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Through back to the 90s – The Verve

È così facile ormai prendere le cuffiette, trasformarle quasi in parte integrante del nostro corpo, e semplicemente estraniarsi dal contesto: per quanto? Una corsa sull’autobus che ci porta a scuola? Una passeggiata serale? Un lungo viaggio in macchina?
La musica è una grande compagna di avventure per la maggior parte degli adolescenti, tanto che anche da adulti una canzone permette loro di sentire ancora i sedici anni sulla pelle, nel cuore spezzato che hanno medicato proprio con i versi di quella ballata, tanto in voga in quegli anni giovani.  Basta pigiare il tasto play per percepire sollievo quando si è avviliti, o perché no,  percepire quella comprensione di cui si ha bisogno e che, incredibilmente, ti sta donando una voce, o una chitarra. Riponiamo fiducia ed aspettative nella musica, consapevolmente o inconsapevolmente, rendendola la medicina ideale ad ogni malumore: un placebo. Un placebo è un farmaco che in realtà non ha nessun principio attivo, ma ritenuto dal paziente il rimedio più efficace per curare il suo male e quindi per “effetto placebo”, il malato stesso guarirà da se’, si sentirà meglio. Questa rubrica musicale ha la presunzione di scatenare nei suoi amatori e lettori proprio  un“effetto placebo”, e così riassumo in due parole e un concetto medico, questa premessa.

Cosa deve fare Effetto Placebo? Oltre “placebare” il blog de La Disillusione? a) spolverare, invece di ampliare playlist indie a bestia  b) cercare di celebrare la musica e i suoi perché, i suoi colori e i suoi contesti. Non sono mai stata brava con le parole chiave, ma forse servono per aprire l’articolo e sbloccare la vena critico-musicale che si è assopita nell’accidia pandemica. Questa rubrica parla di musica, ve la presenta per quella che è, poi tocca a voi placebizzarla se ne sentite il bisogno (attenzione, non ci sono effetti indesiderati anche gravi – credo). Mentre la polvere vortica nell’aria, riprendiamo le prime premesse fatte sopra su quanto la musica sia evocativa, capace di riportare alla mente un ricordo e colorarlo lì dove sembrava sbiadito; e  allora sì, aggiungiamo una chiusa ad effetto petrarchesco: la musica è il mezzo più semplice per raggiungere un’epoca, respirarla con le orecchie e comprenderla senza forzo.

Through back to the 90s
The Verve

Le ultime notizie su questa band si hanno alla fine dell’estate scorsa: si annuncia l’edizione deluxe dei primi due album, vale a dire canzoni remasterizzate con qualche chicca inedita, come per esempio illustrazioni e contenuti video che fanno gola ai collezionisti. Ormai son trascorsi vent’anni da quando la band di Wigan ( a metà strada tra Liverpool e Manchester) si piazzava comodamente nello scenario underground degli anni 90, perché sì, mentre in America c’erano i Nirvana ed il grunge, in Inghilterra si andava formando il Brit-pop.  Per quanto i nostalgici dei mitici e intoccabili anni 60 neghino, questo movimento nasce dalla gestazione della gioventù totalmente devota agli anni sopracitati, che rielaborano il patrimonio musicale degli anni ’60  – e in parte ’70- e  lo modernizzano senza calpestarlo, anzi, gli servono una cenetta a lume di candela con accompagnamento orecchiabile e una dose nuova di disicanto giovanile.

I The Verve forse, insieme ai pionieri Oasis, sono emersi da quell’indie per pochi, giusto in tempo per conquistare una generazione che andava a scuola con il walkman.  Parlare del loro escursus discografico non sarebbe significativo e neppure le peripezie che hanno portato a vari scioglimenti , quindi andiamo direttamente al punto: Urban Hymes, il famoso terzo album catapulta al successo e alla “maturazione” una band che sembrava condannata a fare da tappezzeria.

 L’efficacia risiede in tredici canzoni che risultano semplici -le vecchie generazioni potrebbero dire anche “familiari” – che non danno tutto subito, invitando così l’ascoltatore a figurarsi traccia dopo traccia il mondo che vi si cela dietro. Non pensiate però che non sia un album dinamico, l’alternanza tra  brani più malinconici e altri scolpiti in quel ribelle malessere, che puzza ancora di adolescenza, sintetizza perfettamente il concept “Inni Urbani” della nuova generazione.

Tutto comincia con un riff improntato su un piccolo frammento d’archi dalla versione orchestrale – musica d’ascensore like – di “The Last Time” dei Rolling Stones, i grandissimi che non esitarono nemmeno un secondo alla ghiotta idea di richiedere i diritti e di assorbire finaziariamente il successo di Bittersweet Symphony. Il punto è che questa ‘agrodolce sinfonia’ è diventata un manifesto degli anni 90. Nel videoclip il frontman cammina sempre avanti sul marciapiede di Hoxton Street (Londra)  urtando i passanti, cantando Cause it’s a bittersweet symphony, this life..” e no, non è solo un ciondolare malinconico dentro una giacca di pelle troppo larga, il testo disarma e coinvolge.

 Proseguendo abbiamo grandi pezzi prettamente acustici che ci riportano alle “ballad”, la tristissima The Drugs Don’t Workè dedicata alla madre del cantante ed emoziona sin dalle prime parole; e la dolce One Day è piacevole, specie se appoggiati contro un finestrino. Cito anche Sonnet che pur non volendo esserlo  (“Don’t sound like no sonnet”), è una canzone d’amore non lontana dal punto di vista tematico dai grandi sonetti della letteratura, presentata con il fascino di una chitarra strimpellata ed un ritmo morbido.

 Come detto sopra, la forza dell’album consiste in questa doppia natura tra Brit-pop e la primordiale psichedelia che caratterizzava gli albori della band, The Rolling People e Catching the Butterfly ne sono gli esempi più calzanti. Gli arrangiamenti del chitarrista Nick McCabe sono davvero validi, la qualità che forse molte altre band contemporanee ai The Verve non hanno mai avuto.

 La playlist della settimana è l’intera Tracklist di Urban Hymns.

Iris Furnari

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