Dopo Pom Poko (1994) era giusto parlare di Kaguya, la protagonista dell’ultimo film di Isao Takahata (1935-2018).
Ritorna ancora, in questo film che è l’addio al cinema del regista, il sostrato rurale e buddhista del Giappone, quell’atmosfera delle origini cui Takahata è sempre rimasto legato: il soggetto di partenza è una delle storie più importanti della tradizione nipponica, risalente al X secolo e il cui più antico manoscritto ci riporta al XVI secolo.
Un giorno, il vecchio tagliatore Okina vede nella foresta un ramo luminoso di bambù: all’interno giace una piccolissima bambina che lui, senza figli, decide di portare a casa.
La piccola, chiamata Kaguya, si dimostra da subito un essere particolare: cresce velocemente nella mente e nel corpo, vivendo senza pensieri tra la natura e giocando coi figli dei contadini vicini.
Si lega a Sutemaru, suo compagno di giochi, non sospettando che quella gioia sta per finire. Un giorno, suo padre torna nella foresta e tagliando dei rami di bambù trova oro e stoffe. Cosciente della bellezza della figlia, decide di darle la vita di una principessa e trasferire la famiglia nella capitale.
Dapprima abbagliata dalla novità, Kaguya si ritrova intrappolata dai comandi delle governanti, la farsa dei pretendenti e delle loro iperboli, dalla villania dell’imperatore stesso.
Nemmeno il piccolo giardino sul retro del palazzo la consola dalla distanza degli amici, nel frattempo trasferitisi altrove.
Fatto sta che lei, pur in gabbia, non porta rancore al mondo né ai genitori quando è riportata tra le sfere celesti, presa dal Buddha stesso che voleva farle provare la vanità delle cose terrene.
Noi occidentali potremmo perfettamente accostare questa principessa racchiusa nel tratto di un acquerello limpidissimo e di un sintetico carboncino ad Elisabetta d’Austria (1837-1898): questa Sissi nipponica, fosse realmente vissuta e avesse potuto conoscere questa sua gemella occidentale, si sarebbe di sicuro ritrovata in lei per la nascita chiacchierata (alla futura imperatrice toccò di nascere già con un dentino come Napoleone, per giunta di domenica, il 24 di dicembre, cosa che secondo il popolo avrebbe portato un destino importante nella sciagura come nella fortuna); la stessa infanzia nella natura; lo stesso primo amore mancato (per Elisabetta fu Richard S., figlio di un conte al servizio del padre); il senso di prigionia nel lusso e gli onori della vita adulta; infine, l’uso della bellezza come arma e scudo contro il mondo.
Per le due donne la vita è una storia crudele, non meno che per gli altri protagonisti di Takahata: a Kaguya non resta che il sogno e la sublimazione di una vita con Sutemaru attraverso una splendida scena di volo, elemento già sfruttato in una circostanza più felice per una scena di Pioggia di ricordi (1991).
Va detto però che se in quel film il volo era dato dall’ebbrezza che la prima cotta aveva scatenato nella protagonista Taeko, la malinconia era stemperata dall’atmosfera del film, incentrato sul passato come luogo mentale da ricordare, assimilare e superare; ne La principessa splendente il passato è invece l’unico luogo cui tornare per essere felici.
La sequenza del commiato aereo a Sutemaru, così come le scene dell’infanzia di Kaguya e la corsa disperata nella neve sono tra le cose più belle prodotte da Takahata, in un film pieno di dolore dove però non si lanciano maledizioni contro la vita: Kaguya è sconfitta ma mai sceglierebbe di non vivere le esperienze sulla Terra.
Questo è il lato più bello della sua personalità: se già era bella, questa magnanimità la trasfigura, la rende regale nel senso più commovente della parola. Takahata può stringere con questo film la mano ad un grande occidentale che, con altri toni e ambienti, era riuscito a cantare i vinti ed il senso di esilio dalla felicità del passato, come quello che potrebbero lamentare le piante e i fiori sradicati dal suolo natìo: lo Charles Baudelaire de Il cigno.
Il cigno
A Victor Hugo
I
Andromaca, io penso a voi! Quel fiumiciattolo, misero e triste specchio dove un tempo rifulse
l’immensa maestà delle vostre pene di vedova, quel Simoenta ingrossato dalle vostre lacrime, ha
d’improvviso fecondato la mia fertile memoria mentre attraversavo il Carosello nuovo. La vecchia
Parigi non esiste più (l’aspetto d’una città muta più presto, ahimè, che il cuore dell’uomo), soltanto
in spirito vedo tutto il campo di baracche, il mucchio di capitelli appena sbozzati e di fusti di
colonne, le erbe, i grandi massi inverditi dall’acqua delle pozzanghere e, nel brillìo delle vetrine, la
confusione delle cianfrusaglie.
Laggiù stava un giorno un serraglio, e là io vidi, un mattino, all’ora in cui sotto cieli freddi e chiari
il Lavoro si sveglia, e gli spazzini levano un oscuro uragano nell’aria silenziosa, un cigno evaso
dalla sua gabbia: con i piedi palmati fregava il selciato arido, trascinando il bianco piumaggio sul
terreno accidentato. Presso un ruscello secco l’animale, aprendo il becco, immergeva febbrilmente le
ali nella polvere, e diceva, il cuore tutto memore del suo bel lago natìo: «Quando scenderai, acqua,
quando esploderai, fulmine?»
Vedo quel misero, strano e fatale mito, verso il cielo, talvolta, verso il cielo ironico e crudelmente
azzurro – come l’uomo di Ovidio sul suo collo convulso innalzando l’avida testa – in atto di lanciare
rimproveri a Dio.
II
Parigi cambia! Ma nulla è mutato nella mia malinconia: palazzi nuovi, impalcature, massi, vecchi
quartieri, tutto in me diviene allegoria, e i miei ricordi più cari sono grevi come rocce.
Così, dinnanzi al Louvre un’immagine m’opprime. Penso al mio grande cigno (ai suoi movimenti
folli), ridicolo e sublime come gli esuli, e divorato da un desiderio senza requie. E penso a voi,
Andromaca, caduta dalle braccia d’un grande sposo, come un vile capo di bestiame, sotto la mano
del superbo Pirro, curva su una tomba vuota, estatica, penso a voi, vedova di Ettore e sposa di
Eléno. Penso alla negra smarrita e tisica scalpicciante nel fango, in atto di cercare, col suo occhio
sconvolto, gli alberi di cocco assenti della superba Africa dietro il muro immenso della nebbia;
penso a chiunque ha perduto quel che non si ritrova mai più, a coloro che si saziano di lacrime
succhiando il Dolore come una buona lupa, ai magri orfanelli appassentisi come fiori!
Così, nella foresta ove il mio spirito si rifugia, un vecchio Ricordo suona a perdifiato il suo corno.
E penso ai marinai dimenticati su di un’isola, ai prigionieri, ai vinti… e a molti altri ancora!
trad. di Gerardo d’Orrico