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BJLFP – OSCURA COMBO ROMANA

Come ho spesso dichiarato, la mia è una guerra al pop e al commerciale, quindi sto lì a scovare o accettare suggerimenti di chi ne sa qualcosa in più di me e mi immergo in nuova musica. Da qui nasce l’intervista ai Bobby Joe Long’s Friendship Party, l’Oscura Combo Romana di cui – credetemi – noi tutti abbiamo bisogno!

Bobby Joe Long’s Friendship Party… Da dove nasce il vostro nome?

Nasce una notte che stavo guardando un documentario su Bobby Joe Long. Ad un certo punto lui – che poco prima sorrideva bonario -, prende e sputa direttamente in camera trasfigurato dall’odio. Si trovava credo in tribunale, al suo processo. Nel documentario questo passaggio veniva riproposto più volte, slow e con la voce narrante inorridita. In quel momento mi è venuto in mente Bobby Joe Long’s Friendship Party come un nome fico per un gruppo musicale (e la cosa mi faceva ridere molto). Questo però accadeva mesi prima di mettere su il gruppo, perché all’epoca non ci stavo neanche lontanamente a pensare di fare musica. Cioè non era proprio una cosa contemplata la musica. Poi invece quando ho iniziato a fare musica magicamente e repentinamente, mi sono ricordato del nome Bobby Joe Long’s Friendship Party…

Se doveste definire il vostro tipo di musica, che aggettivo utilizzereste?

Boh (come aggettivo proprio…).

È molto interessante la combo di base strumentale e voce, più che cantata, parlata. Come ci siete arrivati? L’avete pensata sempre così o è una decisione maturata nel tempo?

Io non so cantare. Ho deciso di provare ad esprimermi sulla musica spontaneamente, abbiamo reputato (io e chi mi stava attorno in quel momento) che la cosa era praticabile, e penso che abbiamo avuto ragione. La costruzione dei pezzi (per lo meno nel primo album Roma Est) l’ho comunque immaginata su quello che dovevo dirci sopra.

Addirittura in True Crime ist Freundschaft c’è una totale assenza di parole per tutti e 4 i minuti di canzone. Infatti, potremmo dire che l’essenziale è racchiuso in questo titolo anglo-tedesco. In un’epoca in cui siamo riempiti di parole, spesso anche senza senso purché non ci sia silenzio, qual è il vostro rapporto con l’uso delle parole?

Più passa il tempo e più le parole sono importanti proprio perché tutti hanno loro veritiera versione dei fatti dal Big Bang ad oggi… Se poi incentriamo il discorso sulla musica, allora ti dico che il linguaggio è lo strumento principale e ancora inesplorato per larga parte, quello che porterà più innovazione e definirà nuovi generi.
L’originalità sarà per forza di cose data sempre più dai testi, da come vengono espressi, dal loro contenuto che dalla musica stessa in futuro.

Semo solo scemi, perché?

Perché sì. Perché è vero. Perché nessuno poi lo ha mai fatto, cioè s’è definito Scemo, ci ha messo la faccia e ha poi venduto la cosa in vinile a 33 giri…

Quando vi ascolto non posso che non pensare a protesta sociale. Quanto vi sentite protesta e quanto sociali?

Magari dentro ai BJLFP c’è una certa forma di protesta, ma secondo me nell’insieme è più una protesta culturale, nel suo senso più ampio e rarefatto possibile. E soprattutto non è una protesta pensata più di tanto, certo alcuni pezzi e passaggi sono attentamente ponderati, ma in linea di massima scrivo sotto l’impulso del momento, e alla svelta. Essendo i BJLFP una estensione di me stesso, però ti rispondo in maniera più diretta e ti dico che sono un disagiato nei giorni pari, e un disadattato nei dispari, con un certo vissuto, una cultura che vuoi o non vuoi stai sempre lì che la rimpolpi, e un quotidiano a Roma Est… dunque è normale che avverti una forte componente di protesta nei BJLFP…

Magno bevo e tifo Romaquanto è presente Roma in ciò che fate?

Roma non è una presenza, è parte di quello che facciamo. E forse anche uno dei motivi per cui facciamo quello che facciamo. Non la amo perché è la mia città, la amo perché è la città. Spiritualmente tutto al di fuori di Roma è e sarà sempre in tono minore.

Dite che in Alain Delon non c’è mai stata traccia di borghesia. Come la vedete voi la borghesia?

La borghesia è una corruzione dello spirito, non una condizione sociale. Per me il borghese può essere chiunque e di qualsiasi estrazione. Perciò quando dico borghesia faccio riferimento al facile compromesso, la costante ricerca del tornaconto personale, il proprio benessere a discapito degli altri e altre cose simili.

Recentemente su una IG story avete scritto “l’unica cosa che realmente mi dà sollievo e speranza riguardo l’umanità, è l’arte” – specificando che non ci si riferisce a un quadro appeso su un muro, l’arte cos’è? Cosa vi dà e come vi fa sentire?

L’arte è il necessario bisogno dell’individuo di processare la realtà, per esorcizzarla, renderla più tollerabile, accogliente. Viene concepita egoisticamente, ma per assurdo fa riferimento sempre agli altri ed è il vero collante tra gli individui, tra il passato e il presente. L’unica cosa che mi spaventa davvero è il non provare più stimoli davanti l’arte. Il giorno che reputerò inutile e vuota l’arte tutta sarà il giorno che verrà meno anche la voglia di vivere e allora per ripicca cercherò un suicidio variopinto alla carioca in una suite di qualche grande hotel decadente sulle Dolomiti con indosso una giacca a coda de rondine color prugna.

Voi vi identificate come arte?

Certo.

Qual è l’album a cui siete più legati?

Roma Est, per una serie di motivi che sarebbe lunghissimo elencare.

Se vi chiedessi di associarlo a un movimento storico, politico, artistico o letterario, quale sarebbe e perché?

Futurismo perché Zang Tumb Tumb!

Che effetti ha avuto la quarantena su di voi? Come vi siete sentiti?

Spandau non lo so di preciso. Arthur Ciangretta anche. Ma so di Romolo Tremolo che vive vicino ad un ruscello e si è cimentato con la pesca a mani nude…
Cazzate a parte è stato un cazzo di disagio e considera ancora ci dobbiamo beccare. Ho avuto comunque inediti sentimenti in lockdown, inediti sentimenti di disagio intendo, e mi hanno ispirato nuove tracce.

Tra l’altro da questa pandemia è nata anche “È UNA POTENZA DI FUOCO”. Quanto è presente la politica nella vostra musica?

È uno degli ingredienti principali della società. I BJLFP attingono alla società. Di conseguenza è presente e ritorna, ma credo nella forma giusta, quel tanto che serve per impepare il discorso ma non appesantirlo.

Più in generale, nelle vostre basi c’è di tutto: oriente, occidente, passato e contemporaneo. Vi sentite figli della globalizzazione?

No. Io vengo dagli anni ottanta e sono cresciuto man mano che le cose cambiavano osservando disorientato il cambiamento.

Qual è il genere, o i generi musicali, che vi ha guidati nella creazione del vostro?

Ho assimilato musica di tutti i tipi da quando ero bambino. Nessun genere ci ha ispirato di preciso, visto anche che l’originalità della nostra musica nasce anche proprio dalla commistione eretica di diversi generi musicali. L’unico a cui debbo qualcosa per un discorso di semplicità ed efficacia è il post punk, quello dei Joy Division. Più che altro in alcuni pezzi per il principio del giro di basso/chitarra associato ad una cassa dritta.

C’è qualcosa che non sopportate della musica d’oggi?

Non ascolto musica che non sopporto. Di conseguenza oggi come oggi ti posso solo rispondere che ci sono molti bravi musicisti.

Siete più da CD o vinile?

C’ho tipo una cifra di cd, ma ho riscoperto il vinile (fino a qualche anno fa li contestavo i vinili) e devo dire che adesso sono più da vinile.

C’è un tema di cui avreste voluto trattare in una canzone e ancora non avete parlato?

Sì, una volta presi una buca clamorosa da una donna che veniva da oltreoceano e che mi aveva dato appuntamento in un’altra città… avevo scritto due canzoni sul tema. Uno indulgente e romantico, e uno per nulla indulgente e romantico. Non sapendo quale scegliere tra i due non se ne è fatto nulla. Ancora oggi non so quale tra i due è il più attinente con la realtà perché non so ancora (e credo forse non lo saprò mai) il motivo vero e proprio di quella buca.

Prima di lasciarci, un’ultima domanda: qual è l’aggettivo o frase con cui descrivereste l’epoca di cui siete protagonisti?

Un’epoca dove tutto è possibile e nulla tangibile.

Martina Grujić B.

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La prima notte di quiete

Immaginate che il Samourai di Melville, sopravvissuto al colpo fatale infertogli alla fine di Frank Costello faccia d’angelo (1968), voglia rifarsi una vita. Provate quindi ad immergerlo in una provincia dominata da un bianco opaco e lattiginoso, in un gruppo di vitelloni goliardi come compagni e con un passato totalmente diverso, più sofferto.

In questo modo avrete in mente l’impressione che Alain Delon (1935) fa col suo cappotto beige per le strade di una Rimini nebbiosa, sonnolenta, disperata. Il paesaggio è in perfetta armonia con l’inquieto Daniele Dominici, che cammina per “quella costiera adriatica che avevo visto l’inverno, quando non c’è l’esplosione del turismo estivo, stretta dal rancore, dalla ferocia, dalla violenza. L’avevo vista, quella violenza dell’uomo sulla donna. La prima notte di quiete (1972, nda) è un film molto legato ad un certo ambiente geografico.(Zurlini)

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Siamo nel 1972: il regista Leone d’Oro per Cronaca familiare (1962) lavora al suo penultimo film con lo sceneggiatore Enrico Medioli che per il melodramma (ancor meglio se turgido) ha talento. Dal soggetto esce un film romanzesco di rapporti sfaldati, denso di simbolismo (cristiano), d’esattezza psicologica nello scandaglio della provincia.

Il Daniele Dominici di Delon è un randagio, supplente in un liceo del capoluogo romagnolo senza passione per l’insegnamento ma capace di slanci lirici. Suo unico svago è ritrovarsi di sera a giocare o andare a troie col colto Spider (un Giancarlo Giannini frizzante), il ricco Gerardo (Adalberto Merli) e Marcello (un Renato Salvatori in fase calante).

Sono piccole distrazioni dai ricordi di un passato che non vuole rimembrare e da un’amante, Monica, che ormai sembra essere nient’altro che uno sbaglio. Il contraltare per questa donna focosa col corpo di Lea Massari è una sua studentessa dall’aria scocciata, apatica e dal viso lunare della ballerina Sonia Petrova: Vanina Abati.

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La ragazza, figlia di una megera resa da una sprezzante Alida Valli, è un “vaso d’iniquità” (Morandini) e attira l’ombroso professore che è spinto a sondare i suoi silenzi e smussarne gli spigoli. Il finale sarà tragico.

Zurlini è regista di genio e disegna il Limbo in cui si muovono i protagonisti con la camera e le luci dense di Dario Di Palma. Il suo romanticismo si traduce in immagini efficaci che fanno risaltare spazi e corpi; in dialoghi che nella prima parte brillano per intelligenza e nella seconda recuperano (anche troppo) in massa, quando i personaggi scaricano gli uni sugli altri il peso dei propri fantasmi.

Film indubbiamente sbilanciato, avrebbe potuto essere gestito secondo un dosaggio più forte nel linguaggio verbale, cosa che avrebbe influito non poco sulla letterarietà del risultato. I riferimenti cristologici che s’addensano verso il finale erano più adatti ad un romanzo che ad una pellicola.

I sentimenti dominano, ma ne La prima notte di quiete la nebbia di Rimini funge da nube tossica che non fa intravedere la Salvezza. Ai protagonisti non restano che momenti densi di significato come la danza della Petrova e di Merli sotto gli occhi di un Delon innamorato, sulle note di Domani è un altro giorno della Vanoni: quella scena è ben più intensa della visita alla Madonna del Parto.

Zurlini è un regista di amori: nelle sue corde non manca mai la freschezza coniugata col realismo, la resa del quotidiano non s’allontana dagli affetti ma ne è potenziata. Suo sbaglio, in questo film divenuto comunque di culto, fu di unire frammenti liturgici al suo spartito.

Questi scompensi, seppur visibili, non tolgono rilievo al fascino del film: bisogna ricordare che fu il figlio di una gravidanza assai travagliata. Il pubblico amò il risultato ed il suo protagonista nonostante tutto:Da lui (Daniele Dominici, nda) nacque una storia molto semplice, divisa fra verità e verosomiglianza, nonché il mio film che amo di meno ma per ragioni del tutto diverse (…). Lo amo meno degli altri perché fui brutalmente costretto dalle circostanze a disamarlo, perché il protagonista – che ne ricavò un trionfo – era l’opposto morale del personaggio e non ne rifletteva che esteriormente la profonda gentilezza e l’inguaribile malinconia. Furono dieci settimane di lavoro massacrante rette sulla forza dei nervi e sull’orgoglio di non cedere, di sofferenza e di amarezza, forse come si può provarle quando si scopre in un figlio molto amato una vocazione di criminale. Nonostante questo fu il film italiano di maggior successo del 1972.” (Zurlini)

Antonio Canzoniere