Ladj Ly (1978) ha dilatato un suo corto del 2018 con il lungometraggio Les Misérables (2019), che a Cannes s’è meritato il Premio della Giuria.
È un esempio bellissimo di quella ricerca del “grado zero” così caro al cinema francese d’oggi, logorato dall’uso e sospettabile di manierismo ma riscattato da film come questo.
La violenza su un abitante di Montfermeil (Parigi) che sta alla base del film è accaduta realmente nell’ottobre 2008, filmata dallo stesso Ladj Ly e trasposta dieci anni dopo nel film, al tempo della vittoria calcistica francese in Russia.
Les Misérables potrà ricordare a qualcuno Do the right thing (1989) di Spike Lee, giacché entrambi sono storie di un quartiere immerso nella calura estiva che esacerba la violenza ed il risentimento; racconti di una violenza e delle sue conseguenze; messe in mostra delle “bolle” etniche formatesi in quartieri periferici.
Cosa curiosa è che in entrambi compaia la figura di un “sindaco”, ridotto però a macchietta da Lee, che lo faceva presenziare col suo passo da ubriaco per le strade di Brooklyn. Les Misérables non ha le luci calde ed estetizzanti scelte per dare a Do the right thing una sensualità che oggi risulta infida, più adatta a persuadere che a mostrare con lucidità.
Ly non ha lavorato sulla luce per raccontare il suo quartiere: ha giocato in casa e si sente che questo stesso fatto l’ha spinto a dare il meglio nella rappresentazione, senza fare del ricamo sui corpi o sugli spazi.
Ci fa conoscere l’ambiente con la scusa di un “Training Day” di una piccola squadra di polizia: Chris (Alexis Manenti, cosceneggiatore) e Gwada (Djebril Zonga) devono far conoscere il quartiere al nuovo arrivato Stéphane (Damien Bonnard).
Quando il piccolo Issa (Issa Perica) ruba agli zingari un leoncino, i tre si mettono alla sua ricerca per non scatenare rappresaglie: si ha così il tempo di vedere Montfermeil, tra le donne africane che mettono soldi per aiutare amiche e vicine raccolte nelle loro stanze, i ragazzi che giocano, il mercato che il Sindaco gestisce con un fido consigliere dai capelli tinti che ricorda Hanamichi dell’anime Slam Dunk (1993).
Sfogo della tensione è il colpo che scappa a Gwada e colpisce Issa in faccia, filmato dal drone di Buzz (Al-Hassan Ly). La vendetta dei più giovani non tarderà ad arrivare.
La lucidità di Ly è già tutta nell’espressione, non ci impone un filtro né una posizione netta: è su questo punto che si mostra cinematograficamente maturo, visto che mostra e non dice, unendo come miserabili sia “carcerieri” che “carcerati”.
Punto di forza del film è mostrare come tra queste due fazioni ci sia una frattura profonda, quasi anomala di comprensione. Ci sono due linguaggi differenti (di corpo, status e mansione) che si sovrappongono alla lingua e prevengono ogni comprensione reciproca.
Non sono che il luogo e la Storia pregressa (anche solo da intendere in piccolo, quella del quartiere) a prevenire il contatto, quasi che sia più un fatto di autismo sociale che somma e ingloba la cultura, le abitudini, la religione o il determinismo che deriva dai luoghi lasciati a sé stessi.
Per motivi diversi, sottolineando la differenza di stile, Les Misérables è importante quanto Parasite, quasi una risposta europea che viene dal Basso e il Basso vuole raccontare, con una freschezza e un’obbiettività che fa stringere idealmente la mano ai due film.
Se Hugo è vicino lo è per la comprensione e l’affetto verso i protagonisti, che Ly mostra senza però cedere al romanzesco e che in Italia si manifestava in senso più viscerale col Caligari dello splendido Non essere cattivo (2015), da vedere con Les Misérables in una sorta di dittico sul presente europeo. E si ricordi: ci sono più cattivi coltivatori che mauvaises herbes ou mauvais hommes.