Ma il dramma di Amélie non è anche il nostro?

Memorie poetiche di una serata al Cinema America, featuring Mathieu Kassovitz.

D’estate si è sempre pronti a cercare eventi e programmazioni di tutti i generi per riempire le serate calde e vagamente ventilate. A maggior ragione in un’estate così atipica come questa, avendo quasi rischiato di viverla dietro le nostre finestre chiuse, con i nostri social e le piattaforme di streaming sempre aperte. Ma a Roma l’estate è magica, diciamocelo. La gente parte e ritorna per qualche giorno, prima di affollare ancora spiagge e città lontane, e i turisti rimangono a popolare Trastevere. Negli anni passati il Tevere si acchittava per le serate tra bancarelle e narghilè, mentre a Castel Sant’Angelo si poteva giocare con degli scacchi giganti al parco, sorseggiando una birra. Quest’anno mancano all’appello alcune particolarità dell’estate romana, ma altre sono rimaste, hanno resistito alla lunga quarantena e anche ad una serie di ostacoli di diversa natura: il Cinema in piazza, è una di queste, per non dire quella più cara e vivida nell’immaginario romano. E non sto parlando solo delle proiezioni in piazza San Cosimato, perché i ragazzi del Cinema America hanno pensato ancora più in grande, incentivato ancora di più la partecipazione, riadattando gli spazi di Ostia e del Parco della Cervelletta per un cinema più ampio e variegato, con una programmazione da grandi amatori del cinema. 

Eppure, quando ho visto scritto “Il favoloso mondo di Amelie” ho avuto un po’ di remore: siamo sicuri che vederlo proiettato oggi, con così tanta pesantezza nel presente, in una realtà gravosa che più o meno sentiamo tutti sulle spalle, lo spirito inconfondibile di questo film esca fuori? E arrivi a noi, fan che l’abbiamo visto mille volte, anche su quei piccoli schermi che si sono impadroniti della magia del proiettore della cinepresa? Non erano domande così articolate nella mia testa, ma sicuramente esplicitano il mio timore, la mia estrema riverenza per una pellicola che risuona un po’ nelle orecchie di tutti i sognatori dagli anni novanta in giù. 

Ad invogliarmi definitivamente è stato scoprire che presentavano la pellicola (al Parco della Cervelletta) assieme all’attore co-protagonista Mathieu Kassovitz, che interpretò l’altra metà di Amélie nel pieno dei suoi giovani trent’anni: Nino. Una personalità tra le più francesi che potreste incontrare: ardito, frizzante, dissacrante e sempre pronto a stuzzicare il pubblico, e soprattutto i ragazzi sul palco, con domande e battute sempre pronte, sempre con i tempi giusti… Del resto, è un regista. E non un un regista qualunque, visto e considerato il successo dell’opera più famosa: L’Haine. Un film totalmente diverso da quello che stavamo per vedere, lì sdraiati sul telo da mare con la luna che faceva capolino, come se volesse sbirciare anche lei attirata dalle musiche incredibili di Yann Tiersen. Sì perché il film in questione è in bianco e nero, senza musica alcuna, crudo, simbolico, ma solo in una seconda battuta, non certo nella prima, che si potrebbe riassumere con qualcosa come “sferzata realista” in pieno viso. Anche questo è ambientato a Parigi, ma niente guglie, niente piccoli bar di Montmartre o crem brûlé, solo difficili sobborghi francesi e ingiustizia sociale. Vi immaginate chiacchierare con un personaggio del genere? Con il regista di un film così e al contempo attore, dalla performance egregia, in un altro film come quello di Amélie Poulain, dove ogni dettaglio è una delizia, e non un pugno? Il pubblico fremeva e si intimidiva, poi rideva e pendeva dalle labbra della traduttrice che accompagnava Mathieu. Era così strano aver seguito con lo sguardo sognante di Amélie Nino sullo schermo, e poi con le nostre orecchie la stessa persona, ma nelle vesti di se stessa. E già qui sta un pizzico di magia cinematografica. 

Nel corso del dibattito successivo, ancora dondolati dal bel finale, di quelli che ti stende se già sei innamorato e ti fa sospirare se non lo sei o lo sei stato, è emersa la curiosità di sapere cosa significasse il favoloso mondo di Amelie Poulain per il regista; e come avesse fatto a incastrare così delle musiche, nate con il ruolo a cui erano destinate, di tessere il filo narrativo e scenografico della vita di una giovane introversa. Che bel compito da avere al mondo, eh? Secondo Mathieu, grande estimatore del regista Jean-Pierre Jeunet, il film è stato per quest’ultimo un manifesto, non politico, come poteva essere L’Haine, ma più l’intento di dare al mondo uno sguardo personalissimo su Parigi, sulle piccole cose e farci una storia coinvolgente. Crepuscolare? Che, come dice qualche articolo recente, dà un’immagine distorta e stralunata, dei personaggi e della città? Forse, ma è proprio questo il punto. 

I parigini non lo disprezzano, ha testimoniato Mathieu, come si possono disprezzare gli stereotipi di una Torre Eiffel stinta e una baguette disegnata su una borsetta, quella dei souvenirs; invece, il film si rivela “il souvenir”, il ricordo del regista che ha voluto rendersi palpabile, in qualche modo esperibile. Nulla è lasciato al caso: anche il dettaglio dei titoli di coda rivela quanto Jeunet abbia pensato a tutto, a lasciare la giusta musica (sempre di Yann Tiersen) fino a conclusione completa del film, fino all’ultima menzione. E così i ragazzi del cinema America l’hanno lasciato scorrere e noi ci siamo dondolati un altro po’ in quell’universo. Possiamo dire insomma, che le musiche, e come non poteva essere altrimenti, fanno il cinquanta percento del lavoro e il resto ce lo mettono gli attori, gli ambienti e gli spettatori stessi, rapiti alla maestria di saper raccontare del realizzatore. 

Non penso che la protagonista dia il cattivo esempio, esprimendo la sua unicità e i suoi disagi sulle note di un pianoforte, oppure davanti alla tela del “l’homme de verre”, incarna semplicemente i nostri timori, anche se noi non siamo solito affondare la mano nel sacco di grano. Poi, il fatto che metà della popolazione femminile abbia voluto recuperare le gonne della mamma e farsi un caschetto decisamente opinabile, che sta da d’incanto solo ad Audrey Tautou, è un altro discorso. L’attrice, tra l’altro, avrebbe dovuto accompagnare Mathieu, ma per problemi lavorativi non è potuta esserci. Vederla forse, sarebbe stato troppo, è meglio ricordarsela in pellicola ed evitare altri effetti stranianti. Sì, come una festa di compleanno. 

Sì, sto parlando di Mathieu che ha compiuto gli anni a mezzanotte del 3 agosto, e proprio durante un’interessante domanda su quanto certi registi spremano in malo modo gli attori, hanno spento le luci ed ecco che i ragazzi del cinema America avevano organizzato il tutto per una festa a sorpresa. Per il festeggiato e i festeggianti. 

Sarà stata colpa del film che ti fa meravigliare di nuvole a forma di coniglio e di un nano in viaggio, e di un ragazzo che colleziona fototessere strappate, ma vedere dei fuochi d’artificio illuminarsi nella notte è stato magico. Come se ogni scintilla avesse un valore, come se noi avessimo chissà quale privilegio, un po’ di quella gioia fanciullesca che a volte non torna mai. E prima di diventare patetica e troppo prosaica, chiuderei l’aneddoto con Mathieu che ringrazia e rimane ossessionato dal gateau (la torta) per il resto dell’intervista. E poi, dulcis in fundo letteralmente, la divide con il suo pubblico. Un bel modo per concludere una serata inaspettata, perché più di qualcuno avrà pensato “ah ma io Amelie l’ho visto mille volte”, me compresa, e invece no, ci siamo meravigliati ancora. Forse il senso era proprio questo. 

E così, anche e soprattutto dopo averlo visto su un maxi schermo a lume di luna, suppongo che il dramma di Amélie sia il dramma di tutti: aggrapparsi alle fantasie per non fronteggiare la realtà, al non detto per non affrontare il rifiuto o la riuscita, al gioco e alla solitudine per non vivere il dolore. Sicuramente questi famigerati fatti, questi attimi non risponderanno mai a quello che noi c’eravamo prefigurati sul retro degli occhi, colmi di sogni e aspettative. Ognuno ha la possibilità di trovare il modo giusto di affrontarli, smussandone un po’ gli spigoli ogni tanto, magari ascoltando i rumori per strada o gettando i sassolini nel canale di San Martin… Ma hey, non c’è forse della poesia anche nelle esperienze che, nella loro ineluttabilità, ci capita di cercare e di vivere? 

Iris Furnari

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