legata indissolubilmente al ricordo della tragedia nella mente collettiva, sembra stare male in questo contesto. Il film non ne ricava una vera ragione di vita.

Dalla visione resta il piacere sentimentale e nostalgico che ha spinto Tarantino a creare il film, tale da rendere l’esperienza gradevole perfino ai non-cinefili, ignari dei riferimenti verbali o visivi.

Sono queste le chicche che danno lo sfizio della visione: gli aficionados del cinema classico o della prima cultura pop americana sono spinti al riconoscimento degli stilemi televisivi o cinematografici, inseriti nel film come tanti cassetti interni ad un armadio. Se poi si vuole parlare di quanto sia esilarante il set televisivo anni ‘60 dove lavora Rick Dalton di DiCaprio, con tutti i manierismi di regia e recitazione contrapposti alle nevrosi esilaranti dell’attore, gli esempi non mancano.

La presenza della Robbie di per sé vale il prezzo del biglietto ma tra i protagonisti è forse Pitt a risaltare di più: è sobrio, sciolto, lavora in chiave bassa a contrasto perfetto con l’istrionismo di Di Caprio.

Il gusto musicale di Tarantino, in compenso, non viene mai meno: la colonna sonora è un’autentica festa per le orecchie.

Voto: **½

Antonio Canzoniere

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