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Aborto: una libertà continuamente ostacolata

Siamo alla fine degli anni ’70 quando il diritto all’aborto viene riconosciuto in Italia. Prima di allora, decenni passati a praticare l’aborto clandestinamente, in condizioni igieniche precarie, il che lo rendeva inevitabilmente insicuro e pericoloso. Ma finalmente, dopo anni di lotte femministe abbiamo vinto questa battaglia: il 22 maggio 1978 viene approvata la legge 194, confermata poi da un referendum nel 1981. Quello che è un piccolo passo per l’umanità intera per le donne italiane è un biglietto in prima classe per la fine della società patriarcale. O almeno, così credevano. Già, perché purtroppo non è tutto oro ciò che luccica. A distanza di 40 anni dall’approvazione di questa importantissima legge, abbiamo fatto almeno altri venti passi indietro. La 194 è la conferma che non basta una legge per far sì che le disuguaglianze vengano colmate. Perché a 40 anni di distanza, le difficoltà che incontrano le donne italiane non sono poche.

L’obiezione di coscienza non è assistenza sanitaria

Prima di addentrarci in questioni “etiche” vediamo qualche dato: secondo i dati del 2016 la percentuale di obiettori di coscienza in Italia è del 70%, anche se varia a seconda delle regioni, raggiungendo il picco massimo in Molise con il 96% (un solo medico abortista, scioccante, vero?). Dunque, una donna che decide di esercitare un diritto totalmente riconosciuto dalla legge va incontro ad intolleranza e ostilità nella maggior parte dei reparti di ginecologia. E non finisce qui, perché gli unici obiettori non sono solo i medici e i ginecologi. Talvolta anche i farmacisti si sentono in diritto di decidere sul corpo delle donne. Sì, perché in Italia è possibile fare ricorso a due contraccettivi di emergenza, Norlevo ed Ellaone: la pillola del giorno dopo e la pillola dei cinque giorni dopo. I farmacisti però, a differenza dei medici obiettori, sono obbligati a vendere i farmaci in questione perché si tratta di anticoncezionali che impediscono la gravidanza, non di pillole abortive che la interrompono. È una differenza fondamentale che spesso molti farmacisti obiettori si dimenticano volutamente.

Pro vita o pro nascita?

Se si parla di aborto non si può non parlare di loro: le associazioni pro vita. In Italia abbiamo Pro Vita e Famiglia Onlus. Che ruolo occupano queste associazioni? Di cosa si occupano? Prima di tutto, loro si definiscono “per la vita” e supportano solo e unicamente la “famiglia tradizionale”, sono i promotori del Family Day e gli organizzatori del Congresso delle Famiglie di Verona del 2019. Continuano a propinare la concezione della donna-madre, ovvero una donna che è valida solo se dà alla luce un figlio, che raggiunge la sua massima aspirazione durante la gravidanza ed esprime tutto il suo potenziale solo attraverso il parto. Non a caso, si oppongono con tutte le loro forze alla legge 194 chiedendone l’abrogazione. A questo punto viene spontaneo chiedersi se queste associazioni siano effettivamente a favore della vita o delle nascite. Costringere una donna ad affrontare una gravidanza, che non vuole o non può permettersi, tramite pressioni psicologiche e soldi può davvero essere considerato “provita”? Ai posteri l’ardua sentenza.

Diritti umani: strumento privilegiato di propaganda sovranista

“Mio il corpo, mia la scelta” recita un famoso slogan femminista. Eppure, questo non sempre accade perché non è raro che il corpo delle donne diventi uno dei punti del programma elettorale di un qualche partito populista. Partiti che hanno un seguito maggiore delle associazioni provita. Ed è qui che la questione inizia a diventare politica e a non riguardare più solo il singolo. Numerosi sono stati i casi in cui si è cercato di impedire o limitare la possibilità di abortire, il tutto condito da pressioni psicologiche e da bonus in denaro come premio di consolazione. Umbria, 2020. La presidente della regione Donatella Tesei, leghista e molto vicina alle associazioni Prolife, abroga una legge regionale della precedente amministrazione di centro-sinistra che permette l’aborto farmacologico in day hospital. È un vero colpo basso ai diritti delle donne. Molte di loro scendono in piazza per protestare. Ad agosto, però, si intravede uno spiraglio di luce: il ministro della salute Roberto Speranza cambia la direttiva permettendo la somministrazione della pillola abortiva Ru486 in day hospital, ovvero senza i tre giorni di ricovero. L’Umbria deve adeguarsi, anche se molto recentemente la presidente Tesei è tornata sull’argomento dichiarando che cercherà di mantenere la possibilità di richiedere il ricovero per le donne che lo vorranno. Lombardia, 2020. Il comune d’Iseo, in provincia di Brescia, approva una mozione con la quale decide di stanziare un fondo di 160 € per le donne che rinunciano ad abortire e decidono di partorire. Decisione discutibile e criticata da molti. Un bel gesto sostenere economicamente una donna che decide di partorire? Bene, però qui c’è un problema di fondo: il documento si basa su un duplice attestato, ovvero la dichiarazione dello stato di gravidanza e della richiesta di abortire. Ciò significa che il bonus di 160 € è destinato solo e soltanto alle donne che, per qualche motivo, decidono improvvisamente di continuare la gravidanza, non a tutte coloro che decidono semplicemente di partorire e metter su famiglia. Dunque, è una caccia alle streghe. Una ricerca ossessiva della strega che decide di fruire liberamente del proprio corpo sfidando l’autorità patriarcale. Inoltre, il secondo punto del documento prevede che il comune finanzi economicamente le famose e già citate associazioni provita, confermando la presenza del loro zampino. Infine, è importante ricordare il partito politico in cui milita il sindaco d’Iseo: Fratelli D’Italia. I corpi e gli uteri delle donne sono i protagonisti di queste vicende. Eppure, visti da una certa ottica i desideri e le decisioni della donna in questione finiscono in secondo piano, schiacciati, sottomessi dai politici che cercano di arrogarsi il diritto di scegliere al posto della diretta interessata. È inconcepibile che i diritti umani vengano strumentalizzati per raccattare consensi. Questo è solo uno dei tanti motivi per cui il femminismo odierno non può essere apolitico.

Come abbiamo potuto vedere, l’Italia non è esattamente al primo posto in Europa per il libero accesso all’aborto. Le difficoltà sono tante e la 194 non può combattere lo stigma sociale dell’aborto, né può opporsi alle politiche antiabortiste. La legge è solo uno dei primi passi verso una totale e completa parità: siamo noi, donne e uomini comuni, che abbiamo il compito di rovesciare la società patriarcale, alleandoci e sostenendoci l’un l’altro. Per essere liberi bisogna essere prima di tutto consapevoli, e solo allora sapremo per cosa lotteremo e in che modo ne trarremo beneficio. La 194 non è un favore che ci è stato concesso, ma un diritto che ci siamo sudate dopo anni e anni di lotte e proteste: per questo bisogna continuare ad attivarsi per far si che una legge che diamo per scontata in un paese civile non venga abrogata. E non crediate che basterà ostacolare l’aborto per far sì che ciò non avvenga, poiché un’eventuale abrogazione della 194 porterebbe inevitabilmente alla macabra pratica dell’aborto clandestino (come già avveniva in passato), che non solo favorirebbe la morte del feto (quella stessa “morte” contro la quale i provita tanto combattono), bensì metterebbe a serio rischio anche la vita della stessa madre.

Giorgia Brunetti

Fonti:

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Primo comandamento: non rimanere incinta

Prima che l’attenzione mediatica fosse totalmente fagocitata dal covid due notizie avevano particolarmente attirato la mia attenzione: la prima riguarda le dichiarazioni di Matteo Salvini sulle donne richiedenti aborto che, a suo dire, intasavano i pronto soccorsi, la seconda riguarda un breve articolo di Milena Gabbanelli per il Corriere della Sera che sparava dati a tutto spiano sull’incredibile aumento di richiesta di pillola del giorno dopo, farmaco richiesto sopratutto dalle giovanissime. In entrambi i casi nella notizia non c’era nessuna contestualizzazione, nessuna analisi sociale, solo dati. Da entrambi i lati con stili e modi diversi si punta il dito su chi una gravidanza non la vuole e ricorre a metodi dell’ ultimo momento per evitarlo, si punta il dito con la supponenza dell’adulto che dall’alto dell’età sa che non si dovrebbe arrivare a tanto e che la contraccezione è una cosa seria. Nessuna riflessione sul perché questo accada? I diversi media stimolano solo una colpevolizzazione strisciante o palese per la ragazza X (noi la chiameremo Maria) che è andata a comprare la pillola.

È facile sparare a zero su Maria, più difficile è interrogarsi seriamente sul perché di tutto ciò.

La risposta è semplice ed è da ricercare in ciò che viene inculcato a Maria fin dalla più tenera età: non restare incinta prima dei 30 anni o la tua vita sarà rovinata, non troverai lavoro, non ti laureerai, avrai difficoltà relazionali… Allora la ragazza di 16/18/22 anni che fa? Fa di tutto per non restare incinta pensando che quello possa essere l’unico problema serio che possa incidere sulla sua vita. Ma è più un problema avere un figlio o l’HIV? Ed ecco qua la domanda con cui non ci si confronta mai.

Se il problema della ragazza è avere un figlio non si preoccuperà più di tanto se deve ricorrere alla pillola del giorno dopo. La pillola risolve il problema, la butti giù e via, hai risolto, tua mamma non si incazza e non diventi lo zimbello del paese. Il primo comandamento trasmesso alle giovani italiane non dovrebbe essere: “non procreare!” ma “sii sana!”.

Delle malattie sessualmente trasmissibili invece in Italia non si parla mai: in famiglia è un tabù, la scuola non si assume questa responsabilità e la comunicazione istituzionale è prossima allo zero. Per quanto tempo vogliamo rimanere così ipocriti? Cosa ci si aspetta dalla diciottenne/ventenne in questione? Che non abbia rapporti sessuali? Che scelga un uomo anch’esso illibato e ci rimanga legata a vita? Magari la nonna di Maria a vent’anni aveva già due figli, ma non era certo tacciata di essere una poco di buono. Avere una vita sessuale è normale come dovrebbe essere normale essere pienamente informati su rischi che si corrono… e invece no: buona parte dei ragazzini non sa nulla. Poche informazioni ovattavate fintate per caso da film, libri, conversazioni a mezza bocca dai più grandi. Io stessa ho sentito un ragazzo di ventiquattr’anni, figlio di medici, chiedere con candore: “Ah ma con l’AIDS non si nasce?”  

In molti licei si fanno iniziative su qualunque cosa: la mafia, i tumori al seno, i tibetani, i minatori del Kosovo… ma raramente qualche professore si prende la briga di sfiorare lo spinoso argomento delle malattie sessualmente trasmissibili. Eppure queste esistono, sono in crescita e nella buona parte dei casi la trasmissione è eterosessuale.

Se si riuscisse ad educare correttamente i più giovani su quale è il vero rischio di un rapporto non protetto di certo si ridurrebbero anche le gravidanze non desiderate, ma non solo. L’informazione sulle modalità di contagio, la diagnosi, le manifestazioni delle diverse malattie garantirebbe una prevenzione diffusa ed eviterebbe anche di stigmatizzare il malati come ancora troppo spesso avviene.

Il malato, infatti, potresti essere tu, il tuo vicino di casa o Maria, la quale pensando che due giorni prima del ciclo non sarebbe mai potuta rimanere incinta o non sapendo che si poteva ammalare poiché convinta che HIV fosse una malattia congenita, africana o scomparsa da decenni adesso sarà per sempre malata. Sulla Maria di turno sarà sempre facile puntare il dito, perché è giovane, perché è rimasta incinta, perché è malata. Eppure la colpa non è sua, ma della società che l’ha lasciata ignorante, di quella società che però continuerà a darle della poco di buono.

Eleonora Ciocca

Uomini che parlano per le donne

Quasi un anno fa, più precisamente il 22 maggio, ricorrevano i 40 anni dalla promulgazione della Legge 22 maggio 1978, conosciuta anche come Legge 194 o più semplicemente Legge sull’aborto. La lunga e aspra battaglia per ottenere una norma che depenalizzasse e  regolasse in Italia l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) era stata portata avanti in prima linea dai radicali, seguiti e appoggiati da altre forze politiche laiche e numerose realtà sociali.
Nel corso degli anni sicuramente non sono mancate le polemiche sempre più crescenti nei confronti di questa legge, che però negli ultimi mesi ha subito dei veri e propri colpi, culminati con una proposta di riforma di pochi giorni fa da parte della Lega e presentata alla Camera, sottoscritta da una cinquantina di parlamentari. La riforma proposta non prevede la rimozione della 194, ma il riconoscimento della “soggettività giuridica al concepito al fine dell’adozione”. In poche e semplici parole, una nuova legge prevederebbe l’adottabilità del nascituro già in gravidanza. In parole ancora più povere, se una donna dovesse rimanere incinta e volesse pensare all’aborto, secondo la Lega verrebbe convinta a rinunciare dalla possibilità di dare in adozione il futuro figlio fin dal grembo materno, prima ancora che nasca. In sostanza, puoi trovare una famiglia che adotti tuo figlio in qualsiasi momento della tua gravidanza, dal concepimento alla nascita. Che poi suona molto simile a “maternità surrogata” o “utero in affitto”, quella pratica che secondo la Lega sarebbe abominevole e atta a mercificare la donna, ma che evidentemente è tale solo nel caso in cui fosse la sua vera prima scelta e non se dovesse essere un ripiego che si trova costretta ad attuare in un Paese e una società che la giudicano brutalmente per una scelta, talvolta le impediscono di realizzarla e che la costringono a subire una violenza psicologica sotto il nome di “amore per la vita”.

Ma la parte piú preoccupante della proposta è forse la premessa, in cui si sostiene che gli aborti sono in aumento e che sono la principale causa della denatalità – possiamo letteralmente leggere “Manca all’appello una popolazione di 6 milioni di bambini che avrebbero impedito il sorgere dell’attuale crisi demografica”. Non solo queste sono chiaramente informazioni false – è palese agli occhi di tutti che dal 1978 ad oggi gli aborti sono drasticamente diminuiti e continuano ad essere in calo anno dopo anno e soprattutto vorrei ricordare ai leghisti che nel nostro Paese vivono migliaia di bambini nati sul territorio che non hanno diritto alla cittadinanza e quindi non entrano nel calcolo demografico, pur esistendo -, ma portano ad un’unica conseguenza: criminalizzare la donna. Perché se si permette l’adozione del feto e gli si dà quindi soggettività giuridica, si ammette che la donna potrebbe ledere qualcuno che è titolare di quella soggettività e quindi renderla colpevole di un crimine.

Come se per una donna un aborto non fosse già psicologicamente – e fisicamente – destabilizzante e doloroso, come se fosse una decisione presa a colazione tra un caffè e una passeggiata per andare a lavoro, come se chi decidesse di abortire non tenesse alla vita, come se una donna avesse bisogno di essere convinta da una riforma ad una legge che nella realtà già a volte non riesce a tutelarla scritta da uomini a non abortire.

Martina Moscogiuri

 

L’Irlanda ha detto Sì

Sembra ancora surreale che nel 2018 vi siano articoli su articoli (come questo d’altronde), pronti ad elogiare l’enorme passo in avanti che ha fatto l’Irlanda.
Per quanto però possa essere scontato, e per quanto in Italia queste battaglie le abbiamo fatte  nel ’78 (anche se gli obiettori di coscienza sono circa il 69,6% tra i ginecologi) il passo che ha fatto l’Irlanda ha un’importanza storica enorme.

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