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El Internado: Las Cumbres. Tra sacro e profano

È da diverso tempo che osservo questo articolo da lontano, l’ho iniziato a scrivere prima di laurearmi, ovviamente la testa era alla tesi perciò l’ho rimandato finché ho potuto. Ti capita mai di vivere uno di quei giorni in cui non hai voglia di fare assolutamente nulla? A me sì, la cosa negativa è che mi vengono queste voglie quando avrei mille cose da fare e quindi anziché procrastinare mi dovrei focalizzare su altro; la cosa buona è che, quando decido di cedere a queste giornate, trovo sempre delle chicchette. 

Stavolta, ovvero febbraio, avrei voluto riposare giusto una mezzoretta ma sono finita a fare binge-watching di una serie spagnola El Internado: Las Cumbres, disponibile su Amazon Prime Video. In attesa della seconda stagione, che stanno girando ora, ho sentito la necessità di raccontarvi un po’ che succede lì sulle montagne. 

Non farò spoiler, forse giusto qualcuno.  

La narrazione è ambientata in questa scuola/collegio nel nord della Spagna, i protagonisti sono gli alunni, adolescenti abbandonati da tutti poiché ritenuti feccia della società, gli inutili. Tutti fanno il possibile per buttare giù questi ragazzi e per convincerli di essere insignificanti, di non valere la pena. Li vorrebbero vedere lì, corpi senza emozione e senza vita. 

Però questi ragazzi e ragazze sono coraggiosi, pieni di emozioni e capacità. Ne è ben consapevole il frate Elías, professore di latino, cosciente della durezza della vita e soprattutto del collegio, fa di tutto per stimolare e fortificare i suoi alunni, l’unico che comprende le loro domande a cui sentono di dover trovare delle risposte, i dubbi, la necessità di trovare sé stessi. È per questo che Elías, uomo di fede, comincia a chiedersi il perché della coesistenza del bene e del male.  

Non so se ti sia mai capitato di avere un professore che combatta per te e alzi la voce al posto tuo se tu non puoi farlo. A me è capitato ed è una sensazione stupenda. Elías è il professore che tutti noi meriteremmo. Le ultime parole che dedica ai suoi alunni sono al contempo avvertimento e insegnamento: non permettere a nessuno di farti credere di essere lo scarto della società, non permettere a nessuno di giudicarti e annullarti. 

La prova di ciò sono le azioni e il coraggio degli alunni. D’altronde, come ha detto il nostro amatissimo Dante, l’amor che move il sole e l’altre stelle ovvero tutto ciò che facciamo risponde a una forza motrice superiore a tutto il resto: l’amore. Se ci pensiamo bene, anche quando odiamo qualcosa in realtà è l’amore a comandarci. E gli alunni del collegio lo sanno bene: Amaia non smette di cercare Manu, il suo ragazzo, Paul sceglie di non scappare dal collegio per rimanere con sua sorella minore Adéle, Paz l’altra metà di Amaia che mai la abbadonerà, Eric e Julio che non smetteranno mai di aiutare i loro amici. Tutti si muovono in funzione di ritrovare Manu e – allo stesso tempo – ritrovare sé stessi.  

Nel collegio niente e nessuno è come sembra, è un posto pieno di verità nascoste e bugie, non c’è libertà e non sai mai su chi puoi fare affidamento. Eppure… 

Una delle rivelazioni più sconvolgenti è l’amicizia che si verrà a creare tra due caratteri forti: Amaia e Inés, nonostante all’inizio della storia non fosse loro intenzione avvicinarsi l’una all’altra e capirsi, addirittura Amaia sembra adottare atteggiamenti di bullismo nei confronti dell’altra: la giudica poiché solitaria, le urla di parlare… insomma, comportamenti da bulletta. E, come volevasi dimostrare, nonostante sia Amaia una ragazza forte e dal carattere fermo, spesso si può cogliere la sua richiesta d’aiuto e di attenzione. Amaia è forte e fragile allo stesso tempo; Inés sebbene sembri vivere in un mondo tutto suo in cui non c’è spazio per gli altri, è una ragazza che porta con sé ricordi dimenticati e il peso di non sapere chi è. Non consente a nessuno di avvicinarsi per proteggere l’unica certezza che ha: il suo presente.  

Entrambe amano tanto e ognuna a modo suo protegge ciò che ama. 

Adéle, sorellina di Paul, è il personaggio che più mi è piaciuto, la sua evoluzione e crescita sono lampanti. Così piccola e con un amore smisurato nei confronti del fratello che vede come propria stella polare, gelosa dell’amicizia che legherà Paul ad Amaia. La sua gelosia è data dalla paura di perdere l’unica cosa preziosa che ha e di rimanere sola in quel posto freddo e sinistro. Adéle cresce nella sua fragilità e comincia a guardare alle cose in maniera differente. Lo sguardo alla fine della prima stagione è fisso nella mia mente e sono certa che nalla seconda stagione regalerà grandi emozioni. 

Paul è un personaggio importante e, sebbene sia innamorata di lui, sono sicura che senza Adéle, Amaia e Manu non sarebbe stato la stessa cosa. Trova il suo porto sicuro nei libri e nelle parole, è motivato dai suoi amici e ogni decisione presa è in virtù degli unici che credono in lui. 

Manu, attorno a cui tutto ruota, nonostante non ci sia fisicamente. Innamorato di Amaia, fedele amico di Paul. Forte, ribelle, a volte pecca di arroganza ma – d’altronde – chissà a cosa sia dovuta. 

L’amore… Mara la direttrice del collegio, Dario il papà di Inés, Mario il professore di ginnastica, Julio Eric e Paz, Amaia, Inés, Paul e Adéle, la piccola Rita, Elías, Elvira la professoressa di scienze… tutti i personaggi sono mossi dall’amore.  

Definisci l’amore! 

Tutto ciò che per te sia amore. Ognuno ha la propria maniera di viverlo, provarlo, esprimerlo. Ognuno di noi lo guarda di forma differente, in base a ciò che ci hanno insegnato e a cui siamo stati esposti. 

La prima stagione mi ha dato molto, mi sono potuta identificare con quasi tutti i protagonisti e, ovviamente, ho pianto. 

Ti puoi ritrovare nella dolcezza di Adéle, nella fragilità di Inés, nella passione di Amaia, nell’introspettività di Paul, nella lealtà di Paz, nella leggerezza intelligente di Eric e Julio, nella determinazione di Manu, nella fede di Elías, nella durezza di Mario, nella protezione di Dario, nella fermezza quanto nella debolezza di Mara, nella devozione al proprio lavoro di Elvira. 

E potremmo cercare, e trovare, migliaia di aggettivi. El Internado ci pone di fronte la realtà della vita: ti impegni, prendi decisioni, ti scontri, ma alla fine sei tu che decidi quale via seguire. Ti vengono offerte possibilità ma sei tu a decidere, e puoi scegliere coscientemente se hai la fortuna di trovare le persone che ti aiuteranno a trovare la tua via. 

Martina Grujić B.

Per leggere l’articolo in spagnolo, clicca qui.

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El Internado: Las Cumbres. Entre lo sagrado y lo profano

Me llegó la idea de escribir este artículo hace un tiempo, cuando todavía no me había graduado y tenía que escribir mi tesis final. 
¿Te ha pasado? ¿Alguna vez te has encontrado en uno de esos días en los que no quieres hacer nada, absolutamente nada? Bueno, a mi sí. Lo malo es que me pasa cuando tengo mil otras cosas por hacer, lo bueno es que encuentro puras joyitas.  
Esta vez mi intención era descansar un ratito para luego seguir escribiendo mi trabajo de tesis… se me pegó el ratito mexicano y acabé haciendo binge-watching de la serie El Internado: Las Cumbres, la primera temporada está disponibile en Amazon Prime Video.  
En la espera de la segunda temporada, que ahora está en rodaje, siento la necesidad de analizar un poquito lo que pasa por ahí en las cumbres.  

No quiero hacer spoilers, pero sí, te voy a decir lo que sirva para llamar tu atención.   

ME MEREZCO EL CASTIGO RECIBIDO Y PROMETO NO VOLVER A VIOLAR LAS NORMAS
La historia está ambientada en un internado en España del norte, los protagonistas son alumnos y alumnas, adolescentes abandonados por todos, por ser inútiles e insignificantes. Todo mundo intenta hacer lo que pueda para que las “escorias” se convenzan de no valer la pena, para que se dejen morir sin emociones, sin vida.   
Pero los chicos y chicas del internado no son para nada escorias, son valientes, y bien lo sabe el maestro de latín, el fraile Elías: él es el único que confía en estas almas, el único que nunca olvida que solo son seres humanos con emociones, miedos, preguntas, y que están en busca de sí mismos. Elías, consciente de la dureza de la vida y de las reglas impuestas a los alumnos, a menudo se cuestiona sobre la coexistencia del bien y del mal y del porqué pasan ciertas cosas.   
No sé si, en algún momento de tu vida, te ha pasado tener un profesor que grite y luche por ti cuando tú ya no puedas hacerlo. A mí sí, se siente chingón. Elías es el profesor que merecemos, todos. Las últimas palabras que les dedica a sus alumnos, son – al mismo tiempo – enseñanza y advertencia: no les permitas juzgarte, hacerte creer que no sirves para nada, tampoco que eres un ser no querido, el último de la fila.   
Como prueba de ello, las acciones y el coraje de los alumnos.  
Como dijo nuestro amado Dante Alighieri, l’amor che move il sole e l’altre stelle, es decir, que es el amor la fuerza motriz de todo lo que hacemos: amistad, pasión, hasta el odio, todo está gobernado y decidido por el amor: Amaia nunca para de buscar a su querido Manu, Paul decide no escaparse del internado por amor a su hermanita Adéle. Así como Paz, media naranja de Amaia, Eric y Julio que tampoco dejarán de ayudar a sus amigos en la búsqueda de Manu, y más en general de uno mismo.  

En el internado nada ni nadie es lo que parece, hay muchas mentiras y verdades escondidas, no hay libertad y nunca sabes con quién puedes contar. A pesar de todo esto, lxs alumnxs se ayudan el uno al otro. 

Una de las revelaciones más mindblowing de la serie es la hermandad que se creará entre dos Mujeres: Amaia e Inés, aunque al principio no se entendían, ni siquiera lo intentaban. De hecho Amaia, casi se porta como bully con Inés. 
La juzga por ser solitaria, la incita a que hable, pero en algunos momentos los comportamientos de Amaia, aunque sean fuertes y de mujer empoderada, parecen un grito para llamar la atención. Amaia es rebelde, fuerte y frágil al mismo tiempo. 
Inés, aunque aparenta vivir en un mundo suyo, sin espacio para los demás, es una chica que trae consigo recuerdos olvidados y el peso de no saber quién es. No permite que nadie se le acerque para proteger lo único que tiene: su ahora. 
Las dos aman mucho y cada una con su propia personalidad protege lo que ama. 
Adéle, hermanita de Paul, es el personaje cuya evolución más me dejó sin palabras. Tan pequeña y con un amor muy grande hacia su hermano mayor, su guía, casi celosa de la amistad entre Paul y Amaia. El celo debido al miedo a quedarse sola en aquel lugar triste y frío. Adéle crece, fuerte de su fragilidad, y empieza a ver las cosas de manera diferente. Su mirada final en la primera temporada está impresa en mi mente y creo que en la próxima temporada nos regalará momentos muy fuertes.  
Paul es un personaje importante. Ama sus amigxs, su mayor motivación, es atento, inteligente, tiene su refugio en los libros y en las palabras, su mirada observa toda la realidad a su alrededor, también la que está escondida… Lo amo, de verás estoy enamorada de su personaje (y podría también del real, just sayin’) pero a pesar de todo estoy segura de que sin Adéle, Amaia y Manu no hubiera sido lo mismo.
Manu, tan presente en las mentes y en los corazones de todxs, a pesar de que desapareció. Enamorado de Amaia, fiel amigo de Paul. A pesar de que en la primera temporada se vea muy poco, ahí está. Fuerte, rebelde, a veces peca de arrogancia y quién sabe a qué se debe. 
El amor… La directora del internado Mara, el papá de Inés Dario, el profesor de gimnástica Mario, Julio Eric y Paz, Amaia, Inés, Paul y Adéle, la pequeña Rita, Elías, la profesora de ciencias Elvira… Todos los personajes actúan por amor.  
¡Definí el amor! Uf, lo qué tú quieras que sea el amor para ti. Cada uno tiene su propia manera de vivirlo, experimentarlo y expresarlo. La mirada de cada uno cambia hacia ello, según lo que nos enseñan y lo que vemos.  
La primera temporada me dio demasiado, pude identificarme con casi todxs lxs protagonistas y… Lloré.  
Cada uno puede encontrar en sí mismo la dulzura de Adéle, la fragilidad de Inés, la pasión de Amaia, la introspectividad de Paul, la lealtad de Paz, la ligereza inteligente de Eric y Julio, la determinación de Manu, la fe de Elías, la dureza de Mario, la protección de Dario, el puño tan firme como débil de Mara, la fieldad a su propio trabajo de Elvira.  
Y podríamos buscar – ¡y encontrarlos! – adjetivos sin fin. 
El internado nos pone frente a la realidad de la vida: te comprometes, tomas decisiones y al final eres tú quién elige cuál vía seguir. 
Te ofrecen posibilidades pero tú eliges; y puedes eligir conscientemente si te encuentras las personas correctas que te ayuden en ello.

Martina Grujić B.

P.D. Ojalá y con la segunda temporada los pueda entrevistar ¡díganme que sí! 

Para leer el artículo en italiano, haga clic aquí.

Freaks Out: il ritorno di Mainetti in sala il 16 dicembre

Chi ha amato Lo chiamavano Jeeg Robot avrà subito drizzato le orecchie alla notizia del nuovo film di Gabriele Mainetti già questo giugno, quando le prime immagini promozionale sono state diffuse sul web.

L’attesa è stata fomentata proprio due giorni fa, il 7 ottobre, con il rilascio del primo teaser su Youtube. La scala è aumentata per il nuovo progetto del regista scritto da Nicola Guaglianone: Roma fa ancora da scenario ma è il 1943, con la guerra che s’appresta a far scempio della capitale.

All’interno di un circo che è un richiamo affettuoso a Freaks di Tod Browning, il capo Israel (Giorgio Tirabassi) sparisce misteriosamente, non si sa se per mano nazista o perché sia riuscito a partire per l’America.

Quando i suoi “figli” si ritrovano senza di lui, lasciano il loro tendone attraversando una Roma sull’orlo del collasso cercando di sopravvivere.

Nel ruolo dell’uomo barbuto Fulvio ritroveremo Claudio Santamaria, già protagonista di Jeeg Robot, attorniato da Pietro Castellitto (Cencio), Giancarlo Martini (Mario) e Aurora Giovinazzo (Matilde).

La produzione è stata movimentata per il film che ha sfruttato anche più di Jeeg Robot il ricorso agli effetti speciali. Slittamenti vari hanno allungato la produzione iniziata nell’aprile del 2018, con riprese tra Lazio e Calabria, per poi arrivare alla post-produzione definitiva nei primi mesi del 2020.

Per avere un assaggio più sostanzioso del film bisognerà aspettare il 13 ottobre, con un trailer esteso, prima di poter vedere il nuovo frutto del lavoro di Mainetti il 16 dicembre in sala.

Antonio Canzoniere

Slice of life: Pioggia di ricordi (1991)

Sono film come questo che aiutano a capire la differenza tra i due pilastri dello Studio Ghibli: Miyazaki è un trasfiguratore, coglie un nucleo psicologico o tematico da rafforzare ed esaltare in un processo di catasterismo; Takahata  convoglia invece la propria energia verso il quotidiano, il realismo ambientale, storico o emozionale per trovare forme e temi adatti a sé.

Va detto però che se l’attenzione per i fatti minimi della vita attraversa tutta la sua opera, è in due film che questo fulcro della sua ispirazione si raccoglie e s’espone, stemperando la vena tragica.

Già parlando di Pom Poko (1994) avevamo accennato alla distinzione tra un ‘dittico slice-of life’ e una ‘trilogia del vinti’: Pioggia di ricordi (visibile su Netflix) è proprio la prima parte del dittico, seguita da un altro tassello della sperimentazione stilistica di Takahata, I miei vicini Yamada (1999).

Il soggetto proviene dal manga Omohide Poro Poro di Hotaru Okamoto e Yuko Tone e diventa la scusa perfetta per rendere su film lo stacco tra infanzia ed età matura di una giovane donna.

Tokyo, anni ‘80: La ventisettenne Taeko lavora in un ufficio a Tokyo ma è attratta dalla campagna. Per riassaporare la natura e il lavoro all’aria aperta va nella provincia di Yamagata, a nord della capitale, per aiutare nella raccolta del cartamo: la fascinazione per quello stile di vita è forte quanto il pensiero di essere ad una svolta nella sua vita.

E che svolta sarebbe senza il ritorno del passato e dei ricordi a farle visita? Dovendo decidere tra città e campagna, tra la vita che ha condotto e quella che la tira a sé, Taeko non può non ripensare alla bambina che è stata, riconsiderando tutti i rapporti con le persone e gli avvenimenti.

Scrivendo di ‘La tomba delle lucciole’ del 1988, il Morandini parla di una “capacità mimetica quasi cocciuta” di Takahata: il termine corretto sarebbe ‘ferocia’, tanto è l’amore del regista per l’infanzia e per la messinscena coerente alla natura del soggetto, che rasenta il viscerale. 

Sono questo termine e questa tensione di Takahata a spiegare la voglia di immergersi a tal punto nella ricerca ostinata del realismo, tale da spingere in avanti lo studio e la resa delle espressioni facciali dei doppiatori, registrati durante le sessioni di lettura dello script.

Non meno peso ha nella sua ricerca la ‘giustezza’ infinitesimale del colore (in media siamo sulle 400 sfumature adoperate nelle scene in esterni) o del movimento: questo lo si vede    soprattutto dalla scena finale con Taeko riaccompagnata nella casa in campagna da Toshio che l’ha fatta aprire all’amore, attorniata dal ricordo dei suoi vecchi compagni di classe e dalla vecchia sé. Il tutto è reso con 5422 inquadrature e passa. 

I salti tra presente e passato avrebbero fatto piacere a Franco Kim Arcalli, nostro montatore e sceneggiatore superbo che ha fatto dei passaggi intertemporali un punto di forza della sua poetica ma va anche detto che lo slancio fantastico è altrettanto perfettamente amalgamato nella struttura del film: il volo della piccola Taeko estasiata dalla prima cotta o la sequenza in cui immagina di diventare un’attrice famosa sono tutto fuorché stonature col ritmo del film e della resa del flusso psicologico della protagonista. Quando si dice la forza dello stile!

Chi non apprezza Pioggia di ricordi potrebbe non sapere da un lato il perfezionismo che lo sorregge così come la centralità, nella cultura giapponese, del racconto della vita e delle sue piccole cose, che spesso nel primo Novecento ha trovato espressione nell’autobiografia. Per gli amanti di Takahata è un gioiello da gustare, con una narrazione limpida e asciutta, ostinata nel rendere giustizia ai suoi protagonisti e che è stato un caposaldo nella narrazione degli anime.

Antonio Canzoniere

Arianna ovvero L’amore nel pomeriggio

Le origini e l’aspetto di Audrey Hepburn (1929-1993) la rendevano perfetta nel trasmettere un senso di grazia cosmopolita tutta europea, uno charme che gli americani non riescono ad ottenere.

In America la persona è catalogata per l’origine, scomposta nelle sue componenti come un aggregato di innesti, non meno di un blocco di lego; la Hepburn, con padre britannico, madre olandese (una baronessa), educazione da poliglotta, un uso del corpo allenato dalla danza e temprato dalle privazioni della seconda guerra mondiale, ha esposto e mantenuto con la sua presenza in pellicola l’ideale di un’Europa dove il jet-set non aveva ancora sgualcito l’immagine del bel mondo.

Il problema con l’industria del cinema americano è la creazione di una ‘formula’, di una ‘Persona’ da affibbiare all’attore: la Hepburn non fu esentata da questo processo e i cinefili suoi ammiratori non possono che rattristarsi della mancanza di tanti altri ruoli nella sua carriera, magari più intriganti e stimolanti per l’attrice, che comunque seppe dimostrarsi interprete sensibile e brillante, pur nei limiti delle parti proposte e poi delle rifiutate per vicinanza alla famiglia.

Se qualche grande attore o regista ha potuto infrangere le regole o i codici di Hollywood, il lavoro doveva essere fatto tra le pieghe del racconto, l’appello puntava all’intelligenza dello spettatore.

Immaginiamo quindi che reazioni dovessero avere da un lato un americano di provincia e dall’altro un francese o un italiano di fronte ad Arianna (1957, in originale Love in the afternoon), gioiello freudiano del viennese Billy Wilder (1906-2002), già regista dei più famosi Sabrina (1954) e Viale del tramonto (1950).

Nel film poi divenuto di culto, Wilder sfrutta al massimo il candore della Hepburn e lo rivolge contro il pubblico, in accoppiamento cromatico (per opposizione complementare) col declino della maturità di Gary Cooper (1901-1961).

“Love In The Afternoon” Gary Cooper and Audrey Hepburn © 1957 AA Productions / MPTV —————– Credit: mptvimages/contrasto

La futura Holly Golightly è la figlia di un ispettore privato parigino (Maurice Chevalier) specializzato in infedeltà coniugali (si noti bene: nel cinema di Wilder Parigi tornerà come città del vizio in Irma la dolce (1963), da città romantica che era in Sabrina).

La ragazza è una violoncellista dalla vita monotona, passata a casa accanto al padre. Unico suo brivido è ascoltare le storie e le consultazioni dei clienti nello studio del genitore: tutte storie che ‘una ragazza dabbene’ non dovrebbe sapere, specialmente se parliamo degli anni ‘50 come in questo caso.

Quando un marito tradito prospetta l’idea di uccidere l’amante della moglie, un magnate americano e seduttore impenitente Mr. Flanagan (Cooper), Arianna si mobilita per avvisarlo, salvo poi rimanerne affascinata.

Lei, inesperta ma non priva d’inventiva, fa credere al milionario sottaniere di non essere inferiore in fatto di seduzione.

Wilder ha dalla sua la perspicacia e l’intelligenza che gli derivano dall’essere l’erede di Lubitsch, il ricordo del patrimonio umano e storico del bel mondo viennese e della sua origine ebraica: non è un caso che Freud accompagni come un fantasma tutto il film, lui che sembra essere un nome tutelare di molti ebrei letterati o cineasti del Novecento. In fondo, la sua stessa penetrante malizia può essere ritrovata nel Saba delle Scorciatoie e raccontini (1951).


Arianna, visto in quest’ottica, si rivela lezione magistrale sull’esposizione filmica del ‘rimosso’ e quindi dell’esaltazione del non-detto, del sottinteso e dell’inespresso.

A furia di sottigliezze diventa una farsa erotica esplicita che si fa beffe della retorica sentimentale di Tristano e Isotta contrapponendole la canzone ‘Fascination’ (1905) di Fermo Dante Marchetti e le sue sviolinate zigane.

Aveva ragione Alessandro Cappabianca a citare i trompe-l’oeil parlando del film, giacché Arianna è un film rococò sulle maschere ed il gusto della tattica, dello scherzo e del gioco in amore, un arabesco che nel suo tracciato semplice non si scorda delle gioie decorative.

Potrà anche essere ‘l’opera di un cuore secco’ (Parmion) ma qui non manca a Wilder la tenerezza nel capire (e far capire agli altri) l’interesse che Arianna ha per Flanagan: lei non è diversa da una bambina che si metta addosso i vestiti della madre per sentirsi già donna.

La Hepburn faceva al caso suo perché il corpo snello dell’attrice si prestava totalmente al personaggio: al tempo delle riprese lei aveva 28 anni, ne dimostrava 10 in meno e creava così uno stacco fortissimo tra la sua presenza e quella di Cooper (all’epoca cinquantaseienne, età smussata dai velatini della fotografia).

È uno dei risultati più belli di una carriera, quella della Hepburn, che avrebbe dato sfoggio di piena maturità in Due per la strada (1967) di Stanley Donen, film splendido per il regista che per l’attrice protagonista, quasi un rendiconto della felicità effimera degli anni ‘60 attraverso il racconto di una crisi matrimoniale.

Wilder, che adorava la sua Audrey, si sarà divertito nel rivederla di nuovo su un suo set dopo il successo di Sabrina (1954), con un personaggio capace di essere esplicito nei desideri con il massimo del tatto.

Come ricordava il Morandini per Adele H. di Truffaut, ‘non è necessario essere romantici per raccontare una storia romantica. Talvolta, anzi, non si deve esserlo’.

Antonio Canzoniere