Tecnologia: Comodità (e Abitudine) disumana?

Il 2020 e i primi mesi del 2021 – e possiamo ragionevolmente credere che anche i prossimi lo saranno – sono stati senz’altro un periodo buio, a causa della pandemia, per quanto riguarda le relazioni umane: famiglie e partner separati, contatti sociali ridotti al minimo indispensabile in nome del distanziamento sociale, impossibilità quasi totale di conoscere nuove persone. Il  distanziamento sociale, appunto, unica arma prima che arrivassero i vaccini, è stato il diktat di quest’ultimo anno: distanziamento che ha significato isolamento, solitudine, per molti. Abbiamo abbandonato gli uffici, le scuole, luoghi di lavoro ma anche e soprattutto di socialità, per passare quasi tutti dietro lo schermo di un computer, di un tablet o di uno smartphone: siamo passati allo smartworking, alla Dad, alle riunioni di famiglia in videochiamata. Cose che fino a poco tempo ci sarebbero sembrate assurde, appannaggio di un futuro lontano e quasi distopico, nel giro di pochi mesi sono diventate purtroppo la normalità. È cambiato di conseguenza anche il nostro rapporto con la tecnologia: fino a poco tempo fa vista come motivo di isolamento e alienazione, soprattutto da parte dei più giovani, è diventata in breve, brevissimo tempo, strumento di una socialità che fatica a sopravvivere, isolati e rinchiusi come siamo nelle nostre case.

Abbastanza casualmente, qualche giorno fa mi sono ritrovato a leggere un articolo di Giovanni Papini, scrittore, poeta e saggista italiano, che mi ha fatto riflettere sotto il punto di vista diacronico sul rapporto tra le relazioni umane e la tecnologia. Giovanni Papini è stato un intellettuale assai inquieto, che è passato dall’anticlericalismo alla conversione al cattolicesimo, da posizioni post-decadenti e futuriste al ripudio per la guerra; Papini è un intellettuale molto discusso per la sua adesione ideologica al fascismo, per la quale è stato praticamente rimosso dai nomi dei grandi della letteratura nel Dopoguerra, senza però mancare di suscitare interesse in molti grandi artisti del Novecento, tra i quali Jorge Luis Borges, che lo ha addirittura definito un autore “ingiustamente dimenticato”.
Il 12 luglio 1951 Papini pubblicava sul Corriere della Sera un articolo dal titolo assai eloquente: “Telefoni, tv, incubatrici: è la Comodità, civiltà inumana”. Papini in questo articolo si scagliava contro la tecnologia, definendo appunto una “comodità inumana”.

Ai tempi dei tempi, nell’età favolose, cioè dal secolo di Tespi a tutto l’Ottocento, colui che voleva ascoltare un dramma o una commedia si recava, insieme ad altri uomini, in un recinto coperto o scoperto, e sedeva dinanzi a un palcoscenico, dove uomini veri, in carne ed ossa e panni, recitavano l’opera con gesti e accenti umani. […] Lo stesso avveniva per l’opera in musica; i cantanti, uomini e donne, erano lì, dinanzi a tutti, con la loro corporal figura, con la loro concreta esistenza di esseri respiranti, che piangevano o si baciavano come creature vive. Si creava così tra i molti della platea e i pochi del palcoscenico, una corrente magnetica e magica, una corrispondenza di affetti e di emozioni, che accresceva le forze degli attori e il godimento degli spettatori.
«Nous avons changé tout cela» come diceva quel medico di Molière. La stregoneria meccanica ha fatto sì che soltanto una minoranza di aficionados continua la barbogia usanza di ascoltare veri uomini che agiscono sopra una vera scena. Moltissimi invece seggono o si sdraiano accanto a certe cassette parlanti, vociferanti ed urlanti, dalle quali escono, a certe ore, i dialoghi delle commedie e delle tragedie, i recitativi e le romanze dei melodrammi. I più poi, per non dir quasi tutti, affollano le sale, coperte o scoperte, dove le sentimentali o criminali vicende della vita umana si sgomitolano rapide e impalpabili con l’aiuto d’immagini fantasmiche sopra una tela bianca.


Basterebbe questo incipit, da solo assai eloquente, a farci riflettere di quanto sia cambiata la nostra percezione della tecnologia, nella fruizione del prodotto artistico, in poco meno di un secolo, che nulla è in confronto alla tradizione letteraria, teatrale e musicale. Ma Papini va avanti, fino a prendersela con la radio, la televisioni, i dischi fonografici. Ma questo aspetto, per così dire, è cosa nota: da tempo siamo ormai passati dall’esibizione in presenza, per l’analogico fino al digitale. Papini dice la sua anche sulla comunicazione:

Anche nelle ordinarie relazioni umane va scemando ogni giorno il perfetto contatto tra uomo e uomo. Anticamente, quando si voleva comunicare qualcosa a qualcuno, v’eran due mezzi: o s’andava di persona, per parlare in pace, o si scriveva, di proprio pugno una lettera, una di quelle lettere che talvolta eran capolavori, esempi di ottimo scrivere. Oggi invece riceviamo missive frettolose, scritte a macchina da qualche stenodattilografa distratta, oppure ricorriamo alla brutalità del telefono, che trasmette la voce ma nasconde le fattezze e l’espressione del volto.

La comunicazione, dice Papini, cambia, si impoverisce, a suo dire, a causa della tecnologia. Anche per quanto riguarda questo aspetto, possiamo dire che per noi lettori di oggi è ormai argomento desueto: le macchine da scrivere sono state sostituite dai computer e dalle ancora più frettolose e-mail e anche le telefonate ormai sembrano appartenere al passato.
Il motivo per cui questo articolo mi è apparso così attuale non sono i singoli cambiamenti dei quali parla l’autore, bensì il principio che causa questi cambiamenti:

L’unica scusa di questa progressiva abolizione ed estradizione dell’umano è la Comodità, quella comodità che, insieme alla Velocità e all’Evasione, è uno degli idoli funesti e nefasti del nostro secolo. Anche nelle botteghe e nell’Università, con l’andar degli anni e i progressi della cibernetica, sparirà il naturale rapporto uomo-uomo. Vi son già i magazzini senza commessi e venditrici; e in un futuro, che si spera prossimo, i professori e i maestri saranno sostituiti, nelle scuole, dai cervelli elettronici.

Dopo queste profetiche parole, Papini prosegue la sua analisi con quella che per la sua visione da cattolico è “la più disumana forma della presente civiltà inumana”, ovvero la fecondazione artificiale, argomento questo che, rispetto agli altri già citati, appare certamente meno superato e che ancora è al centro di dibattito, perlomeno più di tutte le tecnologie sopracitate.
Papini dunque addita come principio giustificatore del progresso tecnologico quello della Comodità e non si può non essere d’accordo: tutti abbiamo sperimentato e sperimentiamo la maggiore praticità di una fruizione del prodotto artistico o della relazione umana digitale rispetto ad una analogica o addirittura in presenza, a partire dalla preferenza – almeno numerica – che abbiamo per le piattaforme di streaming rispetto al cinema o al teatro, dall’uso di musica digitale rispetto a quella analogica o dal vivo, dalla comunicazione digitale che ha soppiantato completamente quella scritta e che mette talvolta a dura prova quella basata sull’interazione reale.

Potremmo controbattere a questo ragionamento dicendo che, in questo ultimo anno, il nostro crescente uso della tecnologia è dovuto non a un principio di Comodità, bensì a uno di Necessità: è vero infatti che la tecnologia ha permesso ad alcuni di non perdere il lavoro e di poter lavorare da casa; ha consentito la comunicazione tra persone fisicamente lontane tra loro che altrimenti, a causa delle restrizioni sulla mobilità, non avrebbero mai potuto incontrarsi; ha garantito attraverso la Dad, seppur con tutti i suoi limiti, un’istruzione agli alunni di ogni ordine e grado scolastico che altrimenti ne sarebbero rimasti totalmente privi; ha allietato le nostre giornate di isolamento e reclusione in casa, moltiplicando le opportunità di svago, apprendimento e comunicazione; Tutto ciò è innegabile e basterebbe ciò per convincerci del fatto che Papini si sbagliava e chiudere qui il discorso.

C’è però un rischio che non possiamo non scorgere in questa Necessità dell’uso crescente della tecnologia in questo anno di pandemia che è facilmente intuibile pensando al celebre “Principio della rana bollita” di Noam Chomsky:

Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita.
Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.


Il progressivo tecnologizzare le nostre vite è cominciato, e questo è innegabile, seguendo un principio di Comodità, come dice Papini e poi ha accelerato vertiginosamente a causa della pandemia, adeguandosi al principio della Necessità. Il rischio, concreto e insidioso, è quello dell’Abitudine: dopo esserci abituati allo smartworking, allo streaming di musica e prodotti artistici, alla didattica a distanza, alle videochiamate con i parenti saremo in grado di tornare a lavorare in ufficio, ad andare al cinema, al teatro, nei musei, ai concerti, nelle scuole, alle cene con i parenti e gli amici? Quando finalmente ci saremo liberati della pandemia e dell’emergenza sanitaria in atto, ci renderemo conto che quello che stiamo vivendo non è concreta Umanità, ma un simulacro, un feticcio d’Umanità? Riusciremo a tornare ad apprezzare la più vivida, ma certamente meno pratica, vita concreta oppure ci abbandoneremo al principio dell’Abitudine e della Comodità?
Questo è il rischio di disumanizzazione da parte della tecnologia di cui parla Papini e questo è il rischio che stiamo concretamente vivendo oggi. Concludo citando due versi che mi sembrano significativi e che hanno ispirato questa mia riflessione: sono del brano che il rapper e cantautore Willie Peyote, al secolo Guglielmo Bruno, ha portato al Festival di Sanremo 2021, intitolato “Mai Dire Mai”, che gli è valso il Premio della Critica Mia Martini:

Lo chiami futuro ma è solo progresso/
Sembra il Medioevo più smart e più fashion

Danilo Iannelli

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