Pazu, giovane minatore, incontra Sheeta per puro caso, quando lei cade dall’alto dopo un attacco pirata allo zeppelin dove era tenuta prigioniera, scendendo verso la terra senza pericolo per il potere dell’Aeropietra che lei porta al collo.
Dopo averla fatta rifugiare a casa sua, Pazu scopre che lei porta con sé il segreto di un’Atlantide celeste, Laputa, che una volta usava la propria tecnologia per dominare la Terra e ha lasciato tracce solo attraverso la sua dinastia regnante decaduta, di cui Sheeta è l’erede.
I due decidono di scoprire il segreto dell’isola, che già il padre di Pazu aveva tentato di svelare prima di morire. Si mettono quindi in viaggio avendo alle calcagna i pirati capeggiati dalla virago Dola e l’infido Muska che aveva tenuto segregata Sheeta e punta al potere di Laputa.
Nel mondo de Il castello nel cielo (1986) ci sono zeppelin mitteleuropei, pirati del cielo (che rivedremo poi in Porco Rosso all’assalto per l’Adriatico), scenari che combinano l’Inghilterra dei minatori e tecnologia à la fin de siècle che è alla base del genere steampunk.
Questo gioiello del primo Miyazaki è un film sicuramente eccentrico, una fiaba fantascientifica le cui componenti narrative sono poste come note nel solfeggio di un virtuoso.
Si ha la percezione nettissima della densità del materiale, così come del fatto che solo Miyazaki avrebbe potuto dirigerlo e renderlo coerente nelle sue parti per virtù di stile.
Si ha un esplicito richiamo a I viaggi di Gulliver con l’isola del film che è essa stessa una protagonista ma la differenza tra le due Laputa è esplicativa: con Swift l’isola è una parodia dell’idealismo senza contatti con l’esperienza pratica; Miyazaki usa la sua Laputa per una critica alla violenza militare e politica che è condivisa pienamente dal mondo umano e la rende simbolo stesso di un potere al negativo.
Non è certamente smentito il potere dell’espressione e del racconto degli spazi di Miyazaki, che di castelli volanti se ne intende: gli scenari hanno un respiro che passa dalle suggestioni dello Yorkshire industriale alle regge delle foreste asiatiche; dai laboratori di fantascienza alle atmosfere gotiche già espresse in Lupin III – Il castello di Cagliostro.
Da un lato si gode certamente dell’intreccio che è importante pure per dimostrare quanto l’estetica e l’ingegneria anglo-germanica abbiano influito sull’animazione giapponese; dall’altro si sente che che nel film stesse crescendo quella vena lirica, non narrativa, che fa aprire i personaggi di Miyazaki all’emozione della Natura.
In simbiosi con questo scambio tra personaggio e ambiente sta l’amore tenerissimo ed ingenuamente già maturo di Pazu e Sheeta, che si scoprono l’un l’altro, innocenti e al contempo esperti, come se sapessero già che dirsi e in che modo amarsi. Come accadrà pure nei film successivi di Miyazaki, l’amore li rende eroici, li tonifica, fa superare le loro paure.
Sullo sfondo di questa storia d’amore e di questa avventura si stagliano l’energia dello stile, l’assenza aggraziata di compiacimento nelle sequenze di distruzione, le musiche di Joe Hisaishi ed il brio della caratterizzazione dei personaggi secondari. È bene ricordare, in questo senso, specialmente i pirati di Dola che diventano alleati da nemici che erano, come da secoli accade nella letteratura orientale.
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