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Alessitimia: le emozioni non dette

Cosa stai provando in questo momento? – Mi chiedeva il mio dottore.
Non lo so – rispondevo io.
Cosa provavi in quel momento? Cosa sentivi dentro di te? – Mi ripeteva il mio dottore.
Non lo so, non sento niente – rispondevo io.

Questa è una delle mie classiche conversazioni. Io, infatti, non riconosco le mie emozioni, non le sento e quindi non riesco neppure ad esternarle e a comunicarle. Io sono alessitimica

E che cos’è l’alessitimia? Adesso ve lo spiego.

Osservazioni cliniche su pazienti affetti da malattie psicosomatiche (come la colite ulcerosa, l’asma, l’eczema, ecc.) hanno permesso di individuare un disturbo chiamato alessitimia o analfabetismo emotivo (dal greco a «mancanza», lexis «parola» e thymos «emozione» dunque: mancanza di parole per esprimere un’emozione). Il termine alessitimia fu coniato da John Nemiah e Peter Sifneos all’inizio degli anni Settanta per indicare la patologia causata dall’incapacità di riconoscere ed esprimere verbalmente le emozioni. I pazienti alessitimici manifestano problemi nel distinguere gli stati emotivi e non sono in grado di interpretare le emozioni degli altri presentando una scarsa capacità immaginativa e onirica. 

Già Paul MacLean (1949) notò una grande incapacità a verbalizzare le proprie emozioni in molti pazienti psicosomatici e ipotizzò che in queste persone le emozioni non riuscissero ad andare dai centri nervosi inferiori alla neocorteccia (il cervello verbale) compromettendo così la verbalizzazione. Jurgen Ruesch (1948) oltre ad osservare l’analoga ipotesi, notò che i pazienti avevano una personalità infantile manifestando uno stile di pensiero tendente alla passività, alla dipendenza e all’imitazione, difficoltà di espressione verbale e riconoscimento delle emozioni. Ruesch ipotizzò che le loro difficoltà relazionali potessero aver prodotto un arresto dello sviluppo psichico ed emotivo. Infine, Peter Sifneos, nel 1973, coniò il termine alessitimia per indicare un disturbo delle funzioni affettive e simboliche riferendosi:

  • a una difficoltà ad esprimere verbalmente le emozioni
  • a un’attività fantasmatica limitata
  • a uno stile comunicativo incolore

Questi pazienti, infatti, quando venivano interrogati sulle emozioni provate durante un evento stressante, sapevano descrivere dettagliatamente l’evento, ma non riuscivano a fare alcun riferimento alle emozioni provate in quel momento.

Per comprendere meglio il costrutto di alessitimia è fondamentale fare una distinzione tra due termini inglesi: emotions (letteralmente: emozioni) e feelings (letteralmente: sentimenti). Le emozioni sono fenomeni biologici innati, mentre i sentimenti sono fenomeni psicologici individuali molto più complessi perché implicano un’elaborazione cognitiva. Questi ultimi consentono di comunicare  le emozioni mediante la funzione verbale o non verbale, dipendono dalla cultura, dalle esperienze vissute, dalle rappresentazioni di sé e degli altri, da fantasie e sogni. L’alessitimia, quindi, non indica dei soggetti senza emozioni, ma degli individui che hanno un deficit della componente psicologica dell’affetto (feeling), o meglio delle persone che hanno delle emozioni biologiche (emotions), ma hanno scarsa possibilità di ricorrere agli strumenti psicologici per rappresentarle.

Taylor, Bagby e Parker hanno considerato l’alessitimia un disturbo dell’elaborazione degli affetti che interferisce con i processi di auto-regolazione e riorganizzazione delle emozioni. Questo spiega la tendenza dei soggetti alessitimici ad assumere alcuni comportamenti compulsivi come l’abbuffarsi di cibo, l’abuso di sostanze o il vivere in modo perverso la sessualità. La difficoltà di espressione per descrivere ciò che si prova, spesso, crea dei pazienti psicosomatici. Non essendo in grado di tradurre in parole le emozioni, si tende a vivere sul corpo l’emotività. 

Ad oggi, il trattamento più efficace per i pazienti alessitimici sembra essere la psicoterapia cognitivo-comportamentale poiché il compito del terapeuta è quello di aiutare i pazienti a esprimere, riconoscere e gestire le proprie emozioni tenendo conto delle carenze del soggetto alessitimico.

Francesca Motta

BIBLIOGRAFIA:

V. Caretti, D. La Barbera cur.,  Alessitimia. Valutazione e trattamento, Casa Editricie Astrulabio, Roma 2005

SITOGRAFIA:

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Storia di un corpo: i miei mostri

Il 6 maggio scorso, per la prima volta nella mia vita, il mio io più profondo si è ritrovato catapultato, nero su bianco, su un blog. È stato facile? No. Nemmeno per un secondo. Ma ne è valsa la pena. Per questo sono qui, di nuovo.

Io conosco due mostri: Ma e Divano Bianco

Mi accompagnano da sempre, dalla tenera età di due anni. Da quando li ho incontrati non mi hanno mai lasciata da sola. 

Ma è decisamente uno di quei mostri che si trasforma di continuo, l’ho incontrato in tante persone. Quelle che più ricordo, in modo nitidissimo e particolare sono due.

Una è la mia insegnante delle elementari, la temutissima (in realtà stronza, altre parole non ci sono) maestra di matematica, che chiameremo Margherita: mi ha sempre fatta sentire come un pesante macigno di 7 anni. L’altro giorno sfogliando il vecchio album di ricordi ho trovato una di quelle foto di classe in cui si è tutti pettinati e ordinati e, quasi sorpresa, ho detto a mia madre: “ero una bella bambina” (mai avrei pensato di dirlo). Poi ho spostato lo sguardo e l’ho vista. Erano anni che non vedevo quella faccia, e tutto d’un tratto mi sono sentita catapultata indietro nel tempo, seduta nel mio piccolo banco verde, il grembiule blu ben stirato, il colletto bianco, i capelli lunghissimi e la maestra Margherita di fronte a me che mi dice che dovrei fare sport, che dovrei muovermi, che sono una stupida. Mi è venuto il vomito a pensarci. Mi sono sentita in apnea per qualche secondo, poi mia madre mi ha fatto una domanda e sono ritornata nella realtà, mi sono girata per risponderle e lei ha visto la mia espressione, sgomenta, persa. allora mi ha stretto la mano. Non c’è stato bisogno di dire altro, aveva capito perfettamente cos’era successo.

La seconda persona che ricordo più che nitidamente, è l’infermiera del mio medico, che chiameremo Anna: avevo cinque anni, ero seduta in una sala d’attesa tappezzata di foto di bambini sorridenti, l’odore di disinfettante e caramelle per i bimbi più “coraggiosi”, quelli che si facevano la puntura senza piangere, per intenderci. Era giugno o forse luglio e faceva un caldo terribile, mi stavo annoiando a morte mentre aspettavo di essere visitata e stavo contando tutte le foto appese al muro. Ad un tratto Anna, capelli biondi cortissimi, molto alta e corpulenta, mi guarda e ghignando dice “guardati allo specchio, sei una vacca”. Avevo cinque anni. Io me lo ricordo ancora, come fosse ieri. 

Adesso che ci penso c’è una terza persona, il mio professore di educazione fisica delle medie, che un giorno ha deciso di esordire, tristemente, così: “Avanti Diana, muoviti, lo so che vorresti essere più magra”. 

E così vi sto riportando tutti gli stronzi che hanno fatto parte della mia vita, sin dalla tenera età. Tutti i miei “sei educata, intelligente, MA SEI GRASSA…”. Quelle che ho citato sono persone adulte. persone che avrebbero dovuto educarmi al rispetto per me stessa, che avrebbero dovuto complimentarsi per il mio modo di essere e non per il mio aspetto. 

L’altro mostro, Divano Bianco, non è proprio un mostro. È più uno stato d’animo al quale ho deciso di affibbiare un nome strano: “mi sento divano bianco”, per dire “mi sento abbandonata”. Sentirsi divano bianco, per una bambina circondata da persone troppo attente all’aspetto e troppo poco allo spirito, è cosa all’ordine del giorno. Ed io sono sempre stata divano bianco, quando invece avrei semplicemente voluto essere ascoltata, apprezzata per quel che ero. 

E così, me li sono portata dietro questi due amici mostri fino all’età adulta. Uno siede al lato destro, l’altro al lato sinistro. Spesso, prendono il caffè insieme, altre volte si scontrano per capire chi deve prevalere sull’altro. In mezzo a loro, ci sono io. 

Una postilla, doverosa: ho imparato, in questi brevi 23 anni di vita, che tutti sanno sentire, ma pochissimi eletti riescono davvero ad ascoltarti. Ed io di persone capaci di ascoltare, ad oggi, ne ho incontrate davvero troppe poche. E lo so, perché storia di un corpo non è soltanto la storia dell’involucro che ricopre il mio spirito, è la mia storia, e in pochi sono riusciti fino in fondo a capire cosa voglio dire quando scrivo: non è voglia di riconoscimento, riscatto, autocommiserazione. Niente di tutto questo. Io voglio soltanto comunicare che le parole hanno un peso specifico, molto più grande rispetto a quello di un corpo. 

Le parole, quelle sì, che vanno pesate. Accuratamente. 

Voglio soltanto far sentire meno sole le persone che non riescono a sentirsi apprezzate per quello che sono davvero DENTRO, non fuori. E vorrei anche dirvi che lì fuori il mondo è pronto per cambiare, è pronto ad ascoltare, ma vi direi una bugia enorme. Posso dirvi, però, che potete ascoltarvi voi. Potete stare seduti in una stanza e ascoltare attentamente cosa ha da dirvi il vostro corpo, potete perdonarvi per tutte le volte che non siete stati voi stessi in grado di ascoltarvi, per tutte quelle volte che vi siete rifiutati e non vi siete amati; per tutte quelle volte i vostri mostri hanno preso il sopravvento.

Noemi Diana

 

Se non posso guardare avanti allora guardo dentro: il valore terapeutico dei sogni in quarantena

Mi è capitato di rendermi conto che, in questi giorni di lockdown, sogno molto di più. O meglio, i miei sogni si sono fatti più vividi, intensi, e quando mi risveglio riesco a ricordarli più facilmente. E quasi sempre essi mi hanno catapultato indietro nel tempo, in situazioni scomode del passato, che sono state faticose da affrontare, o semplicemente di difficile comprensione. Il giorno mi sento magari serena, tranquilla, produttiva; la notte il mio inconscio dà sfogo a tutte le preoccupazioni. Sogno spesso di relazionarmi con persone che non fanno più parte della mia vita, oppure di vivere situazioni comuni della mia quotidianità pre-quarantena, ad esempio università, scuola di ballo, incontri con amici, ma con il terrore di essere contagiata. Ho pensato allora che, non avendo nessuna certezza del futuro, non potendo proiettare il nostro pensiero verso il domani e quel che verrà, allora quel che ci rimane non è altro che pensare a ciò che abbiamo ora, a quello che abbiamo lasciato indietro, e magari dare alle nostre esperienze una nuova chiave di lettura, perché no, anche attraverso i sogni. 

Mi sono documentata su questa cosa dei sogni e della quarantena, e sono uscite fuori cose molto interessanti. Ma prima andiamo ad analizzare i principali impatti psicologici che la quarantena può avere su di noi. 

L’IMPATTO PSICOLOGICO DELLA QUARANTENA

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Innanzitutto c’è da dire che, per evitare la diffusione di un virus, in mancanza di soluzioni tempestive, l’unico mezzo sembra essere quello della quarantena. La quarantena consiste nel limitare il raggio d’azione delle persone esposte a malattie contagiose, per monitorare se a loro volta hanno contratto il virus. La finalità è quella di limitare l’introduzione della malattia infettiva e la diffusione dell’agente patogeno. 

Naturalmente, però, anche la quarantena ha risvolti psicologici a breve e lungo termine, ed è lecito domandarsi quali siano, e come poterli arginare al meglio. 

Qualche giorno fa mi sono imbattuta in una ricerca molto interessante di The Lancet, apparsa per la prima volta il 26 Febbraio 2020 e intitolata “The psycological impact of quarantine and how to reduce it: rapid review of the evidence”. 

La review si focalizza, appunto, sull’impatto psicologico della quarantena, e i suoi potenziali effetti sulla salute mentale. Per farlo si basa sui risultati provenienti da 24 studi, svolti in 10 nazioni e condotti su persone affette da SARS (= severe acute respiratory syndrome), Ebola, MERS (= middle east respiratory syndrome), influenza H1N1 e influenza equina. Per ognuna di queste sindromi era stata adottata la quarantena come forma di contenimento. Tra questi, spicca uno studio svolto sul personale medico impegnato nell’emergenza SARS e sottoposto a quarantena. Nove giorni dopo la fine della quarantena, i medici riportavano sintomi quali sfinimento, distacco dagli altri, ansia, irritabilità, insonnia, poca concentrazione, indecisione, evitamento, peggiori performances di lavoro, riluttanza a lavorare e considerazione di dimissioni. Tutti sintomi compatibili con il disturbo acuto da stress. Nel disturbo acuto da stress, le persone hanno vissuto un evento traumatico, sperimentandolo direttamente o indirettamente. I soggetti possiedono ricordi ricorrenti del trauma ed evitano gli stimoli che glielo riportano alla mente. I sintomi compaiono entro 4 settimane dell’evento traumatico e durano almeno 3 giorni ma, diversamente dal disturbo post-traumatico da stress, non più tardi di 1 mese. 

In alcuni dei casi analizzati nello studio però, i sintomi sono stati osservati anche tre anni dopo il periodo di quarantena. 

Un altro studio comparava i sintomi da stress-post traumatico in genitori e bambini sottoposti a quarantena, con quelli di genitori e bambini non sottoposti a quarantena, con risultato che i livelli di stress dei primi erano quattro volte più alti e il 28% dei genitori sottoposti a quarantena riportava sintomi sufficienti da giustificare una diagnosi di disordine mentale correlato ad un trauma, rispetto al 6% dei genitori che non erano stati in quarantena. 

In generale si è dimostrato che un importante fattore di rischio è costituito dalla pre-esistenza di problematiche legate all’ansia, che possono aggravare le paure e lo stress. 

Altri fattori stressanti che si è visto possono scaturire nel periodo della quarantena e in quello immediatamente successivo, e che vanno tenuti in considerazione per poterne limitare gli effetti negativi sono: 

  • PAURA DELL’INFEZIONE 
  • FRUSTRAZIONE E NOIA 
  • INFORMAZIONE POCO CHIARE O INADEGUATE 
  • PREOCCUPAZIONI A LIVELLO SOCIO-ECONOMICO

Per affrontare la quarantena il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi ha fornito alcuni suggerimenti utili: 

  • INSTAURARE NUOVE ABITUDINI, RIDUCENDO I MOMENTI DI NOIA 
  • RISCOPRIRE LE PROPRIE PASSIONI 
  • RIMANERE IN CONTATTO CON PERSONE A NOI CARE 
  • EVITARE LA RICERCA COMPULSIVA DELLE INFORMAZIONI 

SOGNI E QUARANTENA

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Per quanto concerne i sogni, sembra proprio che non sia solo una mia impressione ma che essi, nel periodo della quarantena, si siano fatti più intensi, più lunghi e più facili da ricordare. Come è possibile? 

Primo motivo: dormiamo di più e per questo si è allungata e intensificata anche la fase REM (= rapid eye movement), chiamata così per essere la fase del sonno più profondo, in cui compaiono i classici movimenti oculari e sorgono anche i sogni più vividi. In questa fase, curiosamente, il cervello mostra la stessa attività di quando è sveglio. 

Secondo motivo: non ci risvegliamo in modo traumatico, con una sveglia che ci impone di scattare in piedi e per questo abbiamo più tempo per passare dal sonno al dormiveglia e poi allo stare in piedi; in questo passaggio il nostro cervello consolida meglio i ricordi di ciò che abbiamo sognato, anche con la giusta sequenza. 

Terzo motivo, ma non meno importante: il momento che stiamo passando, come abbiamo detto già precedentemente, ha cambiato drasticamente il nostro modo di stare al mondo, ansie, incertezze e paure sono moltiplicate. In generale le persone che hanno subìto un forte trauma tendono a ricordare meglio i loro sogni, come aveva dimostrato uno studio in seguito al crollo delle Torri Gemelle a New York. 

In questo periodo, quindi, i nostri sogni possono essere più inquietanti, carichi di simbolismi e strane rappresentazioni della realtà. La ricerca da tempo suggerisce che il contenuto dei nostri sogni sia legato al nostro modo di pensare da svegli. Poiché durante la quarantena la nostra vita si è ridotta alle dimensioni di poche stanze, abbiamo molto meno stimoli quotidiani a cui attingere e inconsciamente andiamo a scavare nel passato. Non dobbiamo preoccuparci, quindi, se il nostro occhio, o meglio, in questa occasione, il nostro cervello non sa guardare oltre. Non dobbiamo colpevolizzarci se ci sembriamo ancorati al passato o alle paure del presente. Anzi, una delle funzioni terapeutiche più note dei sogni è quella del problem solving: attraverso il sogno possiamo capire come risolvere un problema che non eravamo riusciti a scardinare. Il sogno può indicarci una chiave di lettura che non avevamo prima, e sciogliere alcuni interrogativi. 

Per non sprecare questo piccolo ma grande “tesoretto” dei sogni, Deidre Barrett, psicologa della Medical School Harvard, ha creato un blog, I dream of Covid”, con relativa pagina Instagram @idreamofcovid, nel quale chiunque può inserire il proprio sogno. Barret li classifica a seconda della zona di provenienza e argomenti e li accompagna a un disegno che evoca la natura del sogno. La psicologa si è lasciata ispirare dal lavoro della giornalista Charlotte Brandt durante i primi anni del nazismo: si fece raccontare i sogni di persone che vivevano col terrore che al potere arrivasse Hitler, e nel 1966 pubblicò un best seller mondiale, “Il Terzo Reich dei Sogni”. 

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Giorgia Andenna

SITOGRAFIA: 

Storia di un corpo

In queste settimane mi sono interrogata, mi sono chiesta perché non riuscissi a scrivere di Grassofobia. Poi ho deciso di consultarmi con la mia psicologa: era lampante, effettivamente; non riesco a parlarne perché mi riguarda in prima persona. Non riesco a parlarne perché io sono grassa e lo sono sempre stata, sin dalla tenera età. E sin da allora sono stata indottrinata in modo da odiare il mio corpo. Anch’io sono stata una grassofobica. Forse, lo sono ancora.

Tutti si chiedono che cosa sia questa strana fobia, cercherò di spiegarlo in poche parole, anche se l’argomento richiederebbe pagine e pagine, infiniti caratteri di word.

La grassofobia è, banalmente, la paura delle persone grasse. Ma non solo. È paura di ingrassare, pesarsi continuamente, costringersi a folli regimi alimentari. È provare schifo nei confronti del proprio corpo, nello stare nudi. Grassofobico è chi rifiuta che possano esistere dei corpi grassi, che le persone grasse possano avere una vita sessuale (si, arriviamo anche a questi livelli). Grassofobica è la nostra società, da sempre. 

Come se ne esce da questo infinito loop? Io credo che soltanto una persona qualificata (e tanta forza di volontà) possano portarci a fare qualcosa per noi stessi.

Attenzione, accettazione non significa fregarsene delle proprie condizioni di salute. E su questo va fatta chiarezza. Non tutte le persone grasse, perché appunto tali, sono malate. Non è così. E non sono io a dirlo.

Quando avevo 14 anni un ragazzo mi disse “hai un viso bellissimo, ma purtroppo sei grassa”, mi ha (inconsapevolmente) distrutta. Da quel momento in poi sono entrata ancora di più nell’infinito loop di odio nei miei confronti. Mi facevo schifo, mi guardavo allo specchio e piangevo, stringevo forte tra le dita i miei rotoli come a volerli strappare via. Ho sempre avuto difficoltà a spogliarmi davanti alle mie amiche, ai miei fidanzati, perché pensavo di far loro schifo almeno il doppio di quanto me ne facessi io. Questi sono soltanto alcuni dei comportamenti disfunzionali che ho iniziato ad attuare. 

Oggi sono una donna di 23 anni e sto cercando di distruggere questi comportamenti. E vorrei che tutte le donne e gli uomini che stanno leggendo queste parole si sentissero abbracciate, confortate. Non siete sole. Amarsi è un percorso lungo, pieno di insidie ed ostacoli, ma prima o poi, arriveremo in cima e da lì lo spettacolo sarà splendido. Amatevi per ciò che siete. 

Noemi Diana

Dipendenza o ansia sociale? Cos’è la FOMO e come gestirla

Quante volte ci siamo sentiti ripetere “e molla quel telefono!” da parte dei nostri genitori? O meglio ancora, quante volte, anche in compagnia dei nostri amici, ci siam visti passare interi quarti d’ora incollati allo schermo del telefono, intenti semplicemente a curiosare sulla nostra home di Instagram o di Facebook? E quante volte ancora ci siamo ritrovati in zone in cui il telefono è privo di connessione, e siamo stati assaliti da un’ondata di panico dovuta al non poter restare in contatto con gli altri?

Molto spesso la nostra dipendenza da smartphone o, meglio, dipendenza da social, non è altro che una forma d’ansia sociale: la “paura di esser tagliati fuori”, scientificamente chiamata FOMO, fear of missing out.

La FOMO consiste nel preoccuparsi eccessivamente riguardo il venir esclusi da eventi sociali, ed è perciò strettamente collegata all’uso compulsivo dello smartphone e al controllo maniacale dei social network: è ciò che ci spinge a desiderare ossessivamente di monitorare in continuazione ciò che viene pubblicato dai nostri amici per poter rimanere sempre aggiornati su ciò che accade nelle loro vite.

È scontato dire che i giovani, in particolar modo gli adolescenti, sono i più suscettibili a questo disturbo: chi si trova nel pieno della propria adolescenza sente il bisogno di comunicare con i propri coetanei molto più che con i genitori, tanto che il venir tagliati fuori da avvenimenti sociali considerati gratificanti può portare anche a soffrire di sindromi depressive.

Secondo lo studio del centro americano Kleiner Perkins Caufield & Byers’s un utente medio controlla il telefono circa 150 volte al giorno, vale a dire ogni 6 minuti; moltissimi sono inoltre coloro che controllano la posta elettronica ed i propri profili social appena aprono gli occhi al mattino (ma, d’altronde, chi non lo fa?). Chi di noi, per di più, non dorme con il telefono acceso o comunque a portata di mano, non lo porta con sé in bagno, o non controlla le proprie notifiche se si sveglia nel cuore della notte? Lo smartphone è ormai diventato parte integrante delle nostre giornate, e proprio il vivere in una società digitale come la nostra ha portato la FOMO a diventare virale e ad espandersi a macchia d’olio, nonostante esistesse da molto prima che i social facessero la propria comparsa. Il problema è stato recentemente approfondito e proprio su Twitter è ora disponibile l’account @FOMO che offre consulenze online a tutti coloro che sono coscienti del proprio disturbo e che chiedono aiuto. Lo psicologo John Grohol sostiene che per gli affetti di FOMO comunicare è più importante della vita stessa, che mettono quotidianamente a repentaglio al volante (tra le principali cause di incidenti) ma anche camminando a piedi e attraversando la strada distrattamente.

I Paesi più colpiti sono sicuramente la Corea del Sud, la Cina, il Giappone e l’America, ma anche in Europa si registrano numeri rilevanti, fatta eccezione per la Germania.
Ciò che psicologi ed esperti consigliano per cercare di gestire al meglio il disturbo e ridurre il tempo trascorso giornalmente sui social è essenzialmente quello di praticare attività che ci fanno “staccare la spina” e lasciare il telefono in un angoletto: coltivare le relazioni interpersonali “dal vivo” preferendole a quelle virtuali, dedicarsi agli hobby più disparati, fare esercizio fisico (anche all’aperto) e cercare di viversi al meglio ogni momento, accettando che ci sarà sempre qualcosa che ci sfuggirà. Un altro consiglio utile è infatti quello di praticare sessioni di mindfulness, che riportano il soggetto al momento presente, senza far divagare la testa verso il futuro o il “e se”: è fondamentale concentrarci su quel che stiamo facendo affinché tutte le nostre energie vengano incanalate in un’unica attività e quindi protratte verso un unico obiettivo (è importante lavorare su una cosa alla volta, senza cercare di concentrarci su più cose contemporaneamente: ciò potrebbe rivelarsi altamente controproducente). Per tentare di incrementare la concentrazione esistono inoltre molte applicazioni utili da poter installare sul proprio smartphone, che possono aiutarci a tenere il telefono lontano quando stiamo facendo qualcosa di importante o per la quale non vogliamo distrarci.
Tenendo sempre conto che i nostri social sono la nostra “vetrina” personale sulla società e sul mondo, è anche raccomandata l’eliminazione dal nostro profilo di qualsiasi persona che ci induce per qualche motivo a provare ansia, rabbia, gelosia, o qualsiasi altra emozione negativa, così che scorrendo la nostra home non incapperemo in post che potranno generare in noi vibrazioni ostili. Cerchiamo di rendere il più produttivo e sereno possibile il nostro “soggiorno” sui social e soprattutto la nostra vita reale di tutti i giorni: possiamo e dobbiamo salvaguardare la nostra salute mentale, a partire da oggi!

Francesca Moreschini

SITOGRAFIA: