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Bright Star

Cinema

La “Bright Star”, stella luminosa del titolo, è Fanny Brawne (1800-1865), che il poeta John Keats (1795-1821) amò negli anni vicini alla sua morte e protagonista di questo film di Jane Campion, passato senza grandi attenzioni a Cannes nel 2009.

Peccato davvero, perché Bright Star non è un film manierato. La Campion ha tratto dall’epistolario di Keats e dalla biografia del poeta scritta da Andrew Motion una sceneggiatura limpida che punta più al racconto del quotidiano di due giovani in amore che alla celebrazione di un genio poetico.

La neozelandese premio Oscar per Lezioni di piano non ha intenzione di fare un santino del poeta: lo racconta come un ragazzo del proprio tempo capace di captare nella realtà impressioni da tradurre in versi freschi, musicali.

Keats (Ben Whishaw), che tesse parole, lascia un segno profondo nella Brawne, interpretata dalla fulgida Abbie Cornish, ragazza spensierata, amante del cucito, delle risate e dei balli che matura nel vedere l’amato sfiorire inesorabilmente.

Più che un film biografico, legato alle ristrettezze di storici e anagrafi, Bright Star è un racconto di crescita, di un’educazione ai sentimenti che agisce in una donna in attesa di sbocciare.

L’emotività adolescenziale di Fanny dà il destro alla regia umorale e mutevole della Campion, che può assecondare le percezioni e i pensieri della Brawne.

Questo approccio crea nel film dei blocchi assai vicini alle sequenze d’immagini delle ballate, lo fa aprire in sequenze luminose di campi soleggiati o lo chiude nella penombra domestica che verso la fine si fa sempre più scenario di dolore.

Per fortuna, la Campion ha sottoposto la sua fluidità di sguardo, l’attenzione per i gesti minimi ed il lato materico del film ad un controllo serrato.

Il risultato è quello di un film intimo, se si può dire, scritto in corsivo, come un diario, tanto più grave quanto più delicato: una proporzione, questa, che è pure la base dell’armonia del film e si rispecchia nell’intensità casta del rapporto principale.

Che questa passione si riveli, a lungo andare, più penetrante ed erotica di quella in Lezioni di piano? Possibile, anche perché la sottigliezza del film si coniuga con il fatto storico e non dà alla sua Fanny il lieto fine del film più famoso, premiato con la Palma d’oro.

La Campion lascia la sua protagonista veramente sospesa al punto limite di una crisi, da intendere secondo l’etimo, come “trasformazione”. Fanny si ritrova donna pur non passando per l’esperienza fisica di un rapporto ma avendo subito una frattura interiore, rimanendo aperta al futuro e dolorante come l’Isabel Archer (Nicole Kidman) di Ritratto di signora (1996), film della Campion tratto da Henry James e fin troppo sottostimato.

Nella realtà, Fanny avrebbe poi avuto un marito e dei figli, senza però scordarsi di quel poeta che l’amò da giovane e che la rese matura col solo potere della sua vicinanza. La Campion ha optato per l’omissione di questo fatto, volendo concentrarsi sulla Fanny adolescente, quella che più poteva esprimere, per le sue esperienze, il senso di un passaggio nella vita di ogni donna.

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Antonio Canzoniere

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Il piccolo schermo aspetta Haneke

Cinema

Si aggiunge un altro nome alla lista dei cineasti attratti dalla serialità televisiva degli ultimi anni. Michael Haneke, 2 volte Palma d’Oro e Premio Oscar per Amour, non è mai stato insensibile al piccolo schermo e lo ha dimostrato già ai suoi inizi di regista nel 1974 per l’emittente Südwestfunk in Germania.

Il suo futuro ritorno in televisione però non sarà in tedesco: il successo lo ha proiettato ormai sul mercato anglosassone, pur essendo spalleggiato dalla casa di produzione tedesca UFA.

Il suo prossimo progetto è il racconto distopico Kelvin’s Book, di cui ancora non è iniziata la pre-produzione. Sono certi ben dieci episodi della serie, ambientata in un futuro dispotico  dove i passeggeri di un aereo sono costretti ad un atterraggio di salvezza.

Una trama ancora non pienamente in luce quella della serie ma che già si preannuncia coerentissima con gli interessi di Haneke in materia di sociologia, di distruzione sociale e crudeltà.

L’entusiasmo dei produttori, specialmente quello di Nico Hoffman, è evidente dalle dichiarazioni rilasciate sul sito Deadline per l’occasione: “Nessun regista contemporaneo mi ha ispirato e commosso più di Michael Haneke. Kelvin’s Book è una storia straordinariamente ricca, coinvolgente e ambiziosa. Con i temi della contemporaneità e la resa dell’era digitale in cui viviamo, non c’è tempo migliore per questo progetto.”

La produzione UFA, proprietà della Fremantle Media, si accinge a portare nella casa madre di produzione un altro grande nome dopo quello di Paolo Sorrentino (The Young Pope), Neil Gaiman (American Gods) e Neil Cross (Hard Sun).

Si dovrà però aspettare ancora per avere date di riprese ed uscita del progetto, ancora su carta ma preannunciato come uno dei titoli di punta del 2020.

Antonio Canzoniere

Van Gogh: un percorso introspettivo sul pittore dei girasoli

Tutti conosciamo almeno alcune delle note vicissitudini della vita tormentata del pittore olandese che influenzò profondamente l’arte del XX secolo, ma un profilo ancor più dettagliato della sua personalità emerge dalle lettere scritte al fratello Theo tra il 1872 e il 1890, che costituiscono un’avvincente biografia: pochi artisti hanno rivelato così tanto di sé stessi nei propri scritti. Van Gogh amava leggere e scrivere, e, delle 820 lettere scritte nell’arco della sua breve esistenza, ben 651 furono indirizzate a suo fratello Theo, il primo a comprenderne il talento e a incoraggiarne la vocazione, e il solo che non gli negò mai l’indispensabile sostegno morale e finanziario.

Vincent è un giovane curioso, intraprendente e dinamico: si sposta spesso, viaggia molto e si dedica a diverse attività. Nonostante le pressioni del padre, pastore protestante, decide di dedicarsi alla pittura, seppur cominciando a dipingere tardi, intorno ai ventisette anni, e realizzando molte delle sue opere più note solo negli ultimi anni di vita. Prima di trasferirsi a Parigi col fratello Theo, frequenta la scuola a Zevenbergen, dove impara l’inglese, il francese, il tedesco e le diverse tecniche di disegno. Durante il soggiorno parigino Van Gogh scopre la pittura impressionista e approfondisce l’interesse per l’arte e le stampe giapponesi. Fa la conoscenza di molti pittori tra cui Toulouse Loutrec e Paul Gaugain, che apprezza particolarmente e col quale condividerà per diverso tempo la sua abitazione di Arles. Lo stesso Gaugain rivela “Dapprima fu il disordine a colpirmi, ovunque e in qualunque cosa: la scatola dei colori riusciva a malapena a contenere i tubetti schiacciati e mai richiusi. Ma malgrado tutto questo guazzabuglio, non c’era cosa che non finisse sulla sua tela – e nelle sue parole. […] Nonostante tutti i miei sforzi per trovare una logica nel suo intelletto disordinato e nelle sue opinioni, non sono stato in grado di correggerne la contraddittorietà.”

Che Van Gogh avesse un animo tanto tormentato quanto ricco va da sé, ma,
nonostante i suoi modi amabili, venne spesso allontanato per via dei suoi sbalzi d’umore, dovuti principalmente all’insuccesso delle sue opere. Vincent dipingeva giorno e notte (si muniva di cappelli appositi sui quali poteva issare delle candele che gli permettevano di lavorare nelle ore notturne) e ripeteva spesso al fratello di venire assorbito dal lavoro a tal punto da perdere il contatto con la realtà e con ciò che lo circondava. Nonostante ciò, la lucidità non lo abbandonava mai: era consapevole di dover ricevere una somma mensile dal fratello che gli avrebbe permesso di coprire le spese di vitto e alloggio (ma ciò che poteva permettersi in termini di cibo era talmente scarso che per diversi periodi ebbe ricadute fisiche alquanto pesanti, che resero le sue fasi di lavoro altalenanti). Per questo, al termine di quasi ogni lettera, Vincent ricordava al fratello di non dimenticare la busta contenente i franchi necessari, e, a volte, gli mostrava le spese sostenute durante il mese.

Ma, tralasciando gli aspetti concreti, non è assolutamente raro che la penna di Vincent ci regali alcune riflessioni di origine metafisica: Van Gogh era un grande pensatore e s’interrogava spesso sul senso della vita e della sofferenza che era destinato ad affrontare. “E’ come la muta per gli uccelli, il tempo in cui cambiano le piume; per noi essere umani corrisponde ai
momenti di avversità, di infelicità, ai tempi difficili. Possiamo restare in questo periodo di muta o possiamo uscirne anche rinnovati”
.

Per il pittore i momenti di sofferenza erano momenti di estrema crescita e consapevolezza e venivano vissuti con una naturalezza ed una filosofia disarmanti. Dopo l’episodio dell’orecchio tagliato ed un conseguente periodo straziante dovuto al dilagare del suo disturbo mentale, passò diverso tempo in una clinica psichiatrica, conducendo interessanti riflessioni anche sui pazzi che vi erano in cura. Van Gogh descriveva i malati come persone estremamente intelligenti e generose, capaci di una bontà rara, che lui stesso faticava a trovare al di fuori.

Theo è sempre stato il suo mentore, il suo consigliere e la persona più vicina a lui fisicamente, spiritualmente ed economicamente. Poche altre sono state le figure importanti nella vita di Van Gogh, anche perché, come facilmente intuibile e come Gaugain ci ha rivelato, pochi erano entusiasti all’idea di condividere un’abitazione con lui e per questo condusse una vita prevalentemente solitaria.
Non si deve però pensare che non avesse amici: ne aveva, e molti, con i quali si manteneva in contatto sempre per via epistolare e occasionalmente in maniera concreta.

Van Gogh continua al giorno d’oggi ad essere discusso e studiato, così come le sue opere vengono ancora apprezzate in tutto il mondo, e teorie su quale fosse di preciso il suo disturbo vengono ancora ipotizzate.

Per chi fosse curioso di scoprirne di più, “Lettere a Theo” è un’interessante fonte di studio sul pittore sia dal punto di vista umano che artistico, ed è ormai considerato un classico della letteratura moderna, prestandosi a qualsiasi tipo di lettore.

Francesca Moreschini

The Beach Bum: l’anteprima al Milano Film Festival

Ancora non c’è una data per l’uscita italiana dell’ultimo film di Harmony Korine, The Beach Bum. I cinefili milanesi possono quindi dirsi fortunati, visto che il film è stato selezionato per aprire il Milano Film Festival il 4 ottobre, riscuotendo la simpatia del pubblico. Il cast è stellare in questa commedia allucinata ambientata in Florida, immersa nella perfetta policromia fotografica di Benoît Debie, già collaboratore di Gaspar Noé (Enter the void).

Il “Beach bum” è il “barbone da spiaggia”, un personaggio immancabile in certe spiagge americane e non si poteva trovare per un simile personaggio attore più versatile e scatenato di Matthew McConaughey. L’attore premio Oscar per Dallas Buyers Club diventa Moondog, poeta e scrittore che passa la vita in un eterno sballo. 

È un uomo fortunato in tutto: ha avuto successo come scrittore, una simpatia ed una libido inestinguibili, una moglie ricca, Minnie (Isla Fisher), che lo ha sempre protetto e amato a distanza ed è pure madre di sua figlia Heather (Stefania LaVie Owen). Moondog ha vissuto tra donne e droghe a Key West coccolato per anni dai soldi della donna, che conosce il suo talento e gli ha sempre lasciato libertà. 

Quando Minnie muore in un incidente da cui lui esce illeso, è messo di fronte ad un bivio per il testamento di lei: non riceverà un soldo dell’eredità se non si deciderà a scrivere il romanzo che ha nel cassetto da anni.

Da qui ha inizio un viaggio vorticoso e picaresco che col libro, poi portato a termine, ha ben poco a che fare. Il film va avanti ad incontri ed episodi dei più strampalati e assurdi, tra cui si segnalano quello con il piromane Flicker (Zac Efron) e l’amante spasmodico dei delfini, il capitano Wack (Martin Lawrence, in un personaggio da “un nome, un programma”).

Il film ha una musicalità fortissima, un’energia che rispecchia il protagonista in tutto e per tutto e come lui, incredibilmente dispersiva. In questa ode allo sballo non c’è climax né conflitto. Il riso scatenato sul momento è un fatto superficiale: usciti dalla sala, il film risulta un’onda piatta coloratissima.

La poetica di Moondog lascia il tempo che trova: il suo edonismo che punta a godersi la vita fino in fondo “prima che tutto finisca” è già sentita, già trattata e si ha il sospetto fortissimo che sia uno schermo per giustificare un’assenza di idee. 

Il protagonista è troppo baciato dalla dea bendata per essere oggetto delle nostre simpatie fino in fondo: non c’è proporzione tra le grazie dispensategli e le sue qualità. Non c’è nel film il segno tangibile del suo talento letterario né una scena che faccia pensare ad una sua essenza innovatrice: se è un maudit, lo è nel senso hipster del termine, il che fa cadere nella parodia le pretese del suo estro.

Parlando dei comprimari, Snoop Dogg fa da tappezzeria come gli altri personaggi ma la Fisher è brava quanto simpatica, gioiosa e sciolta di fronte alla camera, la si guarda e la si ricorda con piacere.

In The Beach Bum la storia non è dominata ma assecondata per esser poi conclusa in un finale che è un “volemose bene” pirotecnico: in questo modo, Korine mostra “una sproporzione tra il suo potere di dir le cose e le cose che ha da dire” (Coventry Patmore).

Voto:**

Antonio Canzoniere