Già negli anni novanta Burhan Sönmez, scrittore turco di etnia curda e attivista per i diritti umani, ha sperimentato sulla propria pelle la violenza della repressione: in seguito a uno scontro fisico con le forze di sicurezza turche restò gravemente ferito, in pericolo di vita. È stato curato in Gran Bretagna con il sostegno della fondazione Freedom from torture – Medical Foundation for the Care of Victims of Torture. Il 6 novembre ha presentato il suo quarto romanzo, “Labirinto”, nella Libreria Nuova Europa – I Granai a Roma, con la partecipazione del giornalista Gabriele Santoro.
Protagonista del libro è il giovane Boratin, musicista blues di Istanbul, che un giorno si risveglia in ospedale completamente privo di memoria. Un dubbio attanaglia la sua mente svuotata di ogni ricordo: perché ha tentato di suicidarsi gettandosi dal ponte sul Bosforo? Come un poliziesco, il romanzo si dirama attraverso una scrittura non lineare nel labirinto di Istanbul e della mente umana, alla ricerca di risposte. Le stesse risposte che bramano gli avventori della libreria, a cominciare da quella di una lettrice incuriosita dalla distinzione accennata dall’autore tra storia e passato. La risposta dell’autore arriva tramite l’evocazione di un’immagine che ha un ruolo importante nel romanzo: la statua della Pietà. Proprio quella statua, nel romanzo presente sotto forma di soprammobile nel salotto del protagonista, conduce a una sottile distinzione tra ciò che è storia e ciò che è passato: un’immagine della Pietà, con Cristo morto e il volto contratto della Vergine, si può guardare in due modi: come un’episodio che appartiene a duemila anni fa, qualcosa di cui possiamo scrivere e parlare, e così facendo la consegniamo alla storia, è morta. Oppure si può cercare di immaginare il dolore di una madre si crea un raccordo tra passato e presente, mantenendola cosa viva.
Il romanzo è scritto in una forma che richiama anch’essa in concetto di labirinto. Narratore della storia è il protagonista stesso, che però narra le proprie stesse vicende in tempo reale con una strana commissione di prima e terza persona, come se per metà del tempo fosse altro da sé. La scelta della terza persona viene spiegata dall’autore con la perdita della memoria, dato che Boratin cerca di ricostruire il suo pensiero basandosi su ciò che vede, ma anche e soprattutto attraverso le parole degli altri che lo circondano. Convive dunque con due voci interne. Si delineano così due piani: quello dell’individuo che descrive ciò che vive e quello che la società vede vivergli; società che condiziona ogni nostra scelta.
Burhan Sönmez ha iniziato a scrivere romanzi durante l’esilio in Gran Bretagna: oltre a soffrire di gravi problemi di salute, le sue notti erano segnate dall’insonnia. Così il tempo trascorreva davanti alla televisione e prendendo appunti di ciò che gli passava per la mente. Proprio quegli appunti saranno la base delle narrazioni che poi confluiranno nel primo romanzo, nel quale la memoria ha già un ruolo cardine, ma è trattata in maniera completamente diversa, trattandosi della memoria degli esiliati.
La musica e la creazione artistica in generale sono cruciali nella storia di “Labirinto”. Boratin non ricorda i pezzi che ha composto prima di tentare il suicidio, e quando i suoi amici iniziano a suonare i suoi stessi brani inizia a notarne tutti i difetti ai quali prima non faceva caso: avere un bagaglio di conoscenze è fondamentale nell’arte, ma allo stesso tempo è una catena. Perdendo la memoria, Boratin se ne libera.
“Si tratta di una fuga dal concetto di identità?” chiede Gabriele Santoro. La risposta di Sönmez inizia sorniona ma poi si fa implacabile: “Questo è il quarto romanzo, il meno politico, eppure tutti ci hanno voluto leggere dentro un messaggio politico. La memoria è il campo di battaglia su cui il governo turco combatte la propria guerra. Cento anni fa nasceva una Repubblica con l’obiettivo di dimenticare gli errori dell’Impero ottomano e guardare al futuro. Erdoğan vuole invece ritornare a un secolo fa. Questo spiega la scelta di un giovane come protagonista: i giovani non vogliono ricordare ciò che il governo turco vuole che ricordino, ma vogliono costruire la propria identità. Non si tratta dunque di una fuga, ma anzi è un manifesto di costruzione di un’identità radicale che lotti contro la repressione.”
Ispirandosi all’effetto Mandela, l’autore crea un “effetto Boratin”: il protagonista ricorda eventi collettivi, come la morte di Cristo, ma non sa se sia successo pochi anni fa o millenni addietro. Si crea così un passato in cui non è importante la distanza temporale, e tutto è più vicino a noi. Lo stesso effetto si ricrea tristemente nella realtà: Mussolini è morto più di settant’anni fa, eppure è ancora vivo in diverse sfumature nella mente di troppe persone. Allo stesso modo Erdoğan che si ritiene l’ultimo sultano dell’Impero ottomano in qualche modo lo è, perché è questa l’immagine che vive dentro molti turchi, quella che agisce nelle loro teste.
“Qual è il ruolo della memoria nella società turca di oggi?” chiede Santoro. L’immagine che dipinge Sönmez è deprimente: “Ovunque le nostre memorie vengono plasmate da politica, scuola e media, creando un’immagine che riflettiamo nello specchio della nostra mente e accettiamo come vera. Nei libri scolastici in Turchia non si parla assolutamente dei Curdi: negli ultimi cento anni sembra non siano esistiti, e se sono esistiti sono traditori della Turchia, e quelli buoni sono solo quelli di fede islamica che non rappresentano una minaccia per l’idea di Turchia che ha Erdoğan. Il messaggio che viene diffuso è che l’Impero ottomano è il miglior impero della storia, ed Erdoğan è stato mandato da Dio per proseguire lo splendore del passato, prima che negli ultimi cento anni il Paese venisse tradito imitando il modello occidentale. E metà dei turchi ci crede, crede che la Turchia abbia il mondo intero contro è che gli altri Paesi la odino perché sono invidiosi di Erdoğan.”
Alla domanda se potesse esistere una Turchia senza i Curdi, la voce di Sönmez si fa amara: “I Curdi non hanno mai visto una terra indipendente. Non l’ho vista io, né mio padre, né i miei nonni né i miei bisnonni, ma nelle nostre menti c’è una terra immaginaria, il Kurdistan, che fu divisa tra Turchia, Siria, Iraq e Iran. Quando non esiste una memoria collettiva entra in gioco il fattore dell’immaginazione. Per i Curdi quello per il Kurdistan è come l’amore platonico per una donna mai mai vista: non si hanno ricordi condivisi, non si è vissuto niente insieme, eppure la si ama.”
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