Con un nome così innocente, quasi buffo, ma già programmatico nella nota di maliziosa irriverenza (da folletti appunto), i Pixies senza ombra di dubbio aprirono una nuova stagione musicale allo sgocciolare degli anni ’80.
“Nell’88 i Pixies non assomigliavano a nessun’altra band, dal 91 in poi tutte le band assomigliavano ai Pixies”,
recita un’antica massima tra i fini intenditori musicali.
Non c’è sintesi migliore per spiegare come un piccolo gruppo del Massachusetts sia diventato il substratum di tutte le canzoni che sono nate dopo e che continuano a nascere in seno all’alternative rock, portando il genere sulle classifiche più popolari e dunque le più improbabili per uno stile così contaminato.
E noi sappiamo che la consacrazione da parte del panorama musicale stesso è arrivata da sé, così come ce lo testimonia l’icona pop degli anni ’90 Kurt Cobain:
«Stavo provando a scrivere la perfetta canzone pop. Fondamentalmente stavo provando a plagiare i Pixies. Devo ammetterlo. Quando ho sentito i Pixies per la prima volta mi sono sentito così unito a loro che avrei potuto fare parte di quel gruppo o perlomeno di una cover band. Abbiamo usato il loro senso dinamico, essere prima sommessi e tranquilli e poi fragorosi ed energici.»
Vengono accolte come modello da moltissime band come i Nirvana e i Radiohead, proprio perché si affermano quando l’immaginario musicale stava dissipando lo spirito degli anni ’60 senza riuscire a declinarsi più in maniera attuale. Anche David Bowie con grande lungimiranza artistica apprezzava e riconosceva l’originalità di quella dinamica di versi piani e tranquilli seguiti da ritornelli e riff crudi, quasi cacofonici, che resero la sua efficacia una prassi. Ma i Pixies non si risolvono nella struttura ritmica della canzone, ciò che colpisce, inoltre, è l’humour che si cela dietro i testi del frontman Black Francis spesso grotteschi e distorti nelle situazioni, capaci di dar vita senza sforzo al surrealismo in un tutt’uno grazie con il timbro particolare della voce, unito all’acerbo basso di Kim Deal e ai suoi vocalizzi angelici. Si ritaglia uno spazio unico, invece, il chitarrista Joey Santiago per i colori conferiti ad ogni brano, sfinendo lo strumento fino all’elettricità spasmodica sul palco che rende i Pixies, i cattivi compagni di scuola dei R.E.M, altra importantissima band di quegli anni.
Surfer Rosa è sicuramente l’album che più rende evidenti le parole spese su di loro, viene definito un manifesto del nuovo “art punk”, proprio perché si costruisce sulle basi importanti del garage rock e si insidia con ritornelli contagiosi ( il cosiddetto power-pop) nella psichedelia che padroneggiano ancora bene, cresciuti a pane e Velvet Underground. Impossibile non conoscere il singolo “Where is my mind?” che colorò di tinte ancora più vividamente fosche l’ultima scena del film ormai cult “Fight Club”, nel momento in cui un’intera città viene demolita con gli “Ooo-oooh” onirici della bassista di sottofondo.
Dopo una rovinosa rottura nel 1993, quando sembrava che tutto fosse finito, sono tornati dopo dieci anni con una maturità tutta loro e con un nuovo album pronto ad uscire. Il loro sito si aggiorna, a fine 2019 un podcast condotto da un giornalista del New York times, c’ha mostrato l’ultima loro gestazione, dimostrandoci quanto non smettano di essere produttivi.
Proprio con l’inizio di settembre il progetto dovrebbe venire alla luce, in attesa di festeggiare l’archetipo dell’indie-rock continua a creare musica, lasciamo che la playlist di Surfer Rosa scorra indisturbata, indifferente allo scorrere del tempo.
PLAYLIST “MUST LISTEN” DEI PIXIES
- Where is my mind? (Surfer Rosa; dalle avventure d’immersione in un Puerto Rico)
- Hey (Doolittle; denuncia satirica dell’edonismo e dell’amore ridotto a sesso)
- Monkey Gone To Heaven (Doolittle; grande denuncia ambientale )
- Gigantic (Come on Pilgrim; dalla storia d’amore tra una donna bianca di cinquant’anni e un giovane ragazzo di colore)
- Cactus (Surfer Rosa; dalla storia di un carcerato, cover realizzata da David Bowie nel 2002)