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L’app di tutte le app: WeChat

WeChat e la sua anzienda “madre” Tencent nascono a Shenzhen, città che venne indicata come “zona economica speciale” nel piano di crescita e sviluppo promosso da Deng Xiaoping. La piccola cittadina di pescatori nel sud-est del Paese diventa così prima uno dei più importanti centri manifatturieri cinesi, e poi negli anni novanta si trasforma in un polo tecnologico che fa da incubatrice alle neonate aziende digitali che dal tutto il Paese iniziano a stabilire la propria sede lì.

A Shenzhen, l’allora ventisettenne Ma Huateng fonda nel 1998 Tencent, azienda tecnologica che aveva come proprio fiore all’occhiello il servizio di messaggistica QQ, ispirato al softwere israeliano ICQ della startup di Tel-Aviv Mirabilis. L’iinnovazione che Pony Ma, come è principalmente noto adesso Ma Huateng per via della traduzione in Inglese del proprio nome (“Ma” in cinese vuol dire “cavallo”)1, porta rispetto al softwere israeliano la possibilità per ogni utente di accedere al proprio account QQ da qualsiasi computer collegato alla rete, rispetto alla necessità precedente di installare il softwere su una postazione fissa. Ma Huateng fu il primo a intuire che da lì a pochi anni sarebbe esplosa in Cina la vendita di PC, reti private e poi ancora smartphone.

Tre furono poi i passi che permisero a QQ di diventare un prodotto di spicco in tutto il Paese: l’iniziale accordo con la rete telefonica statale della regione in cui si trova Shenzhen, il Guangdong, accordo poi esteso nel 2001 a tutta la Cina, che permetteva le conversazioni tra PC e il sistema di messaggistica dei telefoni cellulari; l’immissione nel softwere di gadget, giochi e avatar acquistabili o sbloccabili che permisero di realizzare nuovi profitti; infine la creazione di una piattaforma QQ per blogger, con la possibilità per gli utenti di personalizzare a pagamento a proprio piacimento il proprio blog.2

Nel 2011 Pony Ma approfitta della nuova accelerazione digitale dovuta alla svolta del 2008 per aggiornare il proprio servizio di messaggistica lanciando WeChat.

Francesco Pieranni, nell’iniziare il proprio libro “Red Mirror. Il futuro si scrive in Cina”, racconta l’arco di un’intera giornata sia completamente costellato dalle interazioni conWeChat: ci si leggono le notizie del giorno mentre si fa colazione, ci si prenota il taxi, ci si mette in carica lo smartphone grazie al proprio Id negli appositi cubicoli all’ingresso dei locali, si paga la consumazione, si cerca il ristorante dove pranzare, ci si controlla il menu e ci si ordina, durante il pranzo ci si può inviare tramite il Qrcode del ristorante buoni sconto e riceverne altri dai propri amici, ci si scaricano i programmi di store virtuali per controllarne il catalogo e fare acquisti, ci si controlla sulle mappe l’ubicazione del prossimo incontro e il tragitto per raggiungerlo, ci si ricevono dagli amici inviti a eventi con tanto di biglietto elettronico e ricevuta di pagamento mediante un’apposita mini-app interna che aiuta a gestire la propria contabilità, ci si scarica la documentazione relativa, ci si prenota la cena e ci si divide in parti uguali il conto.3

Quella descritta da Pieranni è dunque un’intera giornata senza mai uscire da WeChat, che rigorosamente controlla, monitora e immagazzina tutti i dati, chiedendo esplicitamente di essere aggiornato: “A un certo punto tutti i nostri occhi finiscono sul cellulare: WeChat chiede l’update delle nostre informazioni. Ed eccoci, una tavolata intera impegnata a farsi selfie per consentire a WeChat di tenere sotto controllo i nostri dati biometrici.”4

La crescita dell’app ha avuto una svolta improvvisa nel 2014, in occasione del Capodanno cinese, evento che “prevede, oltre che lo svolgimento di spettacolari festeggiamenti, anche lo scambio di doni sotto forma di hongbao, le famose buste rosse contenenti piccole somme di denaro e che originariamente avevano un significato per lo più simbolico (infatti, esistono alcune precise regole riguardo la cifra da elargire, basate su antiche credenze e superstizioni) ma che oggi possono raggiungere importi notevoli.”5

Quell’anno, WeChat inaugurò un servizio che consentiva di spedire buste rosse virtuali, agganciando il proprio conto in banca al proprio profilo WeChat. Solo il primo anno, questo tipo di aggancio fu effettuato da cinque milioni di cinesi, e i numeri sono in costante crescita, fino ad arrivare ai 688 milioni del 2018, ultimo dato reperibile in rete.6

WeChat si identifica quindi come l’app in grado di soddisfare tutti i bisogni dell’utente. Si potrebbe definire come “un gigantesco contenitore che mette insieme Facebook, Instagram, Twitter, Uber, Deliveroo e tutte le app che usiamo.”7

E gli 1,1 miliardi di utenti che mensilmente la utilizzano sono la prova di quanto WeChat abbia saputo rispondere alla necessità cinese di avere tutto a portata di mano in un’unica app, con l’obiettivo di far diventare la schermata di accensione degli smartphone direttamente quella di WeChat anziché Android o iOS.

Il dinamismo creativo e la capacità imprenditoriale di sfruttare in maniera innovativa elementi della tradizione in chiave moderna, uniti all’immensa mole di dati che così si è in grado di processare, sono la vera arma decisiva dell’innovazione digitale, arma che nessuno saprà sfruttare meglio del Presidente Xi Jinping.

Paolo Palladino

1 Liu L., 10 things you didn’t know about Tencent CEO Pony Ma, in “Style”, 31 Agosto 2018. URL: https://www.scmp.com/magazines/style/people-events/article/2162245/10-things-you-didnt-know-about-tencent-ceo-pony-ma

2 Pieranni S., Red mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina, Bari-Roma, Editori Laterza, 2020, pp. 14-15-16-17

3 Ivi, pp. 3-4

4 Ivi, p. 5

5 Hongbao, la tradizione entra nel terzo millennio, in “Essere digitali”, 16 Marzo 2017. URL: https://blog.bhuman.it/hongbao-la-tradizione-entra-nel-terzo-millennio-ae0cd9ff4258

6 Brennan M., WeChat red packets data report of 2018 New Year eve, 18 Febbraio 2018. URL: https://chinachannel.co/2018-wechat-red-packets-data-report-new-year-eve/

7 Pieranni S., Red mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina, Bari-Roma, Editori Laterza, 2020, p. 10

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L’educazione nell’era post Covid: immersione in un mondo digitale e più inclusivo

Un evento da ripetere: Eduhacktion, tra innovazione ed educazione 

Questo weekend si è realizzato “Eduhacktion”, un evento organizzato da diverse realtà del mondo del digitale e dell’educazione: Culturit Network, Associazioni imprenditori millennials e Youth Hub Catania.  Durante due giornate, alcuni giovani tra i 18 e i 30 anni si sono potuti confrontare su diverse tematiche ed unirsi in team per creare una proposta innovativa su alcune tematiche. I principali argomenti trattati sono stati la didattica a distanza, il mismatching e la gamification. Ho avuto la possibilità di partecipare in prima persona a questa iniziativa e ne sono uscita molto soddisfatta. Certo, non è stato semplice uscire dalla propria zona comfort, ma ne è valsa la pena. All’interno della mia squadra ho potuto conoscere ragazzi della mia età, con le mie stesse aspirazioni e preoccupazioni, ed insieme abbiamo unito le nostre forze per creare una proposta di scuola più innovativa e inclusiva possibile. Il punto di forza di questa iniziativa? L’opportunità di essere seguiti da mentor, esperti nel settore dell’educazione, della comunicazione e del digitale. I loro consigli sono stati illuminanti e le loro storie di forte ispirazione. 

Uno sguardo oltre confine nel campo dell’insegnamento 

Giuseppe Inserra, vicepresidente di Youth Hub, afferma che la realtà scolastica deve essere multidisciplinare e continuativa. Si stanno sviluppando nuove professioni che richiedono un pensiero creativo e da questo nasce l’esigenza del cambiamento all’interno della formazione giovanile. L’Italia presenta ancora un metodo scolastico fortemente improntato sulla teoria. Marco Scannavino, co-founder di uLead, una community che fornisce orientamento universitario e lavorativo ai giovani, afferma che in altri paesi, come la Francia, viene dato maggior rilievo alle attività di lavoro e stage durante l’università. In Finlandia ,invece, gli alunni ricevono solo valutazioni positive. Questo ultimo aspetto potrebbe avere un riscontro negativo quando gli studenti si ritroveranno ad affrontare il mondo lavorativo, in cui ricevere porte in faccia è all’ordine del giorno. Tuttavia, guardando all’Italia, sarebbe utile diminuire l’importanza del voto e concentrarsi sullo sviluppo di competenze più pratiche ed esperienziali. È ciò che accade in America, dove se chiedi ad un universitario se preferisce ottenere l’eccellenza in tutte le materie o essere il capo della squadra di football, risponderebbe con la seconda opzione. I giovani italiani, durante il loro intero percorso di studi, acquisiscono un enorme bagaglio culturale, tanto da essere merce preziosa per le aziende estere, ma hanno difficoltà a inserirsi nei contesti lavorativi emergenti. Ecco dunque che si viene a delineare il cosiddetto fenomeno del mismatching, ovvero una situazione in cui la domanda di alcune posizioni lavorative eccede l’offerta. 

Mai più come prima: Il digitale arriva in aula 

Una grande lacuna è presente proprio nel mondo del digitale. Tra i pochi lati positivi della pandemia troviamo la necessità di adattarsi ai nuovi strumenti tecnologici. Dinanzi a tale scenario è stata proprio la scuola a doversi reinventare per prima, la cattedra è stata sostituita dal grande schermo e le interazioni dal vivo sono diminuite. Che si stia andando verso una nuova era nel campo dell’insegnamento? Non c’è dubbio che non torneremo indietro. Ciò non significa che bisogna incentivare lo sviluppo di un sistema di insegnamento unicamente a distanza, quanto integrare la lezione dal vivo con la possibilità di seguire dal grande schermo. Un’indagine Censis tra i docenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado ha rivelato che il 92% dei corsisti ritiene che “le nuove tecnologie digitali siano capaci di rendere più efficaci e coinvolgenti le lezioni frontali”. Non solo, sarebbe necessario fare un passo in più: portare il digitale nelle aule. Non basta però garantire un proiettore e tablet per tutti, ma è necessario puntare su una formazione di competenze digitali, sia tra i docenti che tra gli alunni. A ciò sarebbe utile ricorrere all’introduzione di una tecnica che viene già utilizzata da alcune aziende: la gamification. Un esempio è l’app di Duolingo, attraverso la quale si possono imparare le lingue con quiz e giochi. 

Il potere del gioco 

La Gamification si può definire “come un insieme di regole mutuate dal mondo dei videogiochi, che hanno l’obiettivo di applicare meccaniche ludiche ad attività che non hanno direttamente a che fare con il gioco; in questo modo è possibile influenzare e modificare il comportamento delle persone, favorendo la nascita ed il consolidamento di interesse attivo da parte degli utenti coinvolti verso il messaggio che si è scelto di comunicare”. Perché non allargare questa tecnica anche all’interno delle scuole? Forse se i protagonisti dei “Promessi Sposi” potessero prendere vita e ogni studente potesse farli agire, tutti riuscirebbero ad amare la loro storia senza troppi sbuffi.  All’imparare “sbagliando” si aggiunge così l’imparare “giocando”. 

La scuola che vorrei 

Il sogno nel cassetto? Creare un ambiente scolastico inclusivo e accogliente, dove attraverso il gioco e il digitale si possano coinvolgere tutti. Le valutazioni devono essere unite ad autovalutazioni e feedback reciproci tra studenti e docenti. Il voto inteso come semplice numero matematico deve perdere la sua importanza. E’ necessario, invece, porre più attenzione alle competenze pratiche che si sviluppano nell’intero percorso, guardando alla crescita personale del ragazzo e tenendo in conto le diversità di ognuno. In ultimo, si potrebbe pensare ad aiutare l’alunno a trovare la propria strada fin da subito, impartendo lezioni di laboratori pratici, con simulazioni di mestieri concreti. Questo potrebbe costituire parte della soluzione all’abbandono scolastico e al cambio di facoltà durante il periodo universitario. Arrivati fin qui, molti si staranno chiedendo se la creazione della scuola dei sogni richieda un certo tipo di investimento. La risposta è “sì”, ma l’istruzione ripaga ed è fondamentale puntare sul capitale umano di quelli che saranno gli adulti di domani, un domani che vogliamo sicuramente migliore del nostro. 

Irene Pulcianese

Chi ha paura del politicamente corretto?

“Elencheremo tutte le parole che non si possono più dire in tv, quelle bandite: ‘n***o′, ‘f****o′, tutte. Perchè la cattiveria non è mai nella lingua, ma nelle intenzioni.” Queste sono le parole di Pio e Amedeo in un’intervista rilasciata a Libero riguardo il loro show, Felicissima Sera. E l’hanno fatto davvero: perché affermare di voler utilizzare determinati termini in tv, in quanto non ritenuti offensivi da chi non li subisce, per poi farlo sapendo di non doversi preoccupare delle conseguenze, non è altro che una manifestazione del proprio potere. Potere di cui sono altre categorie a pagarne le conseguenze. Due comici italiani, bianchi, benestanti, cisgender ed eterosessuali che vogliono arrogarsi il diritto di decidere cosa è discriminatorio o no per le categorie più svantaggiate. E non è assolutamente la prima volta che assistiamo a scene del genere, perché qui in Italia sono sempre i privilegiati a rubare il microfono alle persone oppresse e persino una buona fetta di sinistra ha il terrore del famigerato politicamente corretto. È da pochi anni a questa parte che si sente parlare di politicamente corretto, solitamente in accezione negativa, ma di cosa si tratta davvero?

L’espressione “politicamente corretto” si riferisce a tutti quei comportamenti e atteggiamenti che designano estrema attenzione e rispetto alle richieste altrui, in particolare delle categorie marginalizzate e/o discriminate. Si tratta dunque di assecondare e ascoltare le minoranze ed evitare alcuni atteggiamenti, slur, sketch, comportamenti ritenuti offensivi e/o dannosi nei confronti di un determinato gruppo sociale. Da quest’ottica, il termine sembra avere un’accezione positiva. Ma non è così: il concetto di “politicamente corretto”, così come lo intendiamo oggi, ebbe origine dagli ambienti della destra americana intorno agli anni 80 in risposta a determinate linee di pensiero progressiste che richiedevano una maggiore attenzione all’inclusività in ambienti che, prima di allora, erano sempre stati a maggioranza bianca, benestante ed eterosessuale. Dunque, il mito del politicamente corretto è in realtà un’invenzione della destra, creata apposta per screditare le rivendicazioni dei gruppi meno privilegiati. Man mano, il “politicamente corretto” sta prendendo sempre più piede anche nel mondo europeo. Ma non allo stesso modo. Ebbene sì, perché nonostante la “dittatura del politically correct” sia un prodotto della destra reazionaria, in Italia anche molti personaggi di sinistra cadono nella trappola del “non si può più dire niente”. Proviamo a fare il punto della situazione.

In riferimento al contesto italiano, non si può non parlare di politicamente corretto senza partire dalla destra conservatrice che ama provocare reazioni di pancia agli italiani. La cosiddetta “dittatura del politicamente corretto”, che non esiste, è un cavallo di battaglia della destra sovranista. Non sono pochi i politici che hanno deciso di cavalcare l’onda dell’astio per il politicamente corretto per fomentare gli animi di una parte della popolazione. “Signore e signori, ecco a voi i nuovi talebani. Ecco a voi la civiltà del politicamente corretto”: l’opinione di Giorgia Meloni dopo che la statua di Indro Montanelli venne imbrattata dalle attiviste di Non Una Di Meno. E non è l’unica politica schierata contro questa imperante “dittatura” che impedisce ai privilegiati di discriminare i più oppressi. Anche Matteo Salvini si è dichiarato più volte contrario alle “follie del politicamente corretto” così come tanti altri leghisti. Insomma, qualsiasi richiesta da parte delle minoranze viene prontamente bollata come una follia, una censura o un attacco alla libertà di espressione. In particolare, in Italia la discussione mediatica sul tema si è accesa particolarmente dopo la morte di George Floyd per mano dell’agente Derek Chauvin nel 2020. Da lì in poi, l’opinione pubblica si è scatenata ferocemente contro qualsiasi tipo di richiesta che andasse oltre determinati limiti ritenuti accettabili da chi non subisce nessuna discriminazione. Uno dei casi più emblematici qui in Italia è stata la questione della blackface di Tale E Quale Show, su Rai Uno. La blackface è un tipo di trucco che veniva usato nel XIX durante gli spettacoli teatrali per imitare e ridicolizzare le persone nere tramite delle caricature stereotipate e la Rai, durante alcune puntate del porgramma, ha deciso che fosse una buona idea utilizzare un make-up simile su delle persone bianche per l’imitazione di artisti neri. La blackface ha un background culturale molto doloroso per le persone nere, retroscena che i bianchi e la Rai hanno dimostrato di non conoscere. La Rai non voleva offendere, discriminare o altro, ma in certi casi le intenzioni contano poco, perché il risultato è stato quello di continuare a perpetrare atteggiamenti discriminatori nei confronti di una categoria sistemicamente svantaggiata. Le polemiche non sono mancate, ma il punto più frustrante è stato sicuramente il vittimismo dei bianchi. La dinamica è sempre la stessa: una categoria oppressa chiede di non usare determinate parole discriminatorie, di non fare determinate battute o di evitare atteggiamenti che alimentano una disuguaglianza già esistente, e quelli a sentirsi discriminati, attaccati e offesi sono sempre gli individui più in alto nella gerarchia sociale. Si sente spesso dire che “non si può più dire niente” e che “il politicamente corretto è un attacco alla libertà di espressione”, ma è veramente così? La verità è che il politicamente corretto, inteso come “rispetto per le rivendicazioni altrui”, esiste principalmente sul web, sulle pagine “safe spaces” delle minoranze e quindi non ha lo stesso potere sociale delle posizioni maggioritarie, appoggiate da politici, media, giornali, programmi in prima serata. Infatti, basta accendere la tv e sintonizzarsi su uno dei soliti programmi targati Rai o Mediaset per assistere a sketch razzisti, l’uso di slur razzisti e omofobi, narrazioni sbagliate sulle questioni di genere, dichiarazioni sessiste che vengono mandate in onda senza che nessuno se ne dissoci. E programmi come Striscia La Notizia, Tale E Quale Show, Sanremo, Il Grande Fratello e così via hanno un potere mediatico decisamente maggiore di una pagina di attivismo transfemminista su Instagram. Questo significa che il potere sociale del politicamente corretto è pari a zero. Eppure, a qualcuno fa molto comodo gonfiare la questione per dare l’idea che ormai le minoranze abbiano ottenuto tutti i diritti di cui hanno bisogno o che ci sono “problemi più importanti”. E qui viene di nuovo da chiedersi: ma perché persone che non subiscono alcuni tipi di discriminazione si sentono in diritto di decidere per gli altri quali battaglie (non) combattere?

Gli ambiti in cui si sente più spesso parlare negativamente del politicamente corretto sono in particolare due: il linguaggio inclusivo e il mondo dell’arte. Ultimamente si sta prendendo in considerazione l’idea di utilizzare la schwa (ə) al posto del maschile per rendere la lingua italiana più inclusiva anche per le persone non binarie. Ovviamente, le persone che si oppongono a questa iniziativa sono cisgender e lottano continuamente contro il “pensiero unico del politicamente corretto” perché a loro dire esistono problemi peggiori di un linguaggio fortemente genderizzato che non rispetta le identità di genere che non si rispecchiano nel binarismo. Inutile dire che il pensiero unico (altro concetto tanto caro alla destra sovranista) non è quello delle minoranze, ma coincide sempre con le opinioni maggioritarie dei detrattori dei movimenti sociali.

Per quanto riguarda il mondo dell’arte la questione diventa ancora più spinosa (e strumentalizzabile) perché entra in gioco anche il concetto di libertà di espressione, altro cavallo di battaglia di chi combatte assiduamente contro il politically correct. Nel 2020, sempre dopo la morte di Floyd, la piattaforma streaming HBO decise di togliere momentaneamente dal catalogo dei film Via Col Vento per poi reinserirlo in seguito con un banner in cui si denunciavano delle rappresentazioni del film, tipiche dell’America razzista degli anni 30-40. Questa decisione ha infiammato gli animi di molti “odiatori” del politicamente corretto, la vicenda è stata poi manipolata da politici, attivisti dei diritti maschili, giornali, titoli acchiappa-like, telegiornali e media. Il caso di Via Col Vento non è stato l’unico nel suo genere, purtroppo non sono poche le persone che pensano che il rispetto per il prossimo sia una forma di censura artistica, così come non sono pochi i giornali e i media tradizionali che continuano a manipolare vicende simili per guadagnare tramite i titoli clickbait che scatenano tutta la ferocia degli haters stanchi di questa fantomatica ed inesistente oppressione.

Quest’avversione si nota particolarmente quando si dibatte su quanto sia legittima la comicità a danno delle categorie sociali discriminate, perché a quanto pare ridere delle minoranze è l’unico tipo di ironia che piace all’italiano medio. “Non si può più scherzare su niente” e “fatevi una risata” urlati come mantra dai leoni da tastiera e da qualsiasi personaggio pubblico che viene colto nel sacco a fare gaffe discriminatorie. I casi più recenti sono stati gli sketch razzisti nei confronti delle persone nere (n word compresa) ed asiatiche mandati in onda da Striscia La Notizia e il sopracitato monologo di Pio e Amedeo in cui si sono arrogati il diritto di decidere quanto sia giusto utilizzare slur discriminatori se le intenzioni non sono cattive.

Rimanendo nel mondo dell’arte, si sente spesso dire che “per colpa del politicamente corretto, ormai tutti i personaggi dei film appartengono alla comunità LGBT+”.  Ovviamente, è un’altra bufala messa in circolo da chi non vorrebbe vedere altro che personaggi cisgender ed eterosessuali sul piccolo e grande schermo. La verità è ben diversa: nella stagione tra il 2020 e il 2021 la percentuale di personaggi queer nei film è calata dal 10.2% al 9.1%. Dunque, solo una minuscola parte dei personaggi immaginari dello spettacolo si identificano come LGBT+ ma a qualcuno piace gonfiare i numeri per farci credere che avere una rappresentanza nei media sia qualcosa di inutile e che “esistono problemi maggiori”. Ma non è così, la comunità LGBT+ continua ad essere sottorappresentata, e non è con il benaltrismo che si combattono la queerfobia e la transfobia.

Abbiamo parlato brevemente del ruolo che gioca la destra sovranista nella strumentalizzazione del politicamente corretto, ma anche la sinistra italiana ha le sue colpe. Anche molti personaggi notoriamente di sinistra si infarciscono la bocca di critiche al politicamente corretto. Un esempio piuttosto recente è il monologo di Luciana Littizzetto che, dall’alto del suo privilegio che le concede un ruolo non poco importante nello studio di Fabio Fazio, ha pensato fosse giusto ribadire che “non si può più dire niente” e che “ci hanno insegnato ad offenderci per tutto”. Di nuovo: non sta a Littizzetto decidere cosa offende e discrimina le categorie più oppresse. E non è così funzionano le dinamiche di potere, non è solo l’offesa il problema: la discriminazione continua ad esistere anche se i diretti interessati non si sentono individualmente offesi. Perché quando vieni pagata meno del tuo collega uomo a parità di mansione o quando ricevi la cittadinanza dopo 18 anni nonostante tu sia cresciuto in Italia, puoi anche non offenderti, ma la disuguaglianza resta: parti comunque cento gradini indietro rispetto al tuo collega uomo e ai tuoi amici bianchi.

Viene quindi spontaneo chiedersi: perché la sinistra in Italia continua ad adottare gli stessi meccanismi retorici della destra? Teoricamente è un paradosso: la sinistra è quella fazione che ha sempre lottato per la giustizia sociale e per i più deboli, mentre ora, in certi casi, quando si parla di diritti civili, sembra quasi aver trovato un punto di incontro con la destra. Il motivo è molto più semplice di quel che si pensa: nessuno è esente dalle discriminazioni sistemiche, a prescindere dall’orientamento politico. Riconoscere di avere dei privilegi è frutto di un lavoro di decostruzione e autocoscienza continuo, e non tutti gli esponenti di sinistra sono disposti a spendere tempo ed energie in questo. C’è da dire, però, che nonostante questo, i cambiamenti sociali sono sempre partiti dalla sinistra. In conclusione, ci sarà sempre una parte della sinistra interessata a perseguire la giustizia sociale, mentre il resto della stessa fazione sarà troppo impegnata a crogiolarsi nel benaltrismo e nei propri privilegi. La sinistra italiana ad oggi è molto frammentata, e quella fetta che ha deciso di occuparsi della decostruzione di privilegi e stereotipi è veramente minima rispetto al resto. Questo vuol dire che si può benissimo parteggiare a sinistra pur avendo dei pregiudizi sessisti, razzisti e omofobi. Il politicamente scorretto, in Italia, non ha colore politico e questo è preoccupante, perché coloro che ascoltano le minoranze senza prendersi la briga di “consigliare” loro come combattere le battaglie sociali sono quasi invisibili.

Giorgia Brunetti

In copertina: foto di Deborah Perrotta, si ringraziano Emma Greco e Sabrina Amatore per aver prestato i loro volti.

Gli Déi annoiati

Quando la Storia muore a constatarne il decesso è un uomo affacciato alla finestra.

A celebrare le esequie della grande maestra di vita è un uomo a cavallo,non un uomo qualsiasi, ma l’esecutore di una sentenza, paradossalmente storica, quella della fine della Storia stessa.

“Ho visto l’imperatore, quest’anima del mondo […]” racconta il filosofo tedesco Friedrich Hegel, talmente coinvolto dalla visione di Napoleone Bonaparte, trionfante a Jena, da considerare tale momento uno spartiacque fondamentale.

All’apice della gloria napoleonica, l’umanità ha raggiunto la propria liberazione tramite una rivoluzione politica e, per Hegel, ciò che ne consegue non potrà che essere solamente una razionalizzazione ed una diffusione globale del nuovo ordine definitivo.

Passa quasi un secolo, quando un giovane professore russo, in fuga dalla rivoluzione bolscevica, approda a Parigi.

Anima poliedrica, nipote del celebre pittore Vasilij Kandinsky, Alexandre Kojève a poco più di trent’anni affabula ed ipnotizza la futura intellighenzia francese.

Chiamato a tenere dei seminari sulla “Fenomenologia dello Spirito” hegeliana, di cui dichiara di aver compreso poco o nulla, Kojève trae dall’opera del filosofo tedesco una trattazione fascinosa, capace di ammaliare il pubblico di studenti: La Fine della Storia.

Queneau, Bataille, Aron, Caillois, Leiris, Corbin, Merleau-Ponty, Lacan, Breton e Hannah Arendt.

L’avanguardia della filosofia novecentesca presenzia alle lezioni di quel bizzarro corso di filosofia delle religioni, trasformato da Kojève in una trattazione monografica della Fenomenologia dello Spirito, considerata un’opera impossibile da trattare solamente secondo una prospettiva religiosa separata.

La Fine della Storia coincide con la fine del desiderio di riconoscimento, con l’annullamento della dialettica, in favore di un ordine globale, uniformato sotto un progetto statale capace di garantire legalità e libertà.

Tale interpretazione porterà  Kojève però a traslare il pensiero hegeliano nella propria contemporaneità.

É il 4 dicembre del 1937 quando, al Collège de socioligie, il professore svela ai suoi studenti il nuovo depositario dello spirito del mondo.

Roger Caillois, fra gli avventori abituali dei corsi del professore russo, racconta lo stupore della platea di studenti quando “Kojeve ci svelò quel giorno che Hegel, pur avendo avuto una giusta intuizione, si era sbagliata di un secolo: l’uomo della fine della storia non era Napoleone, ma Stalin”.

Vestire i panni del becchino della Storia, per quanto possa sembrare un ruolo infausto, ha continuato a garantire la notorietà di chiunque vi si prestasse.

Nel 1992 è il turno di un giovane dottore in scienze politiche, Francis Fukuyama, autore del saggio “La fine della storia e l’ultimo uomo”.

Nella sua trattazione il politologo americano  riconosce nel sistema liberale a trazione statunitense l’evidenza della conclusione dei processi storici.

Il ragionamento che guida la tesi è pesantemente influenzato da Hegel: la guerra fredda ha rappresentato il culmine della dialettica politica fra due sistemi contrapposti.

Con la caduta del Muro di Berlino, secondo Fukuyama, il Comunismo sovietico palesa la propria insostenibilità lasciando al sistema democratico-liberale occidentale la possibilità di procedere alla sua espansione globale.

La lettura di Fukuyama ha necessitato di diverse revisioni dello stesso autore, messo pesantemente in discussione dallo scoppio della rivoluzione informatica e dalle numerose crisi e conflitti che hanno continuato a susseguirsi anche dopo la Caduta del Muro.

La marcia trionfate verso la democrazia globale, teorizzata dallo studioso in relazione ad una concezione della storia come moto universale verso il progresso, è stata palesemente disattesa: non solo nelle nuove prospettive, lontane dai dettami liberal-democratici, adottate da paesi come la Cina, ma anche nei due paesi al centro della legittimazione della tesi di Fukuyama stesso.

La Russia, dopo una prima apertura, traumatica, verso il mondo occidentale è ritornata suoi suoi passi e gli USA hanno dimostrato una sofferenza diffusa nella popolazione verso il ruolo di evangelizzatore mondiale, infrangendosi nell’esplosione delle proprie contraddizioni, sempre taciute a fronte del mandato imperiale e della potenza che ne derivava, ad oggi insostenibile.

Ma se la condizione a cui legare la fine della Storia sia da ricercare molto più profondamente, nella stessa condizione esistenziale dell’umanità?

Se la storia nascesse e morisse attorno ad un semplice, quanto fondamentale, atavico interrogativo ontologico: la Morte?

“La storia è iniziata quando gli umani hanno inventato le divinità e finirà quando gli umani diventeranno divinità” è una citazione dello storico israeliano Yuval Noah Harari.

Esperto di storia medievale e storia militare, il professor Harari è oggi particolarmente celebre per le proprie opere di storia del mondo ed il suo lavoro incentrato sui processi macro-storici.

Nel suo libro “Sapiens: Da animali a dèi” l’autore individua nella Rivoluzione scientifica l’ultima delle tre grandi rivoluzioni che hanno sostanzialmente  segnato l’evoluzione umana: quella cognitiva, quella agricola ed infine quella scientifica.

Quest’ultima, che nasce dal riconoscimento dell’uomo della sua ignoranza, vede  un unico grande fine: la sconfitta della morte.

Harari nelle sue pagine lancia quest’idea lapidariamente, riconoscendo come l’uomo si ostini a negare questo desiderio ed invitando però a non nascondersi dietro un dito.

D’altronde, evidenzia lo storico israeliano, tutte le filosofie moderne ed i paradigmi sociali che ne discendono hanno già manifestato un disinteresse palese per la tematica della morte: “Cosa accade ad un comunista dopo la morte? Cosa accade ad un cpitalista? O ad una femminista?  Non ha senso cercare la risposta nelle opere di Marx, Adam Smith o Simon de Beauvoir”.

Oggi milioni di nano-robot possono essere immessi in un sistema cardio-vascolare umano ed aggredire alcune patologie, le tecnologie neurali permettono di esplorare possibilità mai immaginate e l’uomo, soprattutto, è completamente padrone del pianeta Terra, addirittura è diventato depositario di una potenza demiurgica che lo rende in grado incidere sull’ambiente stesso.

Nel momento in cui l’evoluzione ci porterà ad assumere sempre più prerogative che l’uomo ha sempre accostato solamente alle divinità, avrà ancora senso definirsi uomini, nell’accezione scientifica di homo sapiens?

Inevitabilmente, nel caso la prospettiva di Harari si concretizzasse, dovremmo porre una definitiva pietra tombale sulla Storia, intesa come narrazione e memoria collettiva di una collettività che sarebbe troppo differente da noi.

Se volessimo trovare infatti un motore fondamentale della Storia, questo potrebbe essere proprio la volontà di sfidare la morte.

La volontà di riunirci in gruppi sociali, di costruire villaggi, città e metropoli, il desiderio di costruire monumenti, di combattere e conquistare per la gloria, di lasciare un’impronta sulla memoria del mondo, cosa sono se non tentativi di superare ciò con cui l’uomo convive e si scontra fin dalla sua nascita: la fine della propria vita.

Cosa succederebbe, quando l’umanità, oramai invincibile anche sulla morte si troverà a doversi confrontare con se stessa?

La fine della Storia potrebbe non essere la fine delle atrocità, anzi.

La constatazione di Harari è incredibilmente inquietante e lascia presagire che alla fine della Storia possa annidarsi l’inizio di nuovi processi, imprevedibili: “ Siamo più potenti di quanto siamo mai stati, ma non sappiamo che cosa fare con tutto questo potere. Peggio di tutto gli umani sembrano più irresponsabili che mai”

Scavando nella mitologia, nelle epopee delle tradizioni religiose, vediamo come le divinità, nei momenti noia e negligenza, si dilettino nel creare e nel distruggere, nello sconvolgere e nel rivoluzionare.

Dalla solitudine divina può nascere nuova vita, come può dissolversi un mondo.

In quest’ottica l’interrogativo posto da Harari è particolarmente calzante: Può esserci qualcosa di più pericoloso di una massa di dèi insoddisfatti e irresponsabili che non sanno neppure ciò che vogliono?”

Lorenzo Giardinetti

GAFAM vs. BAT

Nel mondo occidentale, l’acronimo GAFAM è ormai piuttosto noto: si tratta di Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft, i cinque colossi dell’industria digitale, giganti capaci in alcuni casi di raggiungere lo stratosferico valore di mille miliardi di dollari.1

Non sono invece in molti a conoscere la risposta cinese ai colossi della Silicon Valley: sintetizzati nell’acronimo BAT, Baidu, Alibaba e Tencent sono i principali competitor rispettivamente di Google (Baidu è il principale motore di ricerca in Cina), di Amazon (Alibaba opera nel settore dell’e-commerce ed è il maggior avversario a livello globale del colosso di Jeff Bezos) e di Facebook (Tencent è l’azienda che ha sviluppato WeChat, di cui parleremo in maniera più approfondita più avanti).2

Il doppelgänger cinese di Apple può essere invece facilmente rintracciato in Huawei, che dopo un lungo tira e molla con l’azienda di Cupertino (dopo lo storico sorpasso di Huawei nelle vendite di smartphone alla fine del 2018 era avvenuto il controsorpasso di Apple al terzo quarto del 2019) sembra essersi stabilizzata la predominanza cinese, che non solo dall’inizio del 2020 è nuovamente sopra Apple, ma che grazie a una crescita costante negli ultimi due trimestri è riuscita per la prima volta a superare le vendite di Samsung, attestandosi come primo fornitore di smartphone al mondo grazie al controllo del 20,2% dell’intero mercato.3

La potenza di fuoco di queste aziende è tale da mettere a repentaglio la sovranità statale? Nel giugno 2019 Mark Zuckerberg lanciò ufficialmente il progetto Libra4, la criptovauta che nelle sue intenzioni avrebbe reso “facile spedire denaro a qualcuno quanto mandargli una foto”,5 come da lui stesso dichiarato il 30 Aprile dello stesso anno al F8, la conferenza annuale di Facebook.6 Scelta fortemente osteggiata dalle autorità finanziarie a causa dell’alto grado di interferenza con le banche centrali che avrebbe potuto avere un sistema finanziario globale che prevedesse costi di gestione assenti, finanche ad arrivare alla mancanza di necessità di possedere un contro corrente.7 La Libra Association ha così lanciato un White Paper, in cui si afferma di aver lavorato “per determinare il modo migliore di sposare la tecnologia blockchain con quadri normativi accettati. Il nostro obiettivo è che il sistema di pagamento di Libra si integri senza problemi con le politiche monetarie e macroprudenziali locali e integri le valute esistenti consentendo nuove funzionalità, riducendo drasticamente i costi promuovendo l’inclusione finanziaria.”8

Se negli Stati Uniti sembra essere stata arginata l’espansione della valuta di Zuckerberg, non è affatto certo che altrove sarà così. Scrivono Francesca e Luca Balestrieri:

“Dopo che Facebook avrà offerto ai suoi 2,2 miliardi di utenti una criptovaluta proprietaria, passerà davvero poco tempo prima che una simile mossa non sia imitata da altre piattaforme globali, in primo luogo da quelle maggiormente impegnate nell’e-commerce come Amazon. […] Negli Stati Uniti la Federal Reserve e il dipartimento del Tesoro sapranno certo disciplinare le nuove criptovalute regolandone l’uso senza indebolire il governo del dollaro; ma quali possibilità avrà la banca centrale del Mali o quella del Kenia di evitare che la moneta di Zuckerberg soppianti la valuta locale nelle transazioni quotidiane? E poiché Facebook l’ancorerà a un cambio stabile, nelle economie più fragili sarà vista come un’opportunità rispetto all’inflazione.”9

Zuckerberg ha però solo seguito il percorso tracciato dalla Cina anni prima. Fin dal 2004, quando fu lanciata da Ant Financial Services Group, filiale di Alibaba, Alipay si è affermata come uno dei servizi di digital payment più diffusi in Cina. Grazie ad Alipay è infatti “possibile effettuare pagamenti mobile ed O2O lasciando comodamente a casa il proprio portafoglio. L’utente può infatti collegare il suo conto bancario all’applicazione, ovvero ad un wallet digitale in cui è possibile gestire i propri fondi, traferire soldi ad altri utenti, fare investimenti, ottenere prestiti, pagare una serie di servizi e molto altro”10, proprio come con WeChat Pay, che per Simone Pieranni è stato artefice di una vera e propria rivoluzione:

“A un certo punto fu possibile collegare il proprio account a un conto bancario cinese […] e finalmente poter comprare qualsiasi cosa con lo smartphone. Da quel giorno anche il portafoglio diventò inutile. Non serviva a niente. Anche le carte di credito, per chi le possedeva, divennero inutili. WeChat lanciò la sfida ai cinesi su due concetti – il tempo e la velocità – trasformando una società clamorosamente dipendente da carta, timbri, passaggi burocratici in una società improvvisamente cashless e senza più la necessità di stampare e timbrare qualsiasi cosa.”11

Insomma la Cina si sta dimostrando sempre di più, anche per i pagamenti, dipendente dalle proprie grandi aziende tecnologiche. L’occidente delle grandi imprese guarda con ammirazione: lo scontro si combatte anche imitando il nemico.

Paolo Palladino

1 Deragni P., Come ha fatto Apple a diventare un colosso da mille miliardi, in “Wired.it”, 3 Agosto 2018. URL: https://www.wired.it/economia/finanza/2018/08/03/apple-mille-miliardi/

2 Signorelli A. D., Chi sono i Bat, i tre campioni high-tech della Cina, in “Wired.it”, 4 Febbraio 2019. URL: https://www.wired.it/economia/business/2019/02/04/baidu-alibaba-tencent-cina-bat/?refresh_ce=

3 Chau M., Reith R., Smartphone Market Shere. Vendor Data Overview, in “IDC”, 22 Giugno 2020. URL: https://www.idc.com/promo/smartphone-market-share/vendor

4 Bottazzini P., Come funziona e come è nata Libra, la criptovaluta targata Facebook, in “Forbes” ,18 Giugno 2019. URL: https://forbes.it/2019/06/18/come-funziona-e-come-e-nata-libra-la-criptovaluta-targata-facebook/

5 Jalan T., Whatsapp at Facebook F8: “Sending money should be as easy as sending photos – Mark Zuckerberg, in “Medianama”, 2 Maggio 2019. URL: https://www.medianama.com/2019/05/223-whatsapp-at-facebook-f8-sending-money-should-be-as-easy-as-sending-photos-mark-zuckerberg/

6 Day 1 of F8 2019: Building New Products and Features for a Privacy-Focused Social Platform, in “Facebook”, 30 Aprile 2019. URL: https://about.fb.com/news/2019/04/f8-2019-day-1/

7 Libra 2.0, la criptovaluta di Facebook cambia strategia, in “Forbes”, 18 Aprile 2020. URL: https://forbes.it/2020/04/18/libra-la-criptovaluta-di-facebook-cambia-strategia/

8 Welcome to the official libra White Paper, in “Libra”. URL: https://libra.org/en-US/white-paper/

9 Balestrieri F., Balestrieri L., Guerra digitale. Il 5G e lo scontro tra Stati Uniti e Cina per il dominio tecnologico, Roma, Luiss University Press, 2019, p. 13

10 Bonaccorso E., Cos’è Alipay: statistiche e funzioni, in “ValueChina”, 4 Ottobre 2019. URL: https://valuechina.net/2019/10/04/alipay-statistiche-e-funzioni-settembre-2019/

11 Pieranni S., Red mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina, Bari-Roma, Editori Laterza, 2020, p. 10