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Tè verde: quando il troppo stroppia

Durante l’inverno amiamo riscaldarci con qualche bevanda calda. Una delle bevande più amate è il tè verde.

Il tè verde è noto per i suoi numerosi benefici sulla salute e per le sue molteplici proprietà. Questa bevanda è stata importata dall’Oriente e ne esistono molte varianti, come quella cinese o vietnamita, e si ottiene per infusione delle foglie della pianta Camellia sinensis o Camellia theifera o Thea sinensis della famiglia delle Teacee.

Il tè verde è conosciuto soprattutto per la sua azione antiossidante. In particolare, il suo potenziale antiossidante è associato all’elevato contenuto di catechine che sono delle sostanze appartenenti alla categoria dei flavonoidi. Tra queste sostanze la più abbondante è chiamata epigallocatechina gallato (EGCG) ed è importante per le sue proprietà antiossidanti, cioè di proteggere le cellule dai danni provocati dai radicali liberi e proprietà antimutageniche. Questo polifenolo apporterebbe benefici anche al sistema cardiovascolare inibendo la formazione di coaguli e riducendo la presenza di grassi nel sangue. Il tè verde, inoltre, aiuta a dimagrire perché contiene le metilxantine (caffeina, teobromina, teofillina) che riducono l’assorbimento degli zuccheri e stimolano l’eliminazione dei grassi dagli adipociti.

Non tutte le persone, però, possono assumere questa bevanda a causa dei suoi effetti. Tra le persone che dovrebbero bere il tè verde con cautela sono coloro che soffrono di anemia e grazie ad uno studio dell’Istituto di Clinica Medica Generale dell’Università di Verona siamo a conoscenza di un caso clinico durato svariati anni, dal 1989 al 1994. Si trattava di una paziente anemica, di 25 anni, normopeso con un BMI di 23 che iniziò il suo trattamento nell’agosto del 1989. Inizialmente le diedero un integratore di ferro e la sua emoglobina da un valore iniziale di 9 g/dL raggiunse i 13 g/dL. Questa ascesa però non durò molto, poiché per anni i valori dell’emoglobina non riuscivano a stabilizzarsi così le fecero anche un trattamento ormonale per ridurre le perdite mestruali, ma non osservarono nessun cambiamento positivo. Nel luglio del 1994, oltre al trattamento farmacologico, controllarono le sue abitudini alimentari e scoprirono che la ragazza beveva 1.5 litri di tè al giorno e aveva sostituito tutte le altre bevande con il tè. 

Uno degli effetti delle catechine del tè verde è quello di ostacolare l’assorbimento del ferro, quindi una persona anemica o che mangia poca carne o pesce, può andare incontro ad un’anemia indotta da un eccessivo consumo di tè verde. Un altro effetto collaterale dei polifenoli del tè verde è quello di inibire alcuni enzimi come è stato dimostrato in vari studi.

Quindi, la quantità che si ingerisce di tè verde è molto importante poiché oltre a questi effetti collaterali appena descritti, ce ne sono tanti altri come l’effetto eccitante di questa sostanza che potrebbe dare problemi di ansia, palpitazioni e aritmie. Oppure, dato il contenuto di fluoro, utile per rafforzare le unghie e le ossa, quando la quantità di questo è elevata  potrebbe causare delle malattie a carico dell’apparato osseo e fluorosi dentale.

La quantità di tè verde da introdurre nel nostro organismo è quindi fondamentale, va dosata e non va sostituita alla dose di acqua giornaliera per non andare incontro a  problemi di stomaco, di insonnia, di pressione e problemi al fegato come affermano dei recenti studi sull’epatotossicità associata al consumo di preparazioni a base di tè verde. 

L’EFSA (European Food Safety Authority) ha valutato la sicurezza delle catechine del tè verde come alimento concludendo che se assunte sotto forma di integratori alimentari, le catechine a dosi pari o superiori a 800 mg/giorno possono rappresentare un problema per la salute. Per tutelare ulteriormente i consumatori, gli esperti hanno proposto un’etichettatura più chiara dei prodotti a base di tè verde, specificando il contenuto di catechine e i rischi per la salute.

Francesca Motta

FONTI:

http://www.efsa.europa.eu/it/press/news/180418

https://www.farmacovigilanza.eu/content/le-rare-malefatte-del-t%C3%A8-verde

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/8647516/

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/27747873/

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Dipendenze, rischi e COVID-19

In questo periodo di pandemia, a causa dell’isolamento e del forte stress, le dipendenze da sostanze come alcol,  tabacco e droghe hanno subito un forte incremento in tutto il mondo, in un momento in cui i servizi di supporto sono stati poco agibili e si sono dimostrate fattori di aumento di rischio in caso di contrazione del virus COVID-19.

Al contrario della notizia che  – più o meno scherzosamente – circolava durante la pandemia, il consumo di alcol non solo non impedisce di essere infettati, ma aumenta il rischio di infezione. L’alcolismo infatti, compromette il sistema immunitario e riduce la capacità di affrontare malattie infettive; aumenta inoltre il rischio di sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), che è una delle complicazioni più gravi del COVID-19. Per questo motivo  le persone che bevono dovrebbero ridurre al minimo il consumo di alcol, in particolare coloro che hanno una condizione di salute generale già compromessa.

Anche il tabagismo rappresenta un fattore di rischio, perché come ha rilevato l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), per fumare una sigaretta si avvicinano alla bocca sia le dita sia la sigaretta che potrebbero essere infette e trasmettere quindi il virus. 

Secondo alcuni studi, i fumatori positivi al COVID-19 al momento del ricovero presentano generalmente una situazione clinica più grave dei non fumatori e una maggiore probabilità di aver bisogno della terapia intensiva e di ventilazione meccanica. Questo è dovuto al fatto che il fumatore (o ex fumatore) può aver già sviluppato una malattia polmonare o avere una ridotta capacità polmonare. Quindi, in questo periodo interrompere il consumo di qualsiasi prodotto del tabacco sarebbe la scelta migliore. Non è facile smettere di fumare, specialmente durante una situazione di emergenza come quella che stiamo vivendo, che ci costringe a rimanere in casa per più tempo e a vivere situazioni di forte stress generato dai cambiamenti delle abitudini quotidiane. 

Anche il consumo di sostanze stupefacenti può diventare un veicolo del virus per lo  scambio degli oggetti utilizzati che potrebbero essere contagiati. 

Inoltre, il National Institute on Drug Abuse (NIDA) ha evidenziato che i consumatori di oppiacei, di oppioidi sintetici e di metanfetamina, per gli effetti che queste sostanze hanno sull’apparato respiratorio, sono più esposti alle complicazioni del virus, infatti gli oppiacei e/o oppioidi agiscono sul tronco encefalico riducendo la frequenza respiratoria e il loro consumo può anche causare una pericolosa riduzione del livello di ossigeno nel sangue. 

Anche una dipendenza da metanfetamina può essere molto rischiosa perché la molecola ha un effetto costrittore sui vasi sanguigni e può contribuire sia al danno polmonare che all’ipertensione. 

Dunque, è fondamentale garantire che i servizi per le tossicodipendenze, per l’alcolismo e per le altre dipendenze diffondano messaggi sulla prevenzione per ridurre il rischio di infezione e per proteggere le persone più vulnerabili, in questo periodo in cui queste persone sono più fragili sia fisicamente che psicologicamente.

Francesca Motta

SITOGRAFIA:

Anticorpi monoclonali: istruzioni per l’uso

Il 1975, anno in cui fu fondata la Microsoft, in cui finalmente terminò la guerra del Vietnam e nel quale il primo videogioco entrò nelle case della gente, dovrebbe essere ricordato anche per un altro evento fondamentale, che cambiò per sempre la vita di noi tutti. In quell’anno un gruppo di ricerca del Rockefeller Institute di New York, in cui si trovarono a collaborare César Milstein and Georges Köhler, generò i primi anticorpi monoclonali. 

Milstein e Köhler erano due esperti di settori diversi che, trovandosi a collaborare, fusero insieme le loro conoscenze per generare una nuovissima tecnica con la quale, da allora in poi, vennero prodotti anticorpi monoclonali.

Questi anticorpi sono oggi una delle migliori risorse terapeutiche nella lotta a diverse patologie come il cancro, le malattie infiammatorie croniche, i trapianti ed anche malattie infettive (sicuramente da menzionare sono quelli recentemente sviluppati contro il COVID-19). 

Ma cosa sono questi anticorpi monoclonali e come funzionano? 

Bisogna partire dalle basi per comprenderli: ricorderete sicuramente che il nostro sistema immunitario, quando genera una risposta contro un patogeno o un agente estraneo, produce anche gli anticorpi. Questi ultimi sono in grado di legare in modo specifico l’intruso e di richiamare altre cellule del sistema immunitario per distruggerlo. 

Gli anticorpi monoclonali, iniettati all’interno dell’organismo, funzionano come gli anticorpi prodotti dallo stesso, dirigendo le cellule del sistema immunitario verso uno specifico target. Quindi è come se allertassero il sistema immunitario della presenza di un agente estraneo (o non gradito) e lo attivassero al fine di distruggerlo.

La scoperta epocale effettuata nel 1975 è che è possibile produrre in laboratorio anticorpi diretti verso un singolo target. Infatti, il motivo per il quale quei due signori dovrebbero essere ricordati e per il quale hanno preso il Nobel nel 1984, è che hanno prodotto la primissima provetta di quello che sarebbe poi diventato un usatissimo farmaco biologico: l’anticorpo monoclonale. Come per le scoperte più interessanti ma poco immediate, la comunità scientifica non ha subito compreso che con questi anticorpi si potessero trattare un’infinità di patologie, al contrario, all’inizio non hanno dato molto credito alla scoperta. Dopo pochi anni però, questa uscì dal dimenticatoio e fu rivalutata tanto che a Milstein e Köhler venne assegnato il Nobel.

Il Bamlanivimab, il cui nome impronunciabile eguaglia quello di un demone azteco, è in realtà il primo farmaco composto da due anticorpi monoclonali diretti contro il COVID-19 prodotto dall’azienda Eli Lilly. La Food and Drug Administration (FDA), ente statunitense per l’approvazione dei farmaci, ha concesso l’utilizzo d’emergenza di questo farmaco per pazienti con sintomi lievi e moderati. Questo farmaco non ha però avuto grandi risultati nel trial clinico di fase II (chiamato BLAZE-1). Infatti, in questo studio si è osservato che l’utilizzo del Bamlanivimab non ha grandi effetti sulla riduzione della quantità di virus nei pazienti e nemmeno sui sintomi. Quello che ha permesso all’FDA di approvare questo farmaco decisione è stata il dato sulla percentuale di pazienti ospedalizzati che era alquanto ridotta nei pazienti trattati rispetto al gruppo di controllo (al quale non è stato dato alcun farmaco). Una grossa problematica di questo trial clinico è che il numero di soggetti è troppo ridotto (500 totali) ed i risultati ottenuti potrebbero semplicemente essere casuali e non essere correlati all’utilizzo del farmaco. Un altro lato negativo è che questo farmaco presenta effetti collaterali anche gravi come anafilassi, nausea, diarrea ed altre… I pazienti quindi sottoposti al trattamento dovrebbero essere monitorati da vicino per controllare il loro stato, cosa che richiederebbe l’utilizzo di posti letto (carenti in questo periodo).

Fortunatamente ci sono 11 altri anticorpi monoclonali attualmente in trials clinici ed oltre 150 nelle fasi più precoci di scoperta. Da sottolineare è l’azienda Regeneron che ha prodotto un anticorpo monoclonale in grado di ridurre il quantitativo di virus nell’organismo. 

Per concludere, gli anticorpi monoclonali sono un ottimo farmaco per diverse malattie ma, come tutti gli altri farmaci, ha effetti collaterali che dovrebbero essere minori rispetto ai benefici apportati all’individuo.

Ilaria Serangeli

Per i più interessati:

  • Jones B, Brown-Augsburger P, Corbett K, et al. LY-CoV555, a rapidly isolated potent neutralizing antibody, provides protection in a non-human primate model of SARS-CoV-2 infection. bioRxiv. Published online October 1, 2020. doi:10.1101/2020.09.30.318972
  • Chen P, Nirula A, Heller B, et al. SARS-CoV-2 Neutralizing Antibody LY-CoV555 in Outpatients with Covid-19. N Engl J Med. Published online October 28, 2020. doi:10.1056/NEJMoa2029849
  • DeFrancesco, L. COVID-19 antibodies on trial. Nat Biotechnol 38, 1242–1252 (2020). https://doi.org/10.1038/s41587-020-0732-8

Forbici molecolari: si può riscrivere il codice della vita?

Pochi giorni fa è stato assegnato il premio Nobel per la chimica ad Emmanuelle Charpentier e Jennifer A. Doudna per aver inventato un metodo per modificare con precisione il DNA. Ma cosa significa davvero “modificare il DNA” e quali conseguenze potrebbe portare un utilizzo di questa tecnica su larga scala? A molti verrà in mente uno scenario distopico con migliaia di bambini biondi con gli occhi azzurri che marciano in fila ma non è proprio questo lo scopo per il quale saranno utilizzate queste forbici molecolari.

Facciamo un passo indietro, cosa sono le forbici molecolari e a cosa ci servono?

Le forbici molecolari, tecnicamente chiamate CRISPR/Cas9, sono state inizialmente osservate nei batteri, nei quali funzionano come “sistema immunitario” contro i virus dei batteri (batteriofagi, per gli amici fagi). Queste forbici sono in grado di riconoscere con molta precisione specifiche sequenze di DNA e di andare ad effettuare una specie di taglia e cuci, andando a rimuovere un pezzo ed inserendone un altro. L’intuizione geniale delle due ricercatrici, che ha permesso loro di vincere il premio Nobel, è stata di prendere questo sistema dei batteri ed utilizzarlo in altri organismi per modificare in modo mirato il DNA.

Cosa ci possiamo fare?

Dalla pubblicazione del lavoro delle due ricercatrici su Science nel 2012 l’impatto è stato enorme, tutti hanno iniziato a richiedere di utilizzare questo sistema nei propri laboratori con lo scopo di utilizzarlo come alternativa a tecniche di ricerca di base obsolete ma anche in alcune applicazioni cliniche. Queste forbici molecolari, dal 2012 in poi, sono sempre state sulla bocca di tutti perché sono veloci, affidabili e a prezzi contenuti per il mondo della ricerca ($75). La portata di questo fenomeno è stata tale che alcuni ricercatori hanno creato una rivista ad hoc, chiamata CRISPR Journal, che pubblica solo articoli che hanno utilizzato questa tecnica.

Ma entriamo nel pratico: le forbici molecolari oggi vengono utilizzate tantissimo nella ricerca di base ed anche in alcune applicazioni cliniche. Nella ricerca di base è comune modificare il genoma delle cellule utilizzate o di organismi modello per capire che effetto hanno le mutazioni sulle stesse e alla fine per scoprire come queste mutazioni portano ad una patologia umana. L’utilizzo di queste forbici molecolari ha rivoluzionato il modo di fare ricerca: essendo molto più veloci nel generare e riparare mutazioni in siti specifici del genoma, hanno permesso che la ricerca facesse passi da gigante in pochissimo tempo.

Sono poi tantissime le applicazioni cliniche: c’è un consorzio chiamato CRISPR Therapeutics che sta effettuando sperimentazioni al fine di utilizzare questa tecnica per curare malattie come la ß- talassemia, alcuni tumori e molte patologie genetiche. In particolare, in alcuni trials clinici, risalenti a Febbraio 2020, le forbici molecolari vengono utilizzate per potenziare l’abilità di alcune cellule del sistema immunitario di scovare ed attaccare i tumori. In pratica, questa tecnica permette di aumentare le capacità del sistema immunitario dell’individuo di combattere i tumori. C’è da sottolineare che i primi risultati di questi studi sono positivi.

La cosa ancor più bella è che per la prima volta nella storia il Nobel è stato dato a due donne. Molto spesso in questo ambito il lavoro delle donne non è stato riconosciuto, come è successo per Rosalind Franklin per la scoperta della struttura del DNA e per molte altre, ma questa volta gli onori sono andati a due persone capaci e direi geniali, al di sopra di ogni pregiudizio di genere.

Ilaria Serangeli

Sono poi tantissime le applicazioni cliniche: c’è un consorzio chiamato CRISPR Therapeutics che sta effettuando sperimentazioni al fine di utilizzare questa tecnica per curare malattie come la ß- talassemia, alcuni tumori e molte patologie genetiche. In particolare, in alcuni trials clinici, risalenti a Febbraio 2020, le forbici molecolari vengono utilizzate per potenziare l’abilità di alcune cellule del sistema immunitario di scovare ed attaccare i tumori. In pratica, questa tecnica permette di aumentare le capacità del sistema immunitario dell’individuo di combattere i tumori. C’è da sottolineare che i primi risultati di questi studi sono positivi. La cosa ancor più bella è che per la prima volta nella storia il Nobel è stato dato a due donne. Molto spesso in questo ambito il lavoro delle donne non è stato riconosciuto, come è successo per Rosalind Franklin per la scoperta della struttura del DNA e per molte altre, ma questa volta gli onori sono andati a due persone capaci e direi geniali, al di sopra di ogni pregiudizio di genere. Ilaria Ser

“L’oro rosa”

Depressione? Problemi ai reni? Disfunzione erettile?
Se pensate che un farmaco possa risolvere questi problemi vi sbagliate! La soluzione di questi e di altri grandi problemi dell’umanità è tutta nascosta nella molecola del sale rosa dell’Himalaya panacea, di ogni male sotto forma di un gradevole condimento.

Cercando su internet le proprietà di questo sale sembrano infinite. Infatti siti come http://www.curarsiconibroccoli.com o http://www.Icattividellecasefarmaceutiche.net, si trovano elencati gli effetti di questa meraviglia, tra i quali riporto: migliorare il sonno, contrastare l’invecchiamento, guarire le infezioni e le verruche, salvaguardare il rene, migliorare il desiderio e la performance sessuale.
Come si spiegano tutte queste mirabolanti proprietà? Le motivazioni sono due: la prima è che è un sale “antico”, deriva da oceani primordiali che si sono prosciugati,  un po’ come la lavatrice che sta da trenta anni in casa vostra ed è buona perché di cose come le facevano tanti anni fa non se ne vendono più, adesso scade la garanzia e sono da buttare. La seconda motivazione, molto più credibile scientificamente, è che il sale contiene diversi micronutrienti, tra cui rame, zinco, cadmio, nichel, manganese, piombo, cobalto, tellurio, bario e alluminio, ovvero metalli che a meno che non siate un televisore al plasma o un treno a levitazione magnetica, sono sostanzialmente inutili o tossici.
Queste sostanze si trovano comunemente come oligoelementi in quasi tutti gli alimenti e le piccolissime quantità che ci servono per utilizzarli come coenzimi sono ampiamente supplite da una dieta normale. Altre sostanze, come il tellurio o il piombo, sono tossiche e ad alte dosi mortali.

Per quanto concerne il ferro, le quantità contenute sono irrisorie e poco assorbitili, infatti un piatto di pasta e fagioli con un agrume a fine pasto (per consentire l’assorbimento di ferro) dà quantità enormemente maggiori del minerale. Infine tra tutti i micronutrienti del sale rosa manca purtroppo lo iodio, oligoelemento fondamentale per la produzione di ormoni tiroidei la cui carenza in Italia riguarda una grande fascia della popolazione. Ciò crea problemi di endemia gozzigena già in età scolare. Il gozzo in Italia riguarda più del 10% della popolazione, che andrà incontro a squilibri endocrini tiroidei. L’introduzione obbligatoria del sale iodato nel 2005 non ha risolto questo problema, perché c’è molto più gusto a spendere  2,50 euro al kilo per un intruglio magico che, 0,60 per qualcosa con comprovati benefici.

Vogliamo parlare del fatto che questo sale salvaguarda i reni? Il perché rimane inspiegabile a noi mortali, in quanto la molecola di base NaCl (cloruro di sodio) è esattamente la stessa del sale normale che, come è noto, non è un toccasana per il nostro sistema cardiocircolatorio. Tra l’altro il sapore del sale dell’ Himalaya viene definito come particolarmente delicato, il che presuppone che per ottenere lo stesso grado di sapidità se ne usi di più del sale normale superando quindi il dosaggio consigliato da cardiologi e nefrologi! Bisogna riconoscere però un ruolo fondamentale del sale dell’ Himalaya nel garantire un buon sonno e nel migliorare la libido. Come? Secondo i guru del “vivere naturale” basta usarlo come condimento o per impacchi o tisane, ma non dovremmo trascurare che dai blocchi di sale si fanno delle bellissime lampade rosa che emettono luce soffusa. Queste sicuramente aiuteranno a distendere i nervi e a risvegliare i sensi più di quanto il sale possa aiutarvi a combattere congiuntiviti e verruche.

Avete dei soldi da buttare in sale rosa? Soffrite di disfunzione erettile? Bhe, investite su quelle!

Eleonora Ciocca