Gli Déi annoiati

Quando la Storia muore a constatarne il decesso è un uomo affacciato alla finestra.

A celebrare le esequie della grande maestra di vita è un uomo a cavallo,non un uomo qualsiasi, ma l’esecutore di una sentenza, paradossalmente storica, quella della fine della Storia stessa.

“Ho visto l’imperatore, quest’anima del mondo […]” racconta il filosofo tedesco Friedrich Hegel, talmente coinvolto dalla visione di Napoleone Bonaparte, trionfante a Jena, da considerare tale momento uno spartiacque fondamentale.

All’apice della gloria napoleonica, l’umanità ha raggiunto la propria liberazione tramite una rivoluzione politica e, per Hegel, ciò che ne consegue non potrà che essere solamente una razionalizzazione ed una diffusione globale del nuovo ordine definitivo.

Passa quasi un secolo, quando un giovane professore russo, in fuga dalla rivoluzione bolscevica, approda a Parigi.

Anima poliedrica, nipote del celebre pittore Vasilij Kandinsky, Alexandre Kojève a poco più di trent’anni affabula ed ipnotizza la futura intellighenzia francese.

Chiamato a tenere dei seminari sulla “Fenomenologia dello Spirito” hegeliana, di cui dichiara di aver compreso poco o nulla, Kojève trae dall’opera del filosofo tedesco una trattazione fascinosa, capace di ammaliare il pubblico di studenti: La Fine della Storia.

Queneau, Bataille, Aron, Caillois, Leiris, Corbin, Merleau-Ponty, Lacan, Breton e Hannah Arendt.

L’avanguardia della filosofia novecentesca presenzia alle lezioni di quel bizzarro corso di filosofia delle religioni, trasformato da Kojève in una trattazione monografica della Fenomenologia dello Spirito, considerata un’opera impossibile da trattare solamente secondo una prospettiva religiosa separata.

La Fine della Storia coincide con la fine del desiderio di riconoscimento, con l’annullamento della dialettica, in favore di un ordine globale, uniformato sotto un progetto statale capace di garantire legalità e libertà.

Tale interpretazione porterà  Kojève però a traslare il pensiero hegeliano nella propria contemporaneità.

É il 4 dicembre del 1937 quando, al Collège de socioligie, il professore svela ai suoi studenti il nuovo depositario dello spirito del mondo.

Roger Caillois, fra gli avventori abituali dei corsi del professore russo, racconta lo stupore della platea di studenti quando “Kojeve ci svelò quel giorno che Hegel, pur avendo avuto una giusta intuizione, si era sbagliata di un secolo: l’uomo della fine della storia non era Napoleone, ma Stalin”.

Vestire i panni del becchino della Storia, per quanto possa sembrare un ruolo infausto, ha continuato a garantire la notorietà di chiunque vi si prestasse.

Nel 1992 è il turno di un giovane dottore in scienze politiche, Francis Fukuyama, autore del saggio “La fine della storia e l’ultimo uomo”.

Nella sua trattazione il politologo americano  riconosce nel sistema liberale a trazione statunitense l’evidenza della conclusione dei processi storici.

Il ragionamento che guida la tesi è pesantemente influenzato da Hegel: la guerra fredda ha rappresentato il culmine della dialettica politica fra due sistemi contrapposti.

Con la caduta del Muro di Berlino, secondo Fukuyama, il Comunismo sovietico palesa la propria insostenibilità lasciando al sistema democratico-liberale occidentale la possibilità di procedere alla sua espansione globale.

La lettura di Fukuyama ha necessitato di diverse revisioni dello stesso autore, messo pesantemente in discussione dallo scoppio della rivoluzione informatica e dalle numerose crisi e conflitti che hanno continuato a susseguirsi anche dopo la Caduta del Muro.

La marcia trionfate verso la democrazia globale, teorizzata dallo studioso in relazione ad una concezione della storia come moto universale verso il progresso, è stata palesemente disattesa: non solo nelle nuove prospettive, lontane dai dettami liberal-democratici, adottate da paesi come la Cina, ma anche nei due paesi al centro della legittimazione della tesi di Fukuyama stesso.

La Russia, dopo una prima apertura, traumatica, verso il mondo occidentale è ritornata suoi suoi passi e gli USA hanno dimostrato una sofferenza diffusa nella popolazione verso il ruolo di evangelizzatore mondiale, infrangendosi nell’esplosione delle proprie contraddizioni, sempre taciute a fronte del mandato imperiale e della potenza che ne derivava, ad oggi insostenibile.

Ma se la condizione a cui legare la fine della Storia sia da ricercare molto più profondamente, nella stessa condizione esistenziale dell’umanità?

Se la storia nascesse e morisse attorno ad un semplice, quanto fondamentale, atavico interrogativo ontologico: la Morte?

“La storia è iniziata quando gli umani hanno inventato le divinità e finirà quando gli umani diventeranno divinità” è una citazione dello storico israeliano Yuval Noah Harari.

Esperto di storia medievale e storia militare, il professor Harari è oggi particolarmente celebre per le proprie opere di storia del mondo ed il suo lavoro incentrato sui processi macro-storici.

Nel suo libro “Sapiens: Da animali a dèi” l’autore individua nella Rivoluzione scientifica l’ultima delle tre grandi rivoluzioni che hanno sostanzialmente  segnato l’evoluzione umana: quella cognitiva, quella agricola ed infine quella scientifica.

Quest’ultima, che nasce dal riconoscimento dell’uomo della sua ignoranza, vede  un unico grande fine: la sconfitta della morte.

Harari nelle sue pagine lancia quest’idea lapidariamente, riconoscendo come l’uomo si ostini a negare questo desiderio ed invitando però a non nascondersi dietro un dito.

D’altronde, evidenzia lo storico israeliano, tutte le filosofie moderne ed i paradigmi sociali che ne discendono hanno già manifestato un disinteresse palese per la tematica della morte: “Cosa accade ad un comunista dopo la morte? Cosa accade ad un cpitalista? O ad una femminista?  Non ha senso cercare la risposta nelle opere di Marx, Adam Smith o Simon de Beauvoir”.

Oggi milioni di nano-robot possono essere immessi in un sistema cardio-vascolare umano ed aggredire alcune patologie, le tecnologie neurali permettono di esplorare possibilità mai immaginate e l’uomo, soprattutto, è completamente padrone del pianeta Terra, addirittura è diventato depositario di una potenza demiurgica che lo rende in grado incidere sull’ambiente stesso.

Nel momento in cui l’evoluzione ci porterà ad assumere sempre più prerogative che l’uomo ha sempre accostato solamente alle divinità, avrà ancora senso definirsi uomini, nell’accezione scientifica di homo sapiens?

Inevitabilmente, nel caso la prospettiva di Harari si concretizzasse, dovremmo porre una definitiva pietra tombale sulla Storia, intesa come narrazione e memoria collettiva di una collettività che sarebbe troppo differente da noi.

Se volessimo trovare infatti un motore fondamentale della Storia, questo potrebbe essere proprio la volontà di sfidare la morte.

La volontà di riunirci in gruppi sociali, di costruire villaggi, città e metropoli, il desiderio di costruire monumenti, di combattere e conquistare per la gloria, di lasciare un’impronta sulla memoria del mondo, cosa sono se non tentativi di superare ciò con cui l’uomo convive e si scontra fin dalla sua nascita: la fine della propria vita.

Cosa succederebbe, quando l’umanità, oramai invincibile anche sulla morte si troverà a doversi confrontare con se stessa?

La fine della Storia potrebbe non essere la fine delle atrocità, anzi.

La constatazione di Harari è incredibilmente inquietante e lascia presagire che alla fine della Storia possa annidarsi l’inizio di nuovi processi, imprevedibili: “ Siamo più potenti di quanto siamo mai stati, ma non sappiamo che cosa fare con tutto questo potere. Peggio di tutto gli umani sembrano più irresponsabili che mai”

Scavando nella mitologia, nelle epopee delle tradizioni religiose, vediamo come le divinità, nei momenti noia e negligenza, si dilettino nel creare e nel distruggere, nello sconvolgere e nel rivoluzionare.

Dalla solitudine divina può nascere nuova vita, come può dissolversi un mondo.

In quest’ottica l’interrogativo posto da Harari è particolarmente calzante: Può esserci qualcosa di più pericoloso di una massa di dèi insoddisfatti e irresponsabili che non sanno neppure ciò che vogliono?”

Lorenzo Giardinetti

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Cosa sta succedendo in Colombia?

Contesto:   

In Colombia dall’inizio del governo del presidente Iván Duque, candidato dell’ex presidente Uribe1, sono avvenuti più di 100 massacri tra il 2020 e 2021 che il governo fa di tutto per occultare, cambiandogli nome, disconoscendoli. Si è voluto porre fine agli accordi di pace firmati con l’estinta guerriglia delle FARC– Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia – che ha contribuito ad una maggiore tensione interna; durante la dichiarazione di emergenza sanitaria data dalla pandemia da Covid-19, il governo ha investito in camionette blindate, carri armati e pubblicità per mantenere alta e pulita l’immagine del governo e un programma televisivo che va in onda quotidianamente su un canale colombiano dove il presidente–presentatore informa i cittadini sui passi avanti del suo governo contro la pandemia. Il tutto, ovviamente, sconnesso da ciò che è la realtà.   

Attualità:   

Durante gli ultimi giorni di marzo il governo annuncia l’imminente realizzazione di una riforma fiscale a cui viene dato il nome di “legge di solidarietà sostenibile”; il 7 aprile il Ministro delle Finanze annuncia che la Colombia ha per andare avanti solo altre 7 settimane; il 15 aprile il governo annuncia che il testo della nuova riforma tributaria intende applicare un’IVA del 19% a beni di prima necessità come sale, cioccolato, zucchero, caffè, e ancora servizi funebri. Ovviamente da molti colombiani questo viene visto come un affronto nonché schiaffo morale alla classe medio-bassa.   

A causa del golpe alla tasca dei colombiani, i sindacati hanno iniziato a muoversi organizzando manifestazioni e blocchi per la giornata del 28 aprile. Il governo guarda incredulo e continua con la sua proposta di riforma; nel corso di queste giornate migliaia di giovani si sono uniti alla causa utilizzando come richiamo anche i social e in pochissimi giorni l’esistenza di questa nuova riforma è diventata virale, sollevando l’indignazione del popolo contro il governo, sostenendo – anche chi solo virtualmente – i cortei, tant’è che il 27 aprile, il giorno precedente alla prima manifestazione, il governo ordina ai comuni tramite un tribunale di sospendere ogni tipo di corteo, vietandolo.  

Se inizialmente la popolazione è intimorita da questi gesti, fa anche da combustibile morale per tutti coloro i quali si sentono oppressi dal governo. Così il 28 aprile scendono in strada milioni di colombiani di tutti gli angoli del paese, una quantità impressionante di gente che, a testa alta, cantando e ballando, alza la propria voce contro un governo che non ha mai veramente conosciuto i propri cittadini.  

Se durante la mattinata la manifestazione è stata pacifica, durante il pomeriggio sono iniziati gli scontri tra il popolo e la polizia: alcuni scontri, causati dai civili, sono stati calmati direttamente all’interno della manifestazione dai civili stessi e altri, invece,sono stati causati dalla brutalità della polizia che apparentemente aveva il compito di placare la manifestazione.  

Da qui inizia il tutto, perché di fronte al rifiuto del governo di ritirare la riforma, iniziano ad essere convocate nuove manifestazioni in tutto il paese, fatte coincidere con la giornata mondiale del 1° maggio. Il governo avverte la popolazione di non uscire dalle proprie case, insiste sostenendo che le manifestazioni altro non erano che atti violenti che non devono ripetersi, ignorando totalmente il grido del popolo e annunciando che saranno messe in atto forti misure di “sicurezza”. Durante la manifestazione del 1° maggio inizia la vera brutalità della polizia in tutto il paese, principalmente nelle città di Cali, Medellín e Bogotá.   

Durante le prime ore del mattino, l’ex-presidente Uribe dal suo profilo Twitter incita le forze armate dello stato ad utilizzare le armi con il seguente tweet:  

“Apoyemos el derecho de soldados y policías de utilizar sus armas para defender su integridad y para defender a las personas y bienes de la acción criminal del terrorismo vandálico” 2   

Immediatamente, dall’interno delle manifestazioni protratte fino a notte inoltrata, iniziano a diffondersi video dell’orrore portato fieramente avanti dalla polizia: spari sui civili indifesi, persone aggredite, giovani assassinati in circostanze ambigue, persone trasportate con forza senza sapere dove. In mezzo a tutta questa atrocità riportata dalle reti (ripeto dalle reti perché i notiziari colombiani continuano a sostenere che non si tratti di abuso di potere e insistono nel riferirsi ai manifestanti con l’appellativo di vandali) alcune emittenti internazionali come il New York Times e la BBC hanno iniziato a denunciare l’evidente ferocia della polizia.  

Il giorno seguente, il 2 maggio, le persone continuano a manifestare, vengono convocati i cacerolazos notturni (persone che, nelle strade, fanno rumore colpendo pentole e quant’altro) per continuare a manifestare, rifiutando la riforma – e la violenza.  

Di tutta risposta, il governo, vedendo che la situazione inizia a sfuggire di mano, decide di inviare l’esercito in città come Cali. Ovviamente questa decisione non fa altro che peggiorare la situazione, i momenti che si vivono sono densi e, temporaneamente, il Ministro delle Finanze decide di bloccare la riforma per acquietare gli animi e addirittura si dimette.  

Ovviamente le proteste continuano, il malcontento è maggiore e le persone si rendono conto che il governo li sta schiacciando e giocando con loro. Con il seguire delle manifestazioni, continuano anche le violazioni dei diritti umani da parte della polizia e tutto resta evidenziato nei video condivisi dagli stessi cittadini. La situazione è tanto grave che, all’arrivo dell’ONU, le forze armate, polizia ed esercito, le impediscono l’ingresso nelle zone di maggior interesse.   

L’ONU fa un comunicato, considerato improprio da parte del governo, e in questo momento tutto diventa incerto all’interno del paese.  Il 5 maggio continuano le proteste e in alcune zone della città è stato bloccato il servizio internet dichiarando guasto tecnico per evitare che venissero diffuse le immagini del massacro che sta andando avanti. 

Martina Grujić B.

Per leggere l’articolo in Spagnolo, clicca qui.

1 Uribe attualmente ha 276 investigazioni e processi aperti, tra cui spunta pure che durante il suo governo 2002 – 2010 ci sono stati più di 6.000 casi di "falsos positivos": durante il suo governo Uribe premiava i militari che portassero morti in battaglia, si andava nelle città e nei pueblos a prelevare giovani ragazzi con la promessa di un lavoro, i ragazzi venivano poi assassinati, vestiti come guerrilleros affinché alla popolazione arrivasse il messaggio che il governo stava lottando, e vincendo, contro la guerrilla.   
2  "Appoggiamo il diritto di soldati e della polizia di utilizzare le armi per difendere la propria integrità e per difendere le persone e i loro beni dall'azione criminale del terrorismo vandalico"

¿Qué está pasando en Colombia?

Contexto: 

En Colombia desde que inició el gobierno del presidente Iván Duque, que fue el candidato del ex-presidente Uribe, el cual tiene en la actualidad 276 investigaciones dentro de las cuales se encuentran que durante su gobierno del 2002 a 2010 se perpetraron más de 6.000 casos de falsos positivos que consistían en matar civiles y hacerlos pasar como guerrilleros de bajas en combate, han pasado más de 100 masacres nada más entre el 2020 y el 2021 que el gobierno pretende ocultar cambiando su nombre por homicidios colectivos desconociendo estos mismos, se ha pretendido acabar con los acuerdos de paz firmados entre la extinta guerrilla de las FARC lo cual ha acarreado en el crecimiento de un nuevo conflicto interno en el país, durante la declaración de emergencia sanitaria o pandemia por el Covid-19 el gobierno gastó dinero  en camionetas blindadas, tanquetas para la fuerza pública, publicidad para la imagen del mismo gobierno y un programa televisivo diario en un canal colombiano donde el presidente hace de presentador todos los días informando el avance de su gobierno contra la pandemia, todo esto desconectado totalmente de la realidad.

Actualidad:

A finales de marzo el gobierno anuncia que realizarán una reforma fiscal a la cual llaman ley de solidaridad sostenible, el 7 de abril el Ministro de Hacienda dice que Colombia solo tiene caja para 7 semanas. El 15 de abril el gobierno da a conocer el texto de la nueva reforma tributaria que entre sus muchos aspectos pretende aplicar con IVA del 19% productos de la canasta familiar como la sal, chocolate, azúcar, café, servicios funerarios entre otros, lo que se considera por muchos colombianos como un duro golpe a la clase media y baja, lo que llamamos clase obrera y trabajadora.

En vista del monumental golpe al bolsillo de los colombianos, las centrales obreras y sindicatos comienzan a convocar marchas y paros para el día 28 de abril, el gobierno nacional incrédulo ante esta convocatoria sigue adelante con su propuesta de reforma, en el transcurso de estos días miles de jóvenes se unieron a la causa compartiendo la convocatoria por redes sociales, en pocos días la información de la nueva reforma era viral y se sentía la indignación del pueblo de forma virtual, la convocatoria multitudinaria era inminente, las redes estaban inundadas de todo tipo de apoyo a la marcha, un día antes de la marcha, el día 27 de abril el gobierno nacional por medio de un tribunal ordena suspender todo tipo de marchas y manifestaciones, ordenan a las alcaldías y gobernaciones quitar los permisos de marchar a los manifestantes, asunto que aunque asustó a muchas personas también sirvió de combustible moral a quienes ya se sentían reprimidos por el gobierno.

El día 28 de abril salen a la calle millones de colombianos de todos los rincones del país, una cantidad impresionante de personas inconformes con lo que está sucediendo salen a las calles de sus respectivas ciudades marchando con la cabeza en alto, cantando, bailando y haciendo sentir en toda Colombia una voz de protesta y de rechazo principalmente contra la reforma tributaria y contra un gobierno indolente y centralizado que no ha querido escuchar a su población.

Durante la mañana las marchas se mantuvieron pacíficas mientras la mayoría de las personas estuvieron en las plazas públicas, en cierto momento de la tarde se comenzaron a ver enfrentamientos entre la población y la policía, algunas causadas por civiles que fueron calmadas por las mismas personas dentro de la marcha y otras causadas por la brutalidad de la policía que aparentemente tenía la orden de disipar las manifestaciones.

Este es el comienzo de todo porque ante la negativa del gobierno de retirar la reforma, se vuelven a convocar nuevas marchas en todo el país para el día internacional del trabajador celebrado el 1 de mayo, el gobierno advierte a las personas que no salgan y que se queden en sus casas, insisten en que las marchas solo fueron actos violentos que no se deben volver a presentar, desconociendo totalmente el clamor del pueblo y anuncian que habrán fuertes medidas de “seguridad“.

Durante esta nueva marcha multitudinaria del 1 de mayo comienza la verdadera brutalidad policial en todo el país, principalmente en las ciudades de Cali, Medellín y Bogotá, en horas de la mañana el ex-presidente Uribe incita en Twitter a las fuerzas del estado a usar las armas con el siguiente tweet

«Apoyemos el derecho de soldados y policías de utilizar sus armas para defender su integridad y para defender a las personas y bienes de la acción criminal del terrorismo vandálico»

inmediatamente en las marchas que se extienden hasta largas horas de la noche, se comienzan a ver videos en vivo en redes sociales de cómo la policía dispara sus armas de fuego contra las multitudes indefensas, se ven videos de policías golpeando a las personas que se encuentran transitando en calma por las calles de sus ciudades, se ven videos de jóvenes asesinados en circunstancias extrañas, se comienzan a reportar desaparecidos, personas llevadas por la fuerza por personas de la policía sin conocerse su paradero, ante tanta atrocidad evidenciada por redes, repito por redes porque los noticieros Colombianos seguían desconociendo que hubiesen abusos de autoridad y por el contrario siguen llamando vándalos a quienes salen a marchar por sus derechos, algunos medios internacionales como el New York Times y la BBC comienzan a mencionar la brutalidad policial vivida en Colombia durante las marchas, ante tales actos las personas siguen marchando el día siguiente, se convocan cacerolazos nocturnos en rechazo a la violencia y obviamente en rechazo a la nueva reforma.

El gobierno al ver que la situación se va saliendo de las manos comienza a llevar ejército a las calles de ciudades como Cali, cosa que empeora la situación, se viven momentos muy tensos, en cierto momento el presidente decide retirar momentáneamente la reforma para calmar los ánimos de las personas, además el Ministro de Hacienda renuncia.

Sin embargo la marcha sigue porque el descontento es mayor, las personas sienten que el gobierno los pisotea y juega con ellos, así como la marcha sigue, siguen las violaciones a los derechos humanos por parte de la policía y todo queda evidenciado en videos compartidos por los mismos habitantes del país, es tan grave la situación que ante la llegada de la ONU, las fuerzas del estado que son policía y ejército les impiden el ingreso a las zonas de mayor afectación, la ONU lanza un comunicado el cual el gobierno tilda como desacertado, en este momento todo es incierto en el país. El 5 de mayo siguen las marchas y en algunas zonas del país, para evitar que se difundan imágenes del masacre, cortan la línea de Internet…

¿Democracia? ¿Libertad?

Javier Noreña

Para leer el artículo en italiano, haga clic aquí.

La sommossa contro il calcio

Ciò che è accaduto nella giornata di domenica ad Old Trafford, è probabilmente l’emblema del calcio 2020/21. Domenica doveva essere il giorno della partita più bella e sentita d’Inghilterra: Manchester United – Liverpool. Le due squadre più importanti, più storiche e più vincenti del campionato più competitivo al mondo si affrontavano nel “Teatro dei sogni”, nella classica domenica alle 17:30.

Ma una vera e propria rivolta ha evitato lo svolgersi di tutto ciò. Una rivolta fortunatamente senza armi, senza coltellate né attacchi alla povera polizia.

Una semplice ma furibonda rivolta per i diritti dei tifosi, i diritti di coloro che hanno la passione per lo sport nel sangue e vuole viverla per l’eternità.

Alle ore 15 il putiferio. Prima che arbitri e squadre giungessero all’estero di Old Trafford, una buona parte della curva del Man Utd (alcuni ignari del rispetto delle regole anti-Covid) ha intonato cori, alzato cartelli e sventolato bandiere contro la dirigenza “Glazers”. I Glazers sono gli azionisti, nonché proprietari del Manchester United da ormai parecchi anni. Malgrado ciò, con la famiglia americana lo United non vince un trofeo da ben quattro stagioni, stabilendo uno dei record più negativi nella storia del club. Ritorniamo però a discutere di tutto quello che sta avvenendo in queste ore e che è avvenuto recentemente a Manchester, e non solo.

Tutto ciò che ruota intorno al calcio è diventato più potente di un “semplice” big match: soldi, mancati pagamenti di stipendi, minacce, errori dirigenziali e SuperLeague hanno vinto contro la bellezza e l’essenza dello sport più bello al mondo.

L’ira funesta dei tifosi e la rabbia verso una società ai vertici del calcio mondiale come il Manchester United è il frutto del lento ma atroce declino del calcio moderno. Un evento chiarissimo accaduto proprio a Manchester ha avuto importanti ripercussioni societarie nei giorni recenti: conoscete l’ex vicepresidente e direttore sportivo Ed Woodward?

Woodward è approdato allo United con l’obiettivo di riportare i “Red Devils” sul tetto d’Inghilterra. Ovviamente in campo ci vanno i calciatori, ma le scelte dirigenziali e tutti gli acquisti passano nelle sue mani. Woodward, dopo numerose dichiarazioni ricevute dal presidente Uefa Ceferin, è stato forzato a rassegnare le dimissioni. Il motivo? Sicuramente non per le parole di Ceferin, ma per un “vis à vis” spiacevole con una ventina di tifosi dello United, proprio all’interno della sua abitazione.

Siam sicuri che tutto ciò sia accaduto solo per andare contro la dirigenza? A parer di molti sicuramente no. La sommossa dell’Old Trafford è storia, perché mai accaduta in Inghilterra prima di una partita così importante. E per di più, l’incontro è stato rinviato a data da destinarsi.

Mai così vicini al baratro, mai così in basso, mai così uniti contro chi sta uccidendo la passione e la voglia di vedere il calcio “con la f” che tutti noi appassionati chiediamo.

Sarà una rivolta o l’annullamento delle partite la soluzione? Non si sa, ma se si è certi di una cosa è che se si procede in questa direzione, è obbligatorio cambiare passo e ritornare a seguire i voleri del popolo.

Se non lo si fa? Aboliamo gli abbonamenti e spegniamo la televisione ogni weekend.

                                                Walter Izzo

Azzardarsi ad amare: Piperita, un romanzo di Francesco Mila

“C’era, forse, qualcos’altro. Una cosa materiale e dura, nera e puntuta, depositata sul fondo di mia madre”.

Il romanzo d’esordio di Francesco Mila, Piperita, edito da Fandango Libri, sembra costruito intorno a un nucleo oscuro, un fondale di lago in cui sedimentano tutti i silenzi e i disagi di un’intera famiglia. Lapo, il protagonista che seguiamo lungo la sua infanzia e adolescenza, sua sorella Emma, il padre, Gioacchino, e la madre, Lucrezia, sembrano sempre sul punto di essere inghiottiti dal vortice di un dolore inesprimibile. Il lago dove la famiglia Callipo trascorre le vacanze è una presenza costante nella storia, insieme concreta e simbolica; intorno alle sue acque i due bambini, Emma e Lapo, crescono, giocano, si fanno male, iniziano a conoscere la vita, esplorandola anche nei risvolti più crudi.

La prima parte della vicenda è incentrata sull’infanzia di Lapo e Emma, sui loro tentativi di compensare le carenze del rapporto con i genitori tramite gesti di protezione l’uno verso l’altra. Sorprende, in questa fase della narrazione, l’energia sprigionata da Emma, la sicurezza ieratica con la quale racconta di aver osservato il mondo ancor prima di nascere, attraverso una finestra nel grembo materno. Lapo ed Emma si sostengono a vicenda, coprono le urla dei genitori raccontandosi delle favole inventate, ed è proprio la protagonista di una di queste storie nonché l’alter ego di Emma, la Piperita, “una specie di implacabile seienne bohémienne”, a dare il titolo al romanzo. L’autore è in grado di trasmettere la forza immaginativa propria dell’infanzia e la delicatezza e la premura che permeano il rapporto tra fratello e sorella. I paesaggi immaginari, le iperboli della loro fantasia aprono squarci nel grigio dei silenzi familiari, interrotti soltanto dalla tosse nervosa del padre e dalla madre che rumina un’insalata immaginando di stare a cena con Simon le Bon. 

Nel descrivere Lucrezia, Mila tratteggia la figura di una donna fragile, assente, che idolatra i divi di Hollywood, dorme con la mascherina per gli occhi come una caricatura di Audrey Hepburn, trascorre le giornate tra riviste patinate, estenuanti sessioni di aerobica e pulizie compulsive. Una madre che prende in considerazione il figlio soltanto per esaminarne i tratti del viso e vagliarne le possibili somiglianze con qualche attore, o per sottoporlo alla ennesima visione di Gioventù bruciata, sempre a patto che rimanga in silenzio. 

Piperita è un romanzo che si interroga sui legami viscerali del sangue, a partire da quello tra madre e figlio, due entità separate violentemente dal taglio del cordone ombelicale, che “da quel momento conservano una mancanza, una privazione reciproca e forse incolmabile”. Memorabili le pagine in cui Lapo osserva Lucrezia prepararsi per uscire la sera canticchiando Satisfaction dei Rolling Stones: “era allo specchio che offriva i suoi sorrisi più belli”. Lucrezia non è in grado di assicurare neanche una presenza fisica ai propri figli, poiché, dopo aver vagheggiato viaggi in California o a Cuba, decide di partire senza dare spiegazioni, provocando una ferita insanabile in Lapo e sconvolgendo Emma, che da questo momento si chiude in se stessa, progressivamente sparendo dalla narrazione.

Il padre Gioacchino è “un uomo per cui i sentimenti erano vizi, esagerazioni incompatibili con le cose”. Incapace persino di trovare il tempo per insegnare al figlio ad andare in bicicletta, preferisce dedicarsi alle sue adorate ortensie. Chiuso in un incomprensibile mutismo, quando si abbandona all’ascolto di brani di Pino Daniele sprofonda in una “anchilosi mentale”. Lapo prova per il padre qualcosa a metà strada tra l’affetto e il ribrezzo. Analogamente al modo in cui aveva tentato di comprendere sua madre spiandola attraverso porte socchiuse, Lapo esplora i ricordi di suo padre, rovistando tra scatole di lettere e foto impolverate, per cercarvi i frammenti di quella vita taciuta e tentare di figurarsi il passato prenatale in cui, forse, i suoi genitori si erano amati.

Divenendo sempre più deboli i legami che uniscono i componenti della famiglia Callipo, irrompono nella storia altri due personaggi fondamentali per la crescita di Lapo: Amedeo e Greta. Il primo, istrione e ribelle, lo conduce per mano attraverso i riti di passaggio dell’adolescenza: dalle prime canne ai rituali del corteggiamento, Amedeo apre Lapo alla vita fuori da sé e dal dolore che custodisce. L’autore, con le sue parole, trasmette bene l’affilarsi dei sensi dei due giovani tra le luci del Piper, gli occhi di Lapo che si soffermano a descrivere le ragazze: “slanciate, fra la calca, sgomitavano voltandosi per assestare schiaffi o per lasciarsi baciare”. 

Greta, fin dal primo incontro con Lapo, tenta di far crollare la barriera di timidezza e riserbo che il protagonista ha eretto intorno a sé, lo introduce all’amore e tenta di comprenderlo ed accettarlo anche nelle sue debolezze. La paura profonda di Lapo è di condividere con Greta la medesima sorte di abbandonati, di far parte di quella schiera di persone guaste, irrimediabilmente mutilate negli affetti, ormai condannate a infliggere agli altri ciò che è stato fatto loro. Anche Greta ha le sue cicatrici, eppure è in grado di spiazzare Lapo con i propri inesausti tentativi di comprenderlo, di accettarlo. Lapo non riesce a comprendere come possa piacere a Greta nonostante non assomigli per niente a James Dean. Piperita ci ricorda che una componente importante dei dolori che si provano durante l’adolescenza consiste in una vergogna indefinita, quasi un fisiologico senso di inadeguatezza che porta a chiudersi in sé e nascondersi dietro ad una posa. 

Francesco Mila, nato nel 1996, con questo romanzo ci fa rivivere una fase, quella dell’adolescenza, ancora non così distante da lui da apparirgli sfocata, per mezzo di una prosa essenziale ed evocativa che non sfocia mai nel patetismo, neanche quando sfiora temi delicati, quali i disturbi alimentari o l’abuso di psicofarmaci. Attraverso gli occhi del protagonista intravediamo gli abissi a cui portano il silenzio e l’abbandono, fondali in cui rischia di rimanere per sempre, magari in compagnia dei bambini-lisca, gli abitanti del lago creati dalla fantasia di Lapo ed Emma. Ma, toccato il fondo, partecipiamo al suo disperato bisogno di risalire in superficie, di crescere, di tendersi verso l’altro e azzardarsi ad amare.

Massimiliano Davies