“Un uomo che sta per diventare padre non lo riconosci da niente. Nessuno gli cede il posto, nessuno gli fa largo, nessuno suppone di doverlo proteggere, o compatire. Può uscire con una ragazza, bere con lei, fare il brillante: nulla, della sua attesa, sarà svelato. Può lui stesso, per qualche ora, dimenticare, e non sarà certo il corpo a ricordarglielo. Affamato, eccitato, stanco, però come sempre.
Se infine non si troverà lì – nei pochi lunghissimi istanti in cui, dal corpo della madre, verrà alla luce il figlio – niente potrà avvertirlo: non un presagio, un campanello, un dolore, un acquazzone, niente. Non resteranno segni addosso. Dovrà, per qualche via, essere raggiunto dalla notizia: svegliandosi nell’albergo lontano in cui è fuggito; o sentendo di perdere un battito, prigioniero di un mezzo di trasporto ormai in ritardo.”
Inizia così “Lontano dagli occhi”, il romanzo che Paolo Di Paolo ha presentato il 16 Novembre alla Libreria Nuova Europa – I Granai a Roma. La prosa brillante dello scrittore romano è letta da Francesca Gatto, mentre a dialogare con l’autore c’è Sabina Minardi, vicecaporedattore del settimanale L’Espresso.
La riflessione centrale del romanzo riguarda la genitorialità e il suo opposto, l’essere figli, nonché il passaggio tra il momento in cui si è solamente figli di qualcuno e si diventa genitori di qualcun al. Questo discorso viene portato avanti attraverso tre storie, che diventano sei, che ne rappresentano infinite: quelle dell’Irlandese, di Ermes e di Gaetano, tre giovani uomini – uno anche più che giovane – incapaci di affrontare il cambiamento; quelle di Luciana, Valentina e Cecilia, che portano in grembo i loro rispettivi figli; quelle di ogni singolo essere umano dagli albori dei tempi, da quando il primo figlio è diventato padre.
Sfondo attivo di tutte le storie è la tumultuosa Roma del 1983, caleidoscopio di eventi gioiosi e tremendi: è l’anno in cui la città è colorata di giallo e di rosso per la vittoria dello scudetto della Roma ed è tappezzata di manifesti per la scomparsa di Emanuela Orlandi, si celebrano i 40 anni di politica di Giulio Andreotti e diventa Presidente del Consiglio il segretario del Partito Socialista Bettino Craxi, si piange la morte di Rocco Chinnici, si balla al ritmo di “Tropicana” del Gruppo Italiano ed esce nelle librerie “Palomar” di Italo Calvino.
In questa gigantesca metropoli in cui anche la terza persona narrante che segue le vicende dei personaggi sa che “se ti sollevi da terra, se cerchi di stare dietro alle loro traiettorie osservandoli dall’alto, come da un terrazzo che domina un quartiere, da un elicottero, a un certo punto, comunque, li perdi”, le distanze possono essere infinite o inesistenti. In un’era antecedente a quella dell’odierna iper-connessione, se si perdono i contatti diretti non si ha idea di dove una persona possa essere. Così Luciana è convinta che l’Irlandese sia a Dublino a inseguire il sogno di riuscire a sfiorare Samuel Beckett, in un totale rovesciamento dei celebri versi di Sergio Endrigo: lontano dagli occhi non è lontano dal cuore, anzi, è dolorosamente presente in ogni istante.
La lontananza diventa un concetto relativo nell’immenso castello dei destini incrociati che è Roma, dove le traiettorie si toccano, si scontrano e si separano alla stessa velocità con cui i cambiamenti hanno travolto le vite dei sei protagonisti.
Proprio la difficoltà nell’accettare il cambiamento, ampiamente analizzata in epoche recenti da antropologi e sociologi, è una delle principali chiavi di lettura del romanzo. Per le tre ragazze, soprattutto, è impossibile mantenere anche soltanto lontano dagli occhi la trasformazione che terrebbero lontano dal cuore; presa di distanze che invece riuscirebbe meglio ai tre ragazzi.
Sono costoro non certamente modelli di virtù, ma mai nel romanzo è presente un giudizio da parte dell’autore. “Niente ci accomuna come l’essere figli” recita la quarta di copertina, un concetto tanto ovvio quanto impressionante se si pensa a quante infinite possibili varianti avrebbero potuto condurre ogni essere umano a non essere mai generato. Se si guarda il prossimo da questo punto di vista, il giudizio diventa assai più difficile, frenato da quella che Di Paolo definisce con un’espressione manzoniana “l’intelligenza del cuore”. La letteratura, seppur possa apparire paradossale, mediante la finzione ha il compito di sfatare i falsi miti, compreso quello della genitorialità come un dono privo di dolori. Il giudizio nei confronti dei protagonisti, persone tutte diverse tra di loro ma accomunate da un’identica devastante solitudine, non arriva dunque ma non per una sorta di pietosa assoluzione, bensì “perché siamo tutti abbastanza fallibili, scombinabili e turbabili.”
Nulla nel romanzo è lasciato al caso: rispetto ai precedenti romanzi, ammetto l’autore, “Lontano dagli occhi” è il primo in cui eccetto lo sfondo nulla si poggia su una stampella di verità. Se in “Dove eravate tutti” si parla di Silvio Berlusconi con tanto di articoli di giornale riportati integralmente per documentare il lettore, se in “Mandami tanta vita” il Pietro che suscita la violenta ammirazione del protagonista è facilmente identificabile come Pietro Gobetti, il giornalista e filosofo antifascista morto a 25 anni durante l’esilio francese nel 1926, in “Lontano dagli occhi” nessuno dei personaggi esiste davvero. Non sono “sei personaggi in cerca d’autore”, quanto piuttosto un autore in cerca di sei personaggi. Essendo interamente ammantato di finzione, si rivela essere dunque il più sincero dei romanzi: la terza persona si trasforma nel finale in un “io” che coincide perfettamente con l’autore, la cui presenza però è paragonabile a quella di un dettaglio in basso in un’enorme tela. È infatti proprio la totale autonomia dei personaggi che consente infatti loro di dare risposte a domande altrimenti impossibili.