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L’Explosion di Ascy

La scena musicale italiana, come d’altronde ogni altra scena musicale, la lingua, la cultura e praticamente ogni cosa possa venire in mente a chiunque, tende sempre più velocemente alla semplificazione. Tralasciando i massimi sistemi e concentrandosi solo sulla musica (in quello che è invontariamente anch’essa una semplificazione) i ritmi sono sempre più elementari, le parole sempre meno, i concetti più stereotipati. Ascy va in controtendenza rispetto a tutto ciò. La sua musica è ariosa, a tratti barocca, ogni istante porta a qualcosa di inaspettato rispetto a ciò che si ascoltava un istante prima: Explosion è un EP complesso e piacevole da ascoltare, in un costante gioco di suoni e parole che coinvolgono l’ascoltatore costantemente. L’intervista che è scaturita dall’incontro con lui non poteva che essere simile. Inizia piano, a tratti in maniera compassata, ma poi mentre il musicista si riscalda escono fuori tutti i lati che compongono la personalità sfaccettata di Ascy: la filosofia, lo studio, l’improvvisazione. Vi lascio alle sue parole.

Ciao Ascy! Iniziamo da te: da quanto fai musica?

Io ho iniziato a suonare la chitarra in terza elementare, poi dalla chitarra mi sono allargato ad altri strumenti che continuo a studiare e approfondire ancora adesso.

Come è nata questa tua passione?

A casa. Mio padre ascolta molta musica, è il tipo che ascolta sempre musica a tutto volume. Inizialmente ascoltavo hard metal, heavy rock, che è il suo genere, poi studiando mi sono appassionato anche ad altri generi.

Sei un musicista a tempo pieno?

No, però ovviamente l’aspirazione è quella. Continuo a studiare, sono al secondo anno di Filosofia a Roma Tre, nel frattempo faccio attivismo, e poi lavoro. Diciamo che sono abbastanza impegnato… Quindi ecco a tempo pieno no, ma rimane comunque una parte prioritaria.

Come coniughi la tua vita universitaria e quella artistica?

Diciamo che è complicato. Vedo la musica come uno studio, un po’ come l’università, ci vedo dei punti molto simili, quindi a volte coniugarle è un po’ difficile: quando stacco dallo studio per gli esami e passo allo studio della musica il cervello è saturo. La musica resta sempre però l’attività che faccio quando voglio stare un po’ tranquillo, mi offre l’occasione per staccare.

La pandemia ha colpito in maniera corposa sulla vita di tutti noi, sconvolgendo le abitudini, il modo di vivere e le prospettive della fascia più giovane della società. Che impatto ha avuto sulla tua produzione artistica?

Sicuramente mi ha rallentato. Fino a un anno fa avevo intenzione di trovare persone che suonassero con me per registrare la mia musica, e la pandemia ovviamente ha bloccato molte cose. Mi ha portato a dover fare tutto da solo, che da una parte è stato anche un bene, perché mi ha dato modo di fare pratica con la registrazione, con il mixing e anche con lo studio dei vari strumenti. Mi ha dato tanto tempo da dedicare alla musica, ma allo stesso tempo mi ha impedito di continuare con l’idea iniziale.

Il 14 Dicembre è uscito l’EP “Explosion”. È la tua prima opera organica?

Avevo provato le prime registrazioni, circa un anno e mezzo fa. Avevo pubblicato un altro EP su SoundCloud, ma ora non sta più neanche lì perché ogni volta che lo risento mi sento male, “Mamma mia la monnezza che ho fatto”, alla Boris. C’è comunque una certa nostalgia verso i primi tentativi, quella è stata una prima opera organica, ma mi è servita più che altro proprio per imparare le basi, letteralmente a premere “REC” sui vari programmi. Bell’esperienza eh, ma considererei comunque Explosion la mia prima opera seria.

Da dove nasce l’idea? E come è stata la sua gestazione?

I brani nascono di solito da idee che mi appunto, sia musicali che di testo: mi capita di fare un po’ entrambe le cose, sia di registrare melodie, basi, accordi e poi andarli a sviluppare, sia di scrivere qualcosa, e partire da quello. Mi segno ciò che mi colpisce, è come se ci fosse un germe che tu vai a raccogliere e poi ad allargare sempre di più, riempendolo di parole e di suoni. Nel caso specifico di questi quattro brani, erano quelli che avevano una maggiore coerenza tra di loro, quindi ho deciso di metterli insieme e appunto pubblicarli.

Perché hai scelto di fare musica in Inglese?

Non è una scelta deliberata: per me qualsiasi canzone in qualsiasi lingua andrà bene, se imparassi l’arabo scriverei pezzi in arabo. Per esempio, mia madre è nata e cresciuta in Francia, io lo parlo molto bene, e mi è capitato di scrivere in francese, anche se poi non ho ancora pubblicato nulla. Quando scrivo in italiano poi lo rileggo e mi do due schiaffi, mi chiedo “Ma che hai fatto?”. L’italiano mi dà spesso tante preoccupazioni, mi mette l’ansia di scrivere per forza qualcosa di molto serio. L’inglese è più facile, perché tutte le parole hanno l’accento sull’ultima vocale, è molto più musicale. Allo stesso modo quando Pino Daniele cantava in napoletano, era perché il napoletano ha un’accentazione simile all’inglese, e le sue canzoni erano geniali. L’italiano ha una maggiore complessità, e forse essendo io Italiano sento il peso della padronanza della lingua. Con l’inglese posso invece essere più diretto.

Come definiresti la tua musica?

Gli artisti sono sempre i peggiori a descrivere quello che fanno, di solito lo fanno molto meglio i critici. Diciamo per questi brani soprattutto l’ispirazione è l’alternative rock, però più malinconico, un po’ più arioso, leggero. C’è un’atmosfera un po’ alternative, ho cercato di fare canzoni un po’ più ricercate, non classiche: una cosa che non sopporto sono le canzone tutte dritte, precise, mi piace quando si va a rompere quello che si immagina prima, tutto ciò che esce dagli schemi è quello che mi attira di più.

Quali sono le tue principali influenze?

Come ti dicevo prima, ogni cosa che mi colpisce può diventare un’influenza, cercando però sempre di non copiare mai. Soprattutto adesso le mie vengono dal jazz contemporaneo, la musica più di avanguardia di questo periodo. Chi va a fare musica deve proporre una cosa che sappia fare solo lui, un po’ come quando si va a un ristorante stellato: tu vai lì non tanto per il piatto, ma perché sai che lo mangerai in un modo in cui sa farlo solo lo chef, solo lì, è un piatto che non sapresti rifare da solo a casa. In generale, mi piace chi porta al panorama musicale qualcosa di nuovo. Qualche gruppo che mi viene in mente: i Pixies, i Sonic Youth, venendo dalla chitarra ovviamente i Led Zeppelin… Un po’ di tutto.

Colpisce molto la copertina dell’album, un dipinto realizzato dall’artista Luca Di Gregorio. Come nasce la collaborazione con lui?

Praticamente è un fratello per me, ci conosciamo da un sacco di tempo. Tra l’altro da ottobre mi sono trasferito a vivere da solo, e gli affitto una stanza dove lui tiene lo studio… Il dipinto viene da là, era proprio dentro casa mia, che sta diventando una mezza factory artistica. Mi piace quello che fa, sono felice di avergli chiesto di fare qualcosa per me.

Come credi che le varie arti si influenzino tra di loro?

Secondo me, il concetto nel quale trovo il maggior punto di forza della musica, cioè nello studio, nella ricerca dell’espressione, è comune a tutti gli ambienti artistici. In questo senso sicuramente la commistione tra le varie arti c’è sempre stata, ed è uno degli elementi fondamentali del processo artistico, come diceva Plotino: “essere partecipi nell’arte”, partecipare in tutto il processo artistico, iniziato da quando l’uomo ha iniziato a fare i primi graffiti nelle caverne e che dura tutt’ora. È il bisogno di esprimersi, di lasciare tracce di sé, di condividere: questo è alla base del processo artistico, e di conseguenza, di ogni forma di arte.

Tornerai a fare live quando sarà possibile?

Mi sono sempre esibito live, anche in piccolo, suonando con gli amici. Proprio prima che scoppiasse la pandemia avevo suonato in un contest a Rinascita 2.0, qui a Roma, ma considera che era tipo il 3 marzo un paio di giorni dopo hanno chiuso tutto… Purtroppo è andata come è andata. Ma riprenderò sicuramente: per me la parte live è quasi più importante della musica che registri, perché è lì che vedi il musicista vero. Andare live e trasmettere qualcosa che sia reale e diretto a chi ti ascolta è fondamentale. Anche quando vado a vedere live altrui, quello che mi colpisce è quello stare sul pezzo in quel momento, quando tirano fuori dalla testa idee allucinanti, e tu sei consapevole che quello lo hanno inventato in quel momento e non lo rifaranno più, esiste solo in quell’istante. Il fattore dell’improvvisazione è fondamentale nel jazz, ed è anche il motivo per cui ti citavo invece prima i Sonic Youth: a loro non importa delle registrazioni, nei loro concerti i pezzi durano un quarto d’ora, perché il punto è proprio lo stare insieme, l’essere tutti sincronizzati nella musica e uscire fuori dagli stessi schemi che ti connettono. Il musicista che improvvisa ha la capacità di trascendere da tutto ciò che gli altri già sanno, rimanendone però allo stesso tempo all’interno. Questo per me è il fulcro della musica, e prende forma dal vivo, nel vedere e soprattutto sentire in quel preciso momento qualcosa.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Anche con Luca stiamo riorganizzando le idee per i prossimi mesi. Ho trovato un paio di cose che mi piacciono e che vorrei andare ad approfondire ed elaborare. Mentre per Explosion io ho preparato le canzoni per l’EP e poi Luca ha realizzato la copertina, ora vogliamo lavorare in sincrono, facendo un’opera condivisa. Spero di riuscire a far uscire un disco completo, ho una decina di brani su cui vorrei continuare a lavorare, speriamo bene.

Paolo Palladino

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I folletti dell’indie rock

Con un nome così innocente, quasi buffo, ma già programmatico nella nota di maliziosa irriverenza (da folletti appunto), i Pixies senza ombra di dubbio aprirono una nuova stagione musicale allo sgocciolare degli anni ’80. 

“Nell’88 i Pixies non assomigliavano a nessun’altra band, dal 91 in poi tutte le band assomigliavano ai Pixies”,

recita un’antica massima tra i fini intenditori musicali. 

Non c’è sintesi migliore per spiegare come un piccolo gruppo del Massachusetts sia diventato il substratum di tutte le canzoni che sono nate dopo e che continuano a nascere in seno all’alternative rock, portando il genere sulle classifiche più popolari e dunque le più improbabili per uno stile così contaminato.

E noi sappiamo che la consacrazione da parte del panorama musicale stesso è arrivata da sé, così come ce lo testimonia l’icona pop degli anni ’90 Kurt Cobain:

«Stavo provando a scrivere la perfetta canzone pop. Fondamentalmente stavo provando a plagiare i Pixies. Devo ammetterlo. Quando ho sentito i Pixies per la prima volta mi sono sentito così unito a loro che avrei potuto fare parte di quel gruppo o perlomeno di una cover band. Abbiamo usato il loro senso dinamico, essere prima sommessi e tranquilli e poi fragorosi ed energici.»

Vengono accolte come modello da moltissime band come i Nirvana e  i Radiohead, proprio perché  si affermano quando l’immaginario musicale stava dissipando lo spirito degli anni ’60 senza riuscire a declinarsi più in maniera attuale. Anche David Bowie con grande lungimiranza artistica apprezzava e riconosceva l’originalità di quella dinamica di versi piani e tranquilli seguiti da ritornelli e riff crudi, quasi cacofonici, che resero la sua efficacia una prassi. Ma i Pixies non si risolvono nella struttura ritmica della canzone, ciò che colpisce, inoltre, è l’humour che si cela dietro i testi del frontman Black Francis spesso grotteschi e distorti nelle situazioni, capaci di dar vita senza sforzo al surrealismo in un tutt’uno grazie con il timbro particolare della voce, unito all’acerbo basso di Kim Deal e ai suoi vocalizzi angelici. Si ritaglia uno spazio unico, invece, il chitarrista Joey Santiago per i colori conferiti ad ogni brano, sfinendo lo strumento fino all’elettricità spasmodica sul palco che rende i Pixies, i cattivi compagni di scuola dei R.E.M, altra importantissima band di quegli anni.

Surfer Rosa è sicuramente l’album che più rende evidenti le parole spese su di loro, viene definito un manifesto del nuovo “art punk”, proprio perché si costruisce sulle basi importanti del garage rock e si insidia con ritornelli contagiosi ( il cosiddetto power-pop) nella psichedelia che padroneggiano ancora bene, cresciuti a pane e Velvet Underground. Impossibile non conoscere il singolo “Where is my mind?” che colorò di tinte ancora più vividamente fosche l’ultima scena del film ormai cult “Fight Club”, nel momento in cui un’intera città viene demolita con gli “Ooo-oooh” onirici della bassista di sottofondo.

Dopo una rovinosa rottura nel 1993, quando sembrava che tutto fosse finito, sono tornati dopo dieci anni con una maturità tutta loro e con un nuovo album pronto ad uscire. Il loro sito si aggiorna, a fine 2019 un podcast condotto da un giornalista del New York times, c’ha mostrato l’ultima loro gestazione, dimostrandoci quanto non smettano di essere produttivi. 

Proprio con l’inizio di settembre il progetto dovrebbe venire alla luce, in attesa di festeggiare l’archetipo dell’indie-rock continua a creare musica, lasciamo che la playlist di Surfer Rosa scorra indisturbata, indifferente allo scorrere del tempo. 

Iris Furnari

PLAYLIST “MUST LISTEN” DEI PIXIES

  • Where is my mind? (Surfer Rosa; dalle avventure d’immersione in un Puerto Rico)
  • Hey (Doolittle; denuncia satirica dell’edonismo e dell’amore ridotto a sesso)
  • Monkey Gone To Heaven (Doolittle; grande denuncia ambientale )
  • Gigantic (Come on Pilgrim; dalla storia d’amore tra una donna bianca di cinquant’anni e un giovane ragazzo di colore)
  • Cactus (Surfer Rosa; dalla storia di un carcerato, cover realizzata da David Bowie nel 2002)

MUSE: ci adattiamo e gli album impegnati non li facciamo?

C’è un posto particolare per tutti i ricordi: c’è il secondo cassetto del comodino, c’è il baule in soffitta, c’è il libro che hai letto centinaia di volte e si è guadagnato l’onore di preservare lettere e bigliettini che rappresentano drammi e sciocchezze della vita adolescenziale e oggi, ieri, dopodomani sarà sempre così. Tuttavia, nel mondo che ci accoglie oggi non c’è tempo per il sentimentalismo, per i piccoli segreti, per quei momenti dove sei solo tu e i tuoi pensieri travestiti da simpatici amici invisibili. Vuoi mettere!? Dovrei staccare la wifi? E poi come posso controllare tutto ciò che devo assolutamente controllare? 

Rispondere su whatsapp, scorrere il feed di Instagram o la home di Facebook, no, queste strane pratiche obsolete che ti portano ad essere un tantino più introspettivo e calato nel mondo non fanno proprio per me. 

Pensate che solo un anziano signore possa criticare i giovani d’oggi? O solo nostra madre ossessionata dall’idea che gli smartphone siano la prima causa del cancro? Ebbene, vi sbagliate. 

Il batterista di una delle band più apprezzate di questo secolo, Dominic Howard dei Muse, ha regalato alla stampa dichiarazioni piuttosto forti su quanto il modo di ascoltare musica sia totalmente cambiato, soprattutto per i giovani. 

Effettivamente io ho Spotify, più duecento canzoni scaricate illegalmente sul cellulare e a volte acquisto un brano su ITunes solo per sentirmi una brava persona. Perché ti lamenti tanto Dominc? E tu, Matthew Bellamy? E non iniziare papà a mostrarmi ogni tuo vinile come fosse un cimelio di famiglia. Davvero ti ricordi il momento in cui lo comprasti? No papà, non ho un negozio di dischi preferito. Non esiste più. 

“Il modo di ascoltare musica è drasticamente cambiato da 10 anni a questa parte, è folle! E lo vedo in prima persona! Persino io non ascolto più album come facevo un tempo. Così abbiamo pensato che, visto che stavamo pubblicando un nuovo album, sarebbe stato giusto che avesse un senso dall’inizio alla fine. E’ molto più giusto fare qualcosa di questo tipo, che ascoltarne solo due/tre tracce!”

I servizi “On the demand” che usufruiamo tutti senza nemmeno battere ciglio ci danno ampia scelta: tutti i generi, tutte le playlist, tutte le epoche.  Proprio in questi casi, però, si perde di vista una delle nobilissime prerogative della musica: raccontare. Sì, perché se gli Aedi si accompagnavano con la lira ci sarà stato un motivo, o i trovatori in Provenza, o De André con le sue ballate.

Ammettiamolo non c’è quasi più la concezione materiale del CD, figuriamoci quella “concettuale”, e continuando così galleggeremo tra canzoni autonome, singoli e hit dell’estate. Non è già successo? 

Non fatevi ingannare solo perché Spotify ve le mette nella raccolta accattivante “Top 50 global” con una bellissima e coloratissima foto di Dua Lipa sopra, quello non è un album, è un distillato, un’edizione dell’Odissea ridotta e semplificata. Perché? La semplificazione da quando può arricchirci? Almeno la musica lasciamola complessa, come noi… Anche perché, non sarà forse per questo che non possiamo farne a meno? 

Per quanto ogni Album (con A maiuscola non casuale) dei Muse racconti una storia, solitamente distopica e agghiacciante, ho pensato di menzionarvi non solo l’ultima fluorescente opera,  che si è animata davanti ai miei occhi esattamente un anno fa allo stadio olimpico (20 luglio 2019), ma Drones, il loro settimo album che ha un che di capolavoro.

In “Drones” si raccontano addirittura due storie: in un’intervista il frontman Matthew Bellamy ha spiegato la precisa divisione per cui  da “Dead inside” a “Aftermath”, è la storia di un individuo privo di speranza, a tal punto da trasformarsi in uno psicopatico,  ma che sul finale ritrova la forza di reagire e scopre l’amore. E in tutto ciò si respira tutta l’inquietudine che si prova durante la visione di un film di fantascienza, oppure leggendo 1984 di Orwell. Poi c’è “The Globalist” che è la storia inversa di un individuo che non riesce a trovare quella forza e finisce per distruggere il mondo. Una sorta di scelta, la distruzione porta all’oblio e il coraggio di reagire alla rivoluzione.

Perché sia nella musica, che nei romanzi, che nella vita, è sempre una questione di scelta, scelta della via: la via dell’amore e dell’umiltà o della rabbia e della paura? All’uomo l’atavica scelta. 

“In futuro, visto come è cambiato il nostro pianeta, e quanto al giorno d’oggi la gente sia troppo distratta, sarà difficile che faremo nuovamente qualcosa come “Drones”. Il modo di consumare musica è cambiato, ed anche noi potremmo cambiare il nostro modo di produrre musica. Pensavamo di rilasciare piccoli gruppi di tracce, o solo singoli, tra questa parte e qualche anno”. 

La scelta giusta e controcorrente del “Concept Album” è apparsa come uno degli ultimi spasmi del grande estro artistico che questa band c’ha mostrato negli anni. Per i prossimi progetti si opta per l’adattamento all’ultima frontiera del mercato musicale, anche se l’ultimo album penso abbia tenuto la sua struttura densa e riflessiva, ma adottando tinte più estetiche e punk, alla blade runner 2049. (Simulation Theory, 2019) E ai concerti funziona a meraviglia! Non scorderò mai un alieno gigante sbucar fuori dal palco, mentre Bellamy impazza con un assolo di chitarra sulla punta più estrema del palco, con sotto le mani e le urla dei suoi amici adoranti. Sì, ormai i Muse si sentono a casa a Roma. Si prendono il gelato all’angolo del gelato e ridono parlando in italiano con una pronuncia impeccabile. Non sapete quanto vi mancheranno dopo essere stati ad un loro concerto! 

Come cerimonia d’addio alla musica concettualizzata e agli album pink floydiani,  direi di sdraiarci tutti sul pavimento della stanza e lasciar scorrere i dodici brani nella speranza che un po’ di superficialità si lavi via.  È un cocktail di Drones e di Simulation Theory. Maneggiare con cura. 

Playlist della settimana:

Iris Furnari