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Calcio e tecnologia: intervista a Gianluca Comandini

In un mio precedente articolo trattavo della possibilità che l’avvento di nuove ed avanzate tecnologie potesse in qualche modo tracciare una linea di netta demarcazione nella nostra concezione della Storia, arrivando ad ipotizzare una nuova storia, legata all’ascesa si una società in cui il progresso tecnologico ha già influenzato nettamente gli aspetti che hanno sempre accomunato uomini e donne di tutte le epoche.

Per capire  quanto effettivamente la tecnologia possa aver già pervaso la nostra esistenza ho pensato di partire, come caso di studio, da un mondo che più umano ed a tratti romantico non si può, da un qualcosa che lega indissolubilmente generazioni diverse, capace di riunire, col fiato sospeso, anche le persone più diverse. Insomma quello che per noi Italiani è una vera e propria malattia: il Calcio.

Mi sono rivolto così a chi già immagina e mette in atto progetti calcistici che marciano di pari passo con l’innovazione. Gian Luca Comandini, 31 anni, giovanissimo divulgatore tecnologico, professore universitario ed esperto di blockchain, nonché fondatore del VESTA Calcio, squadra che oggi milita in Seconda Categoria e punta in pochi anni alle leghe professionistiche. Una società calcistica fuori dagli schemi, che vede tecnologie come la blockchain e le Intelligenze Artificiali quali aspetti fondamentali del progetto.

VAR e goal line technology: due esempi più noti a tutti dell’applicazione della tecnologia al calcio. Ma oggi, con gli avanzamenti tecnologici in atto, è possibile che queste due siano le uniche implementazioni possibili? 

Assolutamente no, ed è anche assurdo aver aspettato tutti questi anni per riuscire a vedere un accenno di utilizzo di queste tecnologie che possiamo considerare appartenenti ad un’epoca passata. Il calcio ha bisogno di futuro e non possiamo aspettare decenni per applicare ogni tecnologia.

Quali nuove tecnologie possono essere applicate al mondo del calcio, sia in match, che in allenamento? Le intelligenze artificiali possono giocare un ruolo nelle fasi di preparazione al match?

Potremmo utilizzare Internet of Things e Intelligenza Artificiale per prevedere e prevenire infortuni, analizzare tecnicamente movimenti e prestazioni durante i match per poi allenarsi in maniera più accurata durante la settimana, ma anche sfruttare tante altre tecnologie come la blockchain o la realtà aumentata per migliorare performances.

A livello societario, perché la blockchain rappresenta un vantaggio ed una frontiera da perseguire per una società di calcio?

Perché ad oggi la parte più “sporca” e incisiva in questo sport rimane la gestione dei flussi finanziari. Nel 2021 non possiamo ancora essere sotto scacco per plusvalenze mascherate, sponsor fittizi e riciclaggio di denaro. Con la blockchain si può rendere il calcio trasparente e onesto.

Dalle tecnologie catapultate nel mondo del pallone, al calcio catapultato nel mondo digitale. Gli e-sports quale diffusione e riconoscimento avranno in futuro?

Lo stiamo vedendo in Asia e Usa, gli esports fanno più interazioni e più fatturato degli sport tradizionali. Tra pochi anni la situazione sarà molto simile anche nel nostro paese, addirittura sono sempre di più gli atleti professionisti che usano simulazioni e videogames per allenarsi nei rispettivi sport fisici. Non possiamo ignorare questo trend che presto raggiungerà una visibilità ben superiore al calcio.

Il mondo del calcio è ancora, spesso in modo romantico, troppo conservatore per accogliere implementazioni ad alto potenziale tecnologico?

Attualmente sì, ma le nuove generazioni stanno crescendo con punti di vista differenti, è solo questione di anni e presto avremo menti più aperte e persone pronte ad accogliere il futuro ed utilizzare le tencologie, senza alcuna paura.

Lorenzo Giardinetti

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“Allora si chiamava Avana…”: torna il cinema a Garbatella

A partire dalla riqualificazione di uno spazio abbandonato da dieci anni, le ragazze e i ragazzi di AVANA, intendono riaccendere il cuore dello storico quartiere romano di Garbatella con un cine club e una palestra di arrampicata. 

Sara e Martina ci raccontano come il progetto intenda riscoprire la micro dimensione urbana mediante il recupero di spazi abbandonati e la partecipazione attiva del quartiere. 

Questo sabato, 15 maggio 2021, aprono le porte di AVANA, com’è nato il progetto e quali sono i vostri obiettivi?

Sara: Questo sabato presenteremo il progetto, l’inaugurazione vera e propria vorremo farla in grande appena sarà possibile.
L’idea di Avana è nata prima della pandemia da Luciano Ummarino e Francesca Zanza che avevano vinto in locazione il locale, in via Giovanni Maria Percoto 6, tramite assegnazione dell’ATER.
Il progetto iniziale era di realizzare un cinema di quartiere ma, come ben sappiamo, quello dello spettacolo è stato un settore spietatamente colpito dalla crisi sanitaria, quindi abbiamo deciso sin da subito di reinterrogarci sul da farsi, partendo dal motivo originale per cui volevamo creare AVANA, cioè per fornire alla Garbatella un servizio che mancasse. 
Unendo tutte le nostre competenze, dall’architettura alla psicologia, abbiamo immaginato di trasformare lo spazio in un centro polifunzionale, con sala co-working, palestra, sala riunioni, teatro, ecc.
Da un’idea di Arianna Cabras, psicomotrice e parte dell’associazione, sfrutteremo a pieno le alte pareti dell’area cinema creando una palestra di arrampicata con l’obiettivo di rendere questo, uno spazio capace di abbattere non solo le barriere culturali ma anche quelle sensoriali, cognitive e fisiche.

L’ampia scelta di attività fa immaginare che il progetto intenda rivolgersi a un pubblico molto eterogeneo. Chi entrerà principalmente negli spazi di AVANA?

Sara: Principalmente le bambine e i bambini per la palestra ma anche studentesse e studenti che hanno bisogno di uno spazio con WiFi gratuito in cui poter studiare. Lo spazio di coworking è stato pensato proprio perché non è scontato che tutt* abbiano un luogo tranquillo dentro casa o anche semplicemente un computer. AVANA sarà anche un punto d’incontro per le famiglie, grazie al cine club, e un appoggio per le associazioni che hanno bisogno di uno spazio fisico in cui riunirsi.

Martina: Il nostro obiettivo è che il quartiere possa sentirsi partecipe a 360 gradi del progetto. Le idee delle persone, non solo quelle del gruppo esecutivo, devono essere il motore di AVANA.

I lavori, che finalmente stanno iniziando dopo il periodo della pandemia, richiedono una spesa cospicua, di cosa si tratta principalmente?

Sara: Si tratta degli interventi all’impianto idrico ed elettrico, ma soprattutto della messa in sicurezza e dell’abbattimento delle barriere per rendere il locale accessibile a tutt*, per questo pensavamo a sopraelevare il pavimento e ad introdurre delle rampe. Inoltre, ci sono i lavori di climatizzazione e insonorizzazione necessari per la sala cinema. 

Martina: Giusto due lavoretti (ride, ndr) però ce la faremo.

Il progetto di AVANA è già attivo sul territorio?

Martina: Assolutamente si. AVANA è attualmente utilizzato come magazzino per la raccolta alimentare. Inoltre, ospita dal lunedì al venerdì uno sportello di ascolto psicologico gratuito gestito da due volontarie specializzate.

Sara: È anche attivo per le riunioni degli studenti come ad esempio è già successo ultimamente per i ragazzi della Rete degli Studenti di Roma Sud.

Roma è ricca di spazi abbandonati, credete che la possibilità di riqualificarli possa contribuire alla realizzazione della “città dei 15 minuti” dalla quale prendete ispirazione?

Martina: Il concetto di città dei 15 minuti, elaborato dall’urbanista Carlos Moreno e attualmente applicato dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo, immagina una città in cui tutti gli spazi utili (lavoro, università, assistenza, cultura, …) dovrebbero essere raggiungibili in 15 minuti a piedi o in bici.

Sara: Il sogno di ogni romano ahah. Sarebbe bello se ogni quartiere non fosse abbandonato a sé stesso ma, anzi, fosse proprio indipendente nei propri servizi. In questo modo immaginiamo la nostra zona che non si limita a Garbatella ma prende anche Montagnola, San Paolo, Ostiense, … sentiamo il bisogno di rispettare questi valori prima di tutto da un punto di vista sociale.

Martina: Sarebbe fico veder nascere una “piccola Avana” in ogni quartiere. Come dici tu Roma è piena di serrande abbassate da decenni, proprio per questo siamo cariche per sabato, sarà la nostra occasione per coinvolgere finalmente dal vivo le persone nella realizzazione di questo progetto. 

Zoe Votta

Per aiutare la raccolta, visita la pagina del crowdfunding cliccando qui.

Ulteriori informazioni:
Pagina Facebook di AVANA.
Profilo Instagram di AVANA.

La citazione contenuta nel titolo è tratta da una poesia di Victor Cavallo.

Poesía, feminismo, vida: hablando con Miguel

Hace mucho quería preguntarle unas cositas a Miguel uno de mis escritores favoritos, un escritor que siempre me toca el alma. Le escribí y me dijo que sí entonces acá les comparto mi regalo de graduación.

Hola Miguel, ante todo gracias por aceptar responder a mis preguntas. ¡Te lo agradezco mucho! Tú eres español, pero naciste en Romania. ¿Cómo coexisten las dos culturas en ti?

He encontrado en la literatura una manera para canalizar esa dualidad y he llegado a la conclusión de que son dos caras de la misma moneda. Y yo soy riquísimo.

¿Cuándo empezaste a sentir la necesidad de escribir y cómo elegiste en que idioma ibas a expresarte?

Simplemente surgió, fue el castellano el que me eligió a mí. 

La mayoría de las veces son las mujeres protagonistas de tus versos, ¿a quién se debe esta decisión y quién es la mujer más importante para ti?

Mi madre, sin duda. Uno escribe sobre el mundo que lo rodea; el feminismo ha sido uno de esos temas a los que he recurrido para, en primer lugar, aprender. 

Yo personalmente te he conocido hace unos años cuando, por casualidad,  encontré dos poesías tuyas: Arde y Alto. Desde aquel momento, no he dejado de leerte; ¿cómo nacieron estas joyitas?

De la rabia de una voz que fue callada. 

El Miguel que conocemos por tus versos, es un hombre que valora mucho la sencillez de la vida y las emociones que se encuentran en ella. ¿Siempre fuiste así? ¿Cómo eras de niño?

Sí. Decía Pamuk que saber lo que es vivir con poco te hace no tener miedo a perderlo todo. Supongo que ahí está la clave y un poco lo que me guía. Siempre fui un chico que se conformaba, empático y bondadoso.

¿Cuál fue el momento de tu niñez que más dejó una huella en tu corazón? Digamos: el momento que más te afectó a ser el hombre sensible que eres hoy.

Creo que la partida a España. Fue duro tener que dejarlo todo para empezar de cero.

Eres muy seguido, todo el mundo hispano está al pendente tuyo, ¿te esperabas esta respuesta cuando empezaste?

No, desde luego. Es más, nunca empiezo nada aspirando a llegar hasta lo más alto. Simplemente soy fiel a las cosas que siento y en función de ello actúo. 

¿Qué es lo que más te motiva? Tanto a nivel personal como profesional.

Hacer buenos libros, dejar algo.

Hace unos meses abriste una cuenta Telegram donde compartías con tus seguidores versos, canciones, películas y pensamientos. Yo misma estaba ahí y, la verdad, me dolió cuando eligiste cerrarla. ¿Por qué esta decisión?

Necesitaba alejarme del teléfono por motivos personales. El tiempo supone un factor muy limitado. 

¿Piensas volver o ya es tiempo para nuevos proyectos?

Seguro que vuelvo. 

¿Cuál es tu momento favorito para escribir?

Me gusta el atardecer, esa luz amarilla, ese sol cayendo…

¿Qué significa Lisboa para ti?

Un antes y un después. 

A quiénes nos gusta escribir, de vez en cuando nos pasa no poder encontrar las palabras para expresar lo que nos pasa por la cabeza. Supongo te pase a ti también, ¿cómo superas esos momentos inexplicables? 

Me ayudo mucho de la lectura, del cine, de la música. La literatura está en todas partes. Cuando no llega, hay que buscarla. 

¿Cuáles son los versos que más amas? Versos o palabras que te hacen latir el corazón más rápido. No necesariamente tuyos.

Tengo infinidad, no sé si podría elegir unos, pero recomiendo el poema ‘Ya no’, de Idea Vilariño. 

¿Cuál es el recuerdo más bonito conectado a tu carrera como escritor?

Probablemente las primeras veces de las cosas: primera presentación, primer viaje a Latinoamérica, primera Feria de Madrid…

Creo que puedo hablar en nombre de muchas chicas y mujeres cuando digo que agradezco que estas palabras tan bonitas y verdaderas salgan de la mente y boca de un hombre. Es increíble la manera en que logras entendernos. ¿Sabes que tus palabras son una inspiración? Por ejemplo El derecho a quererse es una motivación en los días grises. ¿En qué situación la escribiste?

Necesitaba decirme a mí mismo lo que dije en ese poema. De ahí surgió todo. 

¿Cómo estás viviendo la pandemia? ¿En qué manera te ha afectado?

Bueno, es una pena la limitación de los eventos y firmas… Pero no queda otra. Por otro lado, los escritores vivimos en un aislamiento constante, así que eso lo llevé bien. 

Descríbete con una canción. 

Estoy escuchando mucho el Réquiem de Mozart. 

Ahora, para saludarnos, ¿nos regalarías unos versos inéditos? Si hay ¡y si quieres!

Lo mejor que os puedo decir son estas gracias por la voz. 

Martina Grujić B.

Para leer la entrevista en italiano, haga clic aquí.

Poesia, femminismo, vita: due parole con Miguel

Da tempo avrei voluto fare delle domande a uno dei miei scrittori preferiti. Miguel, seppur giovanissimo, riesce a trovare le parole esatte per far vibrare l’anima. Per fortuna mi ha detto di sì, mi ha fatto il regalo di laurea!

Ciao Miguel, innanzitutto grazie mille di aver accettato di rispondere alle mie domande. Te ne sono davvero grata! Tu sei spagnolo, ma sei nato in Romania. Come coesistono queste due culture in te?

È nella letteratura che ho trovato un modo per far fluire questa dualità e sono giunto alla conclusione che sono due facce della stessa medaglia. E io sono davvero ricco.

Quando hai iniziato a sentire la necessità di scrivere e come hai deciso la lingua con cui ti saresti espresso?

È successo, è stato il castigliano a scegliere me.

Sono le donne ad essere, la maggior parte delle volte, protagoniste dei tuoi versi. A cosa si deve questa decisione e chi è la donna più importante per te?

Mia madre, senza alcun dubbio. Una persona scrive riguardo il mondo che lo circonda; il femminismo è sempre stato per me un luogo di apprendimento.

Io personalmente ti ho conosciuto alcuni anni fa, casualmente, quando trovai due tue poesie: Arde e Alto. Da quel momento non ho smesso di leggerti; come sono nate?

Dalla rabbia per una voce che è stata taciuta.

Quel Miguel che conosciamo attraverso i tuoi versi è un uomo che valorizza molto la semplicità della vita e delle piccole emozioni ad essa legate. Sei sempre stato così? Che bambino eri?

Sì. Pamuk diceva che sapere cosa significa vivere con poco, fa sì che tu non abbia paura di perdere tutto. Suppongo che sia lì la chiave. Sono sempre stato un bambino che si adattava, buono ed empatico.

Qual è stato il momento della tua infanzia che ti ha maggiormente lasciato un segno? Ossia, qual è stato il momento che ti ha plasmato ad essere l’uomo sensibile che sei.

Penso sia stato il viaggio per la Spagna. È stato duro dover lasciare tutto per ripartire da zero.

Sei molto seguito da tutto il mondo ispanico, ti aspettavi questo tipo di risposta quando hai iniziato?

No, mai! Anzi, ti dirò, non incomincio mai nulla con l’aspirazione di arrivare alla vetta. Semplicemente rimango fedele alle cose che provo e mi comporto in funzione di ciò.

Cosa ti motiva maggiormente? Sia a livello professionale che personale.

Scrivere buoni libri, lasciare qualcosa.

Alcuni mesi fa hai aperto un canale Telegram dove condividevi con i tuoi followers poesie, canzoni, film e riflessioni. Ero lì e ti dico che è stato davvero triste quando hai deciso di chiudere tutto. Perché?

Avevo necessità di allontanarmi dal telefono per motivi personali. Il tempo è un fattore molto breve.

Pensi di tornare o è tempo per altri progetti?

Torno, torno.

Qual è il momento che preferisci per scrivere?

Amo il tramonto, questa luce gialla, il sole che va giù…

Cosa significa Lisboa per te?

Un prima e un dopo.

A chi piace scrivere, sa che a volte è difficile trovare le parole per esprimere ciò che ci passa per la testa. Suppongo ti sia capitato, come superi questi momenti?

Mi aiutano molto la letteratura, il cinema e la musica. La letteratura si trova dappertutto. Quando non arriva la devi cercare.

Quali sono i versi che ami alla follia? Versi o parole che ti fanno battere il cuore velocemente. Non necessariamente tuoi.

Ne ho un’infinità, non so se potrei sceglierne qualcuno, però raccomando la poesia Ya no di Idea Vilariño.

Qual è il ricordo più bello connesso alla tua carriera?

Probabilmente le prime volte: la prima presentazione, il primo viaggio per l’America Latina, la prima Feria di Madrid…

Penso di poter parlare a nome di molte ragazze e donne quando dico che sono grata del fatto che queste parole escano dalla mente e dalla bocca di un uomo. È davvero incredibile la forma in cui riesci a capirci. Le tue parole sono una fonte di ispirazione nei giorni bui, per esempio El derecho a quererse. In che situazione l’hai scritta?

Avevo la necessità di rivolgere a me stesso quelle parole. Da lì è nato.

Come stai vivendo la pandemia? In che modo ha influito su di te?

Vedi, è una tristezza dover limitare gli eventi, i firmacopie… ma non c’è altra opzione. D’altro canto però noi scrittori viviamo un isolamento costante, per cui questa parole bene.

Descriviti con una canzone.

Sto ascoltando molto il Requiem di Mozart.

Ora, per salutarci, ci regaleresti dei versi inediti? Se ci sono e se vuoi!

La cosa migliore che io possa dire è grazie per l’opportunità.

Martina Grujić B.

Per leggere l’intervista in spagnolo, clicca qui.

Mi Nutro di Vita

Concludiamo questo percorso sui Disturbi del Comportamento Alimentare con un’intervista a Micaela Bozzolasco, membro dell’associazione Mi Nutro di Vita, nata dalla volontà di Stefano Tavilla per sensibilizzare la tematica dei disturbi alimentari. Micaela ci spiegherà come è nata l’associazione, quali sono i loro obiettivi e come si sono organizzati durante questa pandemia che ha colpito queste malattie facendo aumentare i nuovi casi e aggravando la patologia di chi già ne era affetto.

Ciao Micaela, prima di tutto, com’è nata l’associazione “Mi Nutro di Vita”?

Mi Nutro di Vita nasce in Liguria ed opera in tutto il territorio nazionale. Il 15 marzo 2011 Giulia Tavilla, a soli 17 anni, scompare ad un passo dal ricovero in una struttura idonea alla cura del suo grave disturbo alimentare. Già dopo appena pochissimo tempo si manifesta la volontà forte del papà, Stefano, di ricordarla in modo costruttivo, attraverso un evento sportivo per famiglie. Così, con il sostegno degli organizzatori del Trail di Santa Croce, ad appena un mese e mezzo di distanza dalla sua scomparsa, viene realizzata la prima manifestazione sportiva mini-trail di corsa per le creuze di Pieve Ligure Alta a lei dedicata: il “mini-trail di Santa Croce” precursore del “Corri con Giulia”.

Questo primo evento fu inizio di un percorso associativo, qualcosa che, in una realtà molto ‘frastagliata’, potesse accomunare e diventare un simbolo di unità d’intenti, così nasce il Fiocchetto Lilla, e si concretizza il 2 agosto 2011 in Mi Nutro di Vita.

Mi Nutro di Vita  è un’associazione no-profit nata per sensibilizzare a livello nazionale la tematica dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) e per supportare da vicino, con l’iniziativa volontaria di coloro che direttamente o indirettamente hanno convissuto con un DCA, non solo gli invisibili che ne soffrono, e che cercano ogni giorno di combattere la propria personale battaglia verso il percorso della guarigione, ma anche il nucleo affettivo che, inevitabilmente, si ritrova catapultato nella realtà, ancora troppo ignorata e taciuta, del complesso mondo dei DCA.  La realizzazione di questo obiettivo diventa immediatamente petizione popolare, presentata in Parlamento nel 2012 con la richiesta di riconoscimento istituzionale della “Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla” ogni 15 marzo, in contrapposizione ai DCA, per creare informazione, prevenzione, rete di auto mutuo aiuto ed il riconoscimento del fenomeno a livello di servizio sanitario pubblico, inadeguato e per lo più inappropriato. 

Cosa significa per te far parte di questa associazione?

Ho incontrato l’Associazione Mi Nutro di Vita 4 anni fa, navigando per caso su internet in cerca di non sapevo neppure cosa, ma sicuramente disperata. Quattro anni fa soffrivo di un DCA, e ne soffrivo da più di 20 anni, per non dire da sempre. Sono andata a un incontro dell’Associazione e non sapevo che quello sarebbe stato l’inizio di una storia meravigliosa, l’inizio di una Vita, la mia. Ricordo quella sera perché è ancora sulla mia pelle e ci resterà per sempre. Sono arrivata che ero il mio disturbo psichiatrico, perché i DCA sono malattie psichiatriche, e sono uscita col dubbio di non essere un disturbo psichiatrico, ma di avere una malattia psichiatrica. Sono arrivata pensando di essere numeri, di essere il mio percorso terapeutico, come fosse un curriculum con cui presentarmi, e sono uscita col dubbio di essere una persona. Sono arrivata con la sentenza di essere cronica, per me significava restare malata tutta la vita, e sono uscita col dubbio di poter guarire. Quella sera non ho incontrato terapeuti, ma persone o meglio cuori, che hanno guardato oltre il mio aspetto e mi hanno vista. Sono riusciti in ciò che la mia famiglia e chi mi ama, cercava di fare da sempre. Ma quelle persone sconosciute non erano obbligate a vedermi. Così quella luce dentro di me, che si stava spegnendo, ha trovato accoglienza. L’Associazione per me è una sensazione che mi porto dentro, come quella che mi dà pensare alla casa dei nonni. Uno spazio di accoglienza dove il dolore può circolare senza paura di giudizi, o di ferire l’altro. Dove si può anche essere leggeri nella sofferenza. Dove arrivi con uno zaino pieno di macigni e ti permetti di posarlo e quando vai via, forse hai tolto un sassolino, e quello zaino pesa un po meno. 

Oggi sono guarita, senza compromessi e senza sensi di colpa, perché non ho scelto di ammalarmi come non si sceglie per nessun’altra malattia. Non ho più lasciato l’Associazione perché la mia storia, la mia esperienza, potesse diventare dubbio e poi speranza di poter guarire per qualcun altro o per un genitore o un familiare, e per ricordare a chi è nell’Associazione, nei momenti di stanchezza, che anche se a volte sembra di combattere contro i mulini a vento, anche la luce che sembra spenta può riaccendersi dì Vita. Siamo una famiglia di formichine, capaci di farsi carico anche di più di 100 volte il loro peso, e in modo a volte silenzioso, a volte un po meno, ma continuamente vanno avanti nel loro piccolo perché qualcosa cambi e per portare speranza perchè insieme si può.

Come vi siete organizzati per aiutare le persone a distanza?

La nostra associazione è una realtà composta da volontari, che negli anni ha portato tante altre persone ad esporsi, ognuno con le proprie motivazioni personali e la propria storia, ad incontrarsi e a dare vita ad un percorso di solidarietà, condivisione e divulgazione. I principali scopi sociali sono divulgare e diffondere informazioni sui DCA. e far sì che questo fenomeno venga conosciuto e riconosciuto dalle istituzioni e dalla popolazione, in maniera proporzionale alla sua forte incidenza. 

  • La nostra associazione è promotrice della petizione pubblica “Inserire i DCA. all’interno dei L.E.A. (Livelli Essenziali di Assistenza) come malattia a se stante.” (lanciata online http://chng.it/FtSbHR5w), rivolta al Ministero della Salute e alla Commissione nazionale  per l’aggiornamento dei L.E.A. la quale mira a dare un proprio riconoscimento ai DCA, in modo tale che tutti coloro che ne soffrono siano finalmente riconosciuti e, pertanto,  possano usufruire di un sistema di cure pubbliche adeguato.

La firma della petizione consiste, quindi, nel supportare la nostra lotta al fine di inserire i DCA all’interno dei L.E.A. come malattie a sé stanti, ossia all’interno di quell’insieme di patologie alle quali ogni cittadino può richiedere assistenza sanitaria pubblica.

  • Progetto “I Ted Talk di Mi Nutro di Vita”, sono un progetto nato durante il primo lockdown iniziato a marzo 2020, nel corso di una serie di incontri telematici organizzati per aiutare ragazzi e ragazzi che, in solitudine, stavano combattendo contro la loro malattia.

Il lockdown ha rappresentato per molte persone un momento di crisi, perciò abbiamo pensato di riunirci in laboratori dove, in modo attivo e creativo, ragazzi e ragazze potessero sentirsi accolti e liberi di esprimere le proprie idee e pensieri sotto forma di progetti artistici.

Il primo progetto a cui abbiamo lavorato ha previsto la realizzazione di due video (uno realizzato da ragazzi e ragazze, l’altro dai familiari), usciti il 2 giugno, per la Giornata Mondiale dei Disturbi Alimentari, in grado di raccontare quello che i disturbi alimentari sono, andando oltre il solito superficiale modo di raccontarli: non più esposizione (per altro deleteria e fuorviante agli occhi di chi guarda) di corpi “toccati” dalla malattia, ma un racconto a tuttotondo e intimo, che potesse raccontare ogni singolo aspetto della quotidianità di chi soffre.

Una volta concluso il progetto, dagli incontri sono emerse nuove idee, tra le quali quella dei Ted Talk (per chi non conoscesse il format ecco un video che ne è l’esempio: https://youtu.be/i_wnFX5WPv4).

I Ted Talk sono un “mezzo” attraverso cui ragazzi e ragazze possono raccontare la loro esperienza di malattia in modo allegorico e creativo: partendo da un’immagine, un ricordo, un profumo, ecc., e sviluppandone un discorso.

Ad oggi il primo dei Ted Talk, “Ombre” è stato realizzato: https://www.youtube.com/watch?v=9XoQICBl05g

Inoltre, in modo volontario e senza alcun costo, è stato realizzato il logo da Emanuela Lo Scalzo, una ragazza che fa parte dell’Associazione. 

Per realizzare i successivi i Ted Talk sono necessarie delle spese che vadano a ricoprire il lavoro e gli spostamenti del videomaker (Francesco Nisi).

La realizzazione dei Ted Talk ha un’importanza che può essere letta su più piani: per riuscire a comunicare in modo corretto quello che i DCA sono ed abbattere il muro di preconcetti di cui la società è intrisa; per aiutare chi sta combattendo contro la malattia a raccontarsi e superare il senso di vergogna e solitudine che generalmente accompagna chi soffre di DCA

  • Progetto “I Mille Volti dei DCA” è un progetto che si pone innanzitutto l’obiettivo di scardinare gran parte dei falsi miti che ancora oggi circolano intorno al mondo dei Disturbi Alimentari, impedendone di fatto la comprensione e generando in chi ne soffre sensazioni di solitudine e abbandono. In tal senso, particolare risalto vuole essere dato alla poliedricità di queste malattie, andando a sottolineare e a far riflettere su come possano colpire chiunque, senza distinzioni di età o di genere. 

Molto spesso, infatti, i DCA vengono erroneamente associati esclusivamente a soggetti giovani, di sesso femminile, caratterizzati da situazioni di grave malnutrizione e sottopeso, tuttavia, per quanto effettivamente le statistiche nazionali e mondiali ci indichino una prevalenza di queste patologie, in particolar modo dell’anoressia, in ragazze in età adolescenziale, va necessariamente evidenziato che  ad ammalarsi e/o soffrirne sono anche maschi, donne e uomini in età matura, addirittura bambini e bambine. Inoltre, la sfera dei Disturbi Alimentari è estremamente eterogenea e non può essere in alcun modo ridotta unicamente ai casi di anoressia: binge eating (disturbo da alimentazione incontrollata), bulimia nervosa, ortoressia, vigoressia sono solo alcune. Proprio per questo motivo si rende necessario riflettere a un nuovo modo di raccontare, di parlare, di dire quel che i Disturbi Alimentari sono e comportano in chi si ammala e si trova nella situazione di doverli affrontare. Perché al di là del Disturbo Alimentare ci sono delle persone: persone dotate di vita e di emozioni e di pensieri. Al di là del Disturbo Alimentare ci sono persone che disegnano, che scrivono, che suonano, che leggono, che cucinano, che impastano la creta, che intingono le mani nei colori, che ballano, che corrono, che viaggiano, che lavorano, che pensano, che sognano, che sentono, che immaginano, che abbracciano, che ridono e che di tutto questo a volte non se ne ricordano più o non lo riescono più a fare.

 “I mille volti dei DCA” è un progetto che si pone innanzitutto l’obiettivo di guardare all’immagine per vedere oltre l’immagine stessa: per scavare nel profondo, in punta di piedi e con delicatezza, di chi sta vivendo o ha vissuto l’incubo di un Disturbo Alimentare e provare a tendere un filo a chi di questa sofferenza non ne sa nulla o per qualsiasi motivo si è costruito un giudizio, un dito puntato, una sorta di sguardo invadente e lontano.

Se quel filo potrà essere teso, sarà grazie ai “mille volti” che prenderanno parte al progetto. Ognuno di loro verrà raccontato e si racconterà attraverso tre fotografie in bianco e nero, che non necessariamente prevedono che la persona sia fisicamente presente nello scatto e che terranno conto della sensibilità, delle esigenze, dei sentimenti e dei tempi di ciascuno. 

Ogni volto porta con sé una storia e da mille volti della Storia si può riscrivere il fine. 

  • Ogni 15 giorni laboratori di auto-aiuto che si svolgono on-line tramite la piattaforma Meet. Attualmente questi lavoratori sostituiscono gli incontri che si tenevano nel Centro Giovani Pieve Ligure, come spazio protetto di ascolto attivo, compartecipe, libero da ogni forma di giudizio, cui poter scrivere e/o chiedere aiuto, trovandovi accoglienza, sostegno e un’opportunità preziosa di condivisione.

Avete creato uno sportello di ascolto che è fondamentale perché è uno spazio in cui chiunque può condividere il proprio malessere, le proprie emozioni o chiedere aiuto senza nessun giudizio. Com’è nato questo sportello di ascolto?

Stefano, purtroppo, in prima persona, durante la malattia della figlia si è trovato come ‘a vagare e barcollare nel buio dell’ignoranza che c’era allora più di oggi intorno ai DCA. Cominciò a ricevere per posta elettronica richieste di aiuto, all’inizio da alcune ragazze, col tempo queste richieste sono aumentate e arrivavano non solo da parte di ragazze/i, ma anche di genitori e famigliari che vivevano accanto a persone che soffrivano di un DCA. Man mano che le richieste aumentavano, lentamente, si è come creato uno spazio di ascolto protetto, libero da ogni forma di giudizio, una rete di sostegno. Spesso nelle serate di auto-aiuto che, prima, si tenevano fisicamente a Pieve Ligure, ora on-line, ci sono genitori che si trovano ad affrontare da soli vissuti carichi di sensi di colpa e impotenza. Nel gruppo si ascoltano e si raccontano le esperienze di vita.  L’ascolto incondizionato, il valore del silenzio, il prendersi cura delle nostre fragilità̀ con delicatezza e premura, rendono l’auto-aiuto un luogo dove portare se stessi senza essere giudicati. Nel gruppo si trova un sostegno reciproco. Gli incontri si svolgono senza l’intervento di alcun professionista. L’obiettivo, oggi come dal primo giorno, è quello di creare e di dare dignità alle persone che soffrono e soprattutto dare conoscenza e consapevolezza a tutte quelle persone che non sanno cosa sia un disturbo del comportamento alimentare. 

Durante il periodo di lockdown sono aumentate le richieste di aiuto?

Le richieste sono aumentate moltissimo! Tanto che Stefano ha pensato di creare due gruppi distinti (sempre on-line) uno dedicato a genitori e famigliari, l’altro per persone che stavano vivendo un DCA. I due gruppi avevano due modalità differenti. Quello dei genitori, è rimasto, come quello originale di Pieve, uno spazio di ascolto e condivisione. Quello dei ‘ragazzi’ (in realtà non c’erano solo ragazzi giovani) invece nasce proprio con l’idea di laboratorio, uno spazio condiviso dove insieme nascono idee e progetti, si è tutti attivi, ognuno dà un suo contributo col proprio valore per creare qualcosa di nuovo. Abbiamo fatto questa scelta perché, questi ragazzi, erano in diversi stadi del loro percorso di cura e guarigione, ed erano seguiti da loro terapeuti. Creare uno spazio di sola condivisione, rischiava di avere come argomento la malattia e i sintomi, poco costruttivo. Non essendo terapeuti, e non volendo sostituirci a loro o influire sui percorsi dei ragazzi, abbiamo preferito che la malattia diventasse l’oggetto dei progetti a cui lavoravamo, in modo che ognuno portasse sé stesso, nel suo momento ma in modo costruttivo.

Il primo progetto è stato quello di realizzare un video che riuscisse a trasmettere cos’è vivere un DCA. I Ted Talk, sono un altro progetto che nasce proprio in questi laboratori e sta continuando. Al momento i laboratori dei ragazzi li abbiamo sospesi perché non c’erano più progetti in essere. 

Quanto è importante chiedere aiuto in questo periodo, confrontarsi con un’altra persona e avere dall’altra parte qualcuno con cui aprirsi?

Credo che in questo, come in qualsiasi altro momento, chiedere aiuto sia fondamentale. Poter condividere la propria sofferenza, senza timore di giudizio; poter lasciar circolare il dolore, senza paura di ferire l’altro; poter parlare senza alcuna vergogna con persone che hanno vissuto sulla propria pelle un’esperienza simile, per quella che è la mia esperienza è già aver fatto un passo per uscire dal buio in cui ci si trova. Naturalmente l’aiuto che può dare l’Associazione non si sostituisce al percorso terapeutico, ma può essere un inizio o un appoggio che accompagna la terapia. Credo che per ognuno il gruppo sia vissuto in modo differente, ma sicuramente c’è una condivisione che può aiutare ad alleggerire il ‘carico’, parlare con persone che hanno già superato il problema e sono guarite può dare speranza. Insieme, si può.

Le persone con queste patologie, spesso, non si sentono capite e se si sentono molto sole. La solitudine è stata una delle cause delle ricadute durante la pandemia?

La solitudine e a volte anche il sentirsi abbandonati dai propri terapeuti. Purtroppo, molte strutture non erano organizzate per incontri on-line. Molte persone hanno vissuto questo temporaneo distacco come una totale assenza di attenzione e cura di una sofferenza fisica, ma soprattutto mentale che non può essere messa in stand by. Interrompere o sospendere le terapie per molte persone è stato motivo di peggioramenti o ricadute, forse come tornare a sentirsi improvvisamente invisibili.

Cosa vorresti dire a chi si sente solo nella malattia? Come si può aiutare una persona a sentirsi meno sola?

Ho vissuto in prima persona quella terribile sensazione di solitudine, di non sentirmi capita, nonostante avessi accanto una famiglia che è sempre stata presente e mi ha sempre amata. Malgrado questo, non riuscivo a vedere la loro presenza, le premure che avevano nel cercare di farmi stare meglio, e soprattutto non riuscivo a sentire tutto l’amore che mi circondava.

Nella mia esperienza, ho avuto  momenti della malattia in cui non riuscivo a ‘vedere’ con lucidità ciò che realmente c’era, per questo ricordo ai genitori o ai famigliari di non scoraggiarsi, ma di continuare ad esserci, perché prima o poi quella presenza, quell’amore, quelle attenzioni arrivano. 

A me è arrivato tutto insieme. Spesso dico che, per anni, è come avessi avuto un paio di occhiali neri, che mi facevano vedere e percepire le cose in modo distorto. Ma continuando nel percorso terapeutico, piano piano, rispettando i tempi della mia guarigione, dentro di me, le cose sono andate a posto, come i tasselli di un puzzle. Un giorno mi sono svegliata senza quegli occhiali, forse non ne avevo più bisogno, e ho cominciato a vedere la bellezza che mi circondava, che era anche meglio di ciò che avrei potuto sperare o immaginare. Una cosa meravigliosa è che sono riuscita non solo a vedere ciò che avevo intorno, ma sono riuscita a guardare me stessa con gli occhi con cui ancora oggi mi guarda mamma, occhi amorevoli, che mi fanno vedere la bella persona che sono.

C’era già tutto per poter stare bene, ma non riuscivo a vederlo, non mi permettevo di vederlo.

A chi è nella malattia vorrei dire questo, che si può guarire, senza compromessi, senza vergogna, senza sensi di colpa. Perché i DCA sono una malattia, come tante altre e non si sceglie di ammalarsi. 

Vorrei dire che è vero che è una malattia mentale, ma questo significa solo che c’è bisogno anche di una terapia psicologica perché il cervello, come qualsiasi altro organo, si può ammalare, ma sicuramente può guarire.

Il più grande aiuto che ho avuto è stata la presenza e l’amore costante della mia famiglia e di chi mi era accanto. Il rispetto che hanno avuto della mia sofferenza, il non sentirmi giudicata o sbagliata da parte loro, erano già pesanti i giudizi e i sensi di colpa che avevo verso me stessa, la capacità che hanno avuto di non sostituirsi ai terapeuti e nonostante tutto di trasmettermi la loro fiducia nel fatto che ce l’avrei fatta.

Penso che esserci incondizionatamente possa essere l’aiuto migliore.

Francesca Motta