Chi ha paura del camice grigio

Mi chiamo Eva e sono un medico neoabilitato, praticamente un cucciolo di medico, ma pur sempre un medico. Quello del camice grigio è un neologismo ben impresso nella mia mente, che ha sempre gettato un’ombra cupa sul mio futuro, sin dal primo anno di università, quando di camici grigi ce n’erano ancora pochi. Il camice grigio è un medico che, per dirla alla Aldo, Giovanni e Giacomo, non può né scendere, né salire. È un medico che si è laureato, magari in tempo e magari a pieni voti. Un medico che ha superato l’esame di abilitazione ed è pronto per proseguire la propria formazione specialistica, fondamentale per acquisire abilità e autonomia nella cura del paziente. È un medico che però non ha passato il test di specializzazione, perché il punteggio ottenuto con quelle 140 crocette non gli ha consentito di entrare in graduatoria, o perché in graduatoria c’è entrato ma non nella specializzazione per cui si sente portato o non in una città ragionevolmente vicina a casa. Un medico che, senza specializzazione, può rendersi utile in maniera marginale, in un paese in cui, paradossalmente, c’è ormai da anni un bisogno disperato di medici specializzati. Un medico, che per sopravvivere tra un concorso di specializzazione e quello dell’anno successivo, accetterà impieghi di ripiego, come guardie mediche e sostituzioni di medici di base, mansioni certamente utili, ma assolutamente non ideali per il lungo periodo, in quanto non consentono alcun tipo di avanzamento, né in termini di formazione post-laurea, né in termini di carriera.

Un cittadino che abbia avuto a che fare con il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) solo in quanto paziente, penserà che i camici grigi siano pochi casi sfortunati. Invece no, sono migliaia. Al concorso per le Scuole di Specializzazione in Medicina (SSM) del 2019 si sono presentati 18.773 candidati, ossia 18.773 medici pronti per iniziare a lavorare per il SSN, nel contesto di un percorso formativo che li portasse a diventare medici specializzati. Il numero di borse stanziate era 8.776. Ciò vuol dire che 10.000 medici sono rimasti in un limbo tra laurea e specializzazione e sono diventati i cosiddetti camici grigi. Questa situazione, che si ripropone ogni anno con numeri sempre più sconcertanti, non solo pone i camici grigi in una condizione di drammatica precarietà, ma costituisce anche una perdita inconcepibile in termini di spesa pubblica e di risorse. È come andare a comprare gli ingredienti per fare un dolce, passare tutto il pomeriggio a cucinare, riuscire finalmente a sfornare una torta deliziosa e gettarla dalla finestra solo perché non si riesce a fare lo sforzo di prendere un coltello dal cassetto per tagliarla. Uno spreco inutile e senza senso, oltre che un’ingiustizia. Cosa faranno infatti questi 10.000 camici grigi? Rimarranno tutti in paziente attesa del concorso successivo? La risposta banalmente è no. Molti, quelli meno propensi al martirio, scelgono di emigrare, regalando la propria formazione ad altri stati, che a differenza dell’Italia riconoscono la grande risorsa che costituiscono i medici neolaureati. 

Da ingenua mi sono interessata alla sorte dei medici neolaureati solo una volta iniziati gli studi universitari. Già al primo anno di medicina mi sono resa conto che qualcosa non tornava. Ogni anno, in Italia, si laureavano (e si laureano tutt’oggi) circa 8.000 medici e ogni anno i posti al concorso di specializzazione erano circa 6.000. Sarebbe stato quindi sufficiente possedere delle competenze matematiche elementari per capire che ogni anno sarebbero rimasti esclusi dalla specializzazione circa 2.000 medici, che si sarebbero accumulati nel corso del tempo. Sempre da studentessa ingenua, ero fiduciosa che le istituzioni avrebbero fatto qualcosa, perché si trattava di un problema troppo grave e troppo palese per venire ignorato. Invece è proprio quello che è successo, nessuno ha fatto nulla. Nessuno, nonostante le continue richieste, ha aumentato il numero delle borse di specializzazione. Nessuno si è preoccupato di noi. Nessuno si è preoccupato dei cittadini, ai quali, senza medici specializzati, non si può garantire un adeguato livello di assistenza.

Ho dunque passato la prima parte del mio percorso universitario con la paura di non entrare in specializzazione. Questa ansia ha fatto da sottofondo ad ogni esame che ho preparato e ad ogni tirocinio che ho frequentato. Avevo la preoccupazione costante di dover essere più brillante dei miei compagni, per poterli superare al test. È così che funziona: non basta essere bravi, bisogna essere migliori degli altri, è la legge delle graduatorie. Se non passi tu, forse passo io. Più tardi sono riuscita a calmare le mie ansie convincendomi che probabilmente, studiando abbastanza, avrei avuto buone chances di entrare, soprattutto perché molte delle specializzazioni chirurgiche non sono tra le più ambite e a me sarebbe andata bene una qualunque chirurgia. Ma c’era ancora qualcosa che non mi convinceva e ho iniziato ad informarmi in maniera più specifica sulla formazione chirurgica. 

Ho scoperto che in Italia, chi esce da una Scuola di Specializzazione chirurgica spesso non è in grado di operare, perché non viene dato spazio sufficiente alla formazione. Lo specializzando viene lasciato in reparto e viene sfruttato per coprire i turni. Alla fine del suo percorso spesso non raggiunge le competenze tecniche normalmente richieste ad un chirurgo.  Oltre a ciò succede quello che succede anche in tutte le altre branche di specializzazione. Il concetto di “straordinari” non esiste: anche se si è medici lavoratori a tutti gli effetti si percepisce una borsa di studio e non uno stipendio, per cui tutte le ore in più, che solitamente non sono poche, non vengono retribuite (fatto doppiamente vantaggioso per la ASL che può contare sul lavoro degli specializzandi, senza l’onere di retribuirli direttamente). Non esiste un regolamento relativo alle ferie e le tutele per la maternità sono quasi inesistenti.

Non è una prospettiva allettante. Tuttavia, il mantra che ci ripetiamo e che ci ripetono dai primi giorni di università è che se c’è la passione c’è tutto. L’importante è fare quello che ti piace e questo ti deve bastare per ritenerti fortunato. Io di passione per la chirurgia ne ho e ne avevo. Così non mi sono persa d’animo e ho cercato di rendere la mia formazione universitaria il più completa possibile. Ho studiato con impegno e costanza, senza mai rimandare un esame, e ho iniziato a cercare opportunità di tirocinio all’estero, dove si sa, già dall’università viene data più importanza alla pratica. Sono così finita, da studentessa, in sale operatorie francesi e tedesche. Ho imparato a fare da terzo e da quarto operatore, anche da secondo per gli interventi più piccoli. Praticamente, da studentessa alle prime armi che ero, svolgevo i compiti ai quali aspiravano gli specializzandi in Italia. Inoltre vedevo tante chirurghe, che nelle mie esperienze precedenti erano state figure alquanto rare.

Non stupisce quindi, come lentamente sia nata in me l’idea di fare la specializzazione all’estero. Per lungo tempo è stata soltanto un’opzione annoverata nel ventaglio delle possibilità, come un salvagente che tenevo pronto, nel caso fossi entrata nel limbo dei camici grigi. Tuttavia, dopo l’Erasmus in Germania, è diventata una scelta. Mi sono innamorata del posto e anche di un ragazzo a dirla tutta, per questo ho scelto di tornare là una volta laureata. Il fatto di avere là qualcuno che mi aspetta non mi fa sentire un medico in fuga. Non sono una di quelli che emigrano perché non hanno alcun tipo di possibilità lavorativa in patria. Potrei passare il test, o forse no. Ma anche se lo passassi e riuscissi ad iniziare la specializzazione in una città vicino a casa, ne varrebbe la pena? Voglio davvero avere orari di lavoro estenuanti, senza imparare realmente il mestiere? Voglio davvero venire sfruttata ricevendo una paga misera, da cui devo sottrarre le tasse universitarie? Si sa infatti che gli specializzandi pagano le tasse come studenti, ma vengono sfruttati come lavoratori. La risposta che mi sono data è che non ho voglia di affrontare tutto questo, se non è strettamente necessario, se ho comunque altre possibilità.

Come ho già detto, però, non penso che la mia sia una fuga. Ho trovato la mia strada all’estero e ho deciso di percorrerla. Forse avrei fatto la stessa scelta anche se la situazione in Italia fosse stata più rosea. Quello che mi fa soffrire è che, a queste condizioni, non mi è neanche venuto il dubbio di voler restare in Italia. Non ho dovuto stilare nessuna lista dei pro e dei contro, perché i pro abbondano in maniera spropositata per l’estero. Gli unici pro per l’Italia sono il fatto di poter parlare la mia lingua e di essere vicina alla mia famiglia, ma questo non ha nulla a che fare con la qualità della formazione specialistica. Continuo ad essere convinta che sia più facile imparare il tedesco che affrontare il test ed eventualmente la specializzazione in patria.

Con ciò non voglio dire che il percorso di specializzazione all’estero sia tutto rosa e fiori e che stenderanno il tappeto rosso al mio arrivo. Semplicemente, andando in Germania, ho l’opportunità di essere riconosciuta per il medico che sono, di avere un lavoro retribuito tramite stipendio, straordinari pagati e soprattutto ho l’opportunità di imparare realmente il mestiere che voglio fare e per cui ho studiato 6 anni della mia vita. Mi sembrano le condizioni minime che ogni medico dovrebbe esigere. Invece no, in Italia abbiamo la brutta abitudine di farci bastare la passione e la gratitudine, che sono sentimenti nobilissimi, ma non possono essere un surrogato della retribuzione e delle tutele sul lavoro. Lo abbiamo visto di recente con l’esaltazione delle nobili virtù del personale sanitario durante l’emergenza Covid. Medici ed infermieri sono stati chiamati “eroi”. Ma cosa se ne fanno degli applausi questi “eroi”, se non hanno condizioni di lavoro dignitose?

Anche per questo venerdì 29 maggio sono scesa in piazza a protestare. Perché non ci siano più camici grigi, perché il percorso di specializzazione diventi un vero percorso formativo, perché agli specializzandi venga riconosciuta la dignità di lavoratori e perché si continui a dare valore al SSN e a tutti i suoi lavoratori, affinché a ognuno vengano garantite le cure di cui ha bisogno. 

Eva Bonetti

Pubblicità

Un pensiero su “Chi ha paura del camice grigio

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...