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Slice of life: Pioggia di ricordi (1991)

Sono film come questo che aiutano a capire la differenza tra i due pilastri dello Studio Ghibli: Miyazaki è un trasfiguratore, coglie un nucleo psicologico o tematico da rafforzare ed esaltare in un processo di catasterismo; Takahata  convoglia invece la propria energia verso il quotidiano, il realismo ambientale, storico o emozionale per trovare forme e temi adatti a sé.

Va detto però che se l’attenzione per i fatti minimi della vita attraversa tutta la sua opera, è in due film che questo fulcro della sua ispirazione si raccoglie e s’espone, stemperando la vena tragica.

Già parlando di Pom Poko (1994) avevamo accennato alla distinzione tra un ‘dittico slice-of life’ e una ‘trilogia del vinti’: Pioggia di ricordi (visibile su Netflix) è proprio la prima parte del dittico, seguita da un altro tassello della sperimentazione stilistica di Takahata, I miei vicini Yamada (1999).

Il soggetto proviene dal manga Omohide Poro Poro di Hotaru Okamoto e Yuko Tone e diventa la scusa perfetta per rendere su film lo stacco tra infanzia ed età matura di una giovane donna.

Tokyo, anni ‘80: La ventisettenne Taeko lavora in un ufficio a Tokyo ma è attratta dalla campagna. Per riassaporare la natura e il lavoro all’aria aperta va nella provincia di Yamagata, a nord della capitale, per aiutare nella raccolta del cartamo: la fascinazione per quello stile di vita è forte quanto il pensiero di essere ad una svolta nella sua vita.

E che svolta sarebbe senza il ritorno del passato e dei ricordi a farle visita? Dovendo decidere tra città e campagna, tra la vita che ha condotto e quella che la tira a sé, Taeko non può non ripensare alla bambina che è stata, riconsiderando tutti i rapporti con le persone e gli avvenimenti.

Scrivendo di ‘La tomba delle lucciole’ del 1988, il Morandini parla di una “capacità mimetica quasi cocciuta” di Takahata: il termine corretto sarebbe ‘ferocia’, tanto è l’amore del regista per l’infanzia e per la messinscena coerente alla natura del soggetto, che rasenta il viscerale. 

Sono questo termine e questa tensione di Takahata a spiegare la voglia di immergersi a tal punto nella ricerca ostinata del realismo, tale da spingere in avanti lo studio e la resa delle espressioni facciali dei doppiatori, registrati durante le sessioni di lettura dello script.

Non meno peso ha nella sua ricerca la ‘giustezza’ infinitesimale del colore (in media siamo sulle 400 sfumature adoperate nelle scene in esterni) o del movimento: questo lo si vede    soprattutto dalla scena finale con Taeko riaccompagnata nella casa in campagna da Toshio che l’ha fatta aprire all’amore, attorniata dal ricordo dei suoi vecchi compagni di classe e dalla vecchia sé. Il tutto è reso con 5422 inquadrature e passa. 

I salti tra presente e passato avrebbero fatto piacere a Franco Kim Arcalli, nostro montatore e sceneggiatore superbo che ha fatto dei passaggi intertemporali un punto di forza della sua poetica ma va anche detto che lo slancio fantastico è altrettanto perfettamente amalgamato nella struttura del film: il volo della piccola Taeko estasiata dalla prima cotta o la sequenza in cui immagina di diventare un’attrice famosa sono tutto fuorché stonature col ritmo del film e della resa del flusso psicologico della protagonista. Quando si dice la forza dello stile!

Chi non apprezza Pioggia di ricordi potrebbe non sapere da un lato il perfezionismo che lo sorregge così come la centralità, nella cultura giapponese, del racconto della vita e delle sue piccole cose, che spesso nel primo Novecento ha trovato espressione nell’autobiografia. Per gli amanti di Takahata è un gioiello da gustare, con una narrazione limpida e asciutta, ostinata nel rendere giustizia ai suoi protagonisti e che è stato un caposaldo nella narrazione degli anime.

Antonio Canzoniere

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Quando il divertimento è una cosa seria – intervista a Giuseppe Festa

Ci sono domande che accompagnano l’uomo dall’alba dei tempi: c’è vita dopo la morte? Esiste Dio? Cosa fanno gli animatori quando è finita la stagione estiva? Delle prime due in realtà non è che mi importi granché, sulla terza invece mi interrogavo qualche giorno fa, mentre mi rammaricavo per l’apparente abbassarsi delle temperature e dalle finestre coloro che non si arrendono alla fine dell’estate sparavano a sale contro chi cercasse di mettere già gli addobbi di Halloween. Ho chiamato così Giuseppe Festa, una vita passata a far divertire le persone, tra le figure di spicco in un luogo che diventa di spicco in un periodo di spicco dell’anno: insomma, un capo-animatore in Salento. La nostra è stata una lunga chiacchierata, che ho provato a mantenere negli argini di un’intervista canonica ma che presto è andata per conto proprio, anche perché sarebbe stato impossibile fare altrimenti. Noterete che ben presto le mie domande diventano negli sporadici interventi: d’altronde, come provare a condurre con chi la conduzione ce l’ha nel DNA?

Giuseppe, cosa fai nella vita?
Cerco di fare quello che mi riesce meglio, una delle poche cose che mi è riuscita veramente bene: prendermi cura degli altri, o almeno cercare di farlo. Nel limite delle mie possibilità cerco di regalare sorrisi, compagnia. È quello che ho sempre fatto anche quando non me ne rendevo conto, hai presente quando si andava in giro con le comitive? Ho sempre avuto questo “peso” di organizzare qualcosa. Mi piace creare cose che possano intrattenere.

È il peso delle persone divertenti.
Oltre che divertenti, quelle intraprendenti dal punto di vista del cazzeggio. Cosa faccio nella mia vita? Il funcazzeggiatore. Con la u eh.

Da quanto tempo lo fai per professione?
A tredici anni ho visto per la prima volta gli animatori in spiaggia, e lì è cambiato qualcosa. Devi sapere che io fino alle medie venivo molto bullizzato, ma proprio che venivano dalle altre scuole per bullizzarmi neanche fossero i pastorelli che andavano alla grotta, ero il target preferito delle bombolette spray. Lì in spiaggia la compagnia di animatori era formata da tre ragazzi e due ragazzi, e io mi spacciavo con le ragazze dell’equipe per loro collega, una sorta di aiutante, perché ero troppo piccolo per essere pagato. Venni scoperto l’ultima sera: fu una gran bella figura…

A volte le migliori carriere nascono da eventi traumatici.
Al mio primo provino mi presentai quasi a malincuore. Cioè, lo volevo fare, ma io non sapevo manco di cosa si trattasse, non sapevo come funzionasse un villaggio, cosa fosse uno stage… Notai inoltre che già c’erano gruppi di amici formati, senza contare le equipe già pronte dagli anni precedenti. Quando uscivano gli altri dal colloquio finale c’era chi usciva dicendo “mi hanno preso” e chi con un “ti faremo sapere”, ma già era chiaro che quello voleva dire “vattene”. Io entrai convinto di ricevere un sì, invece uscii con un “ti faremo sapere”: è stato il primo “no” ricevuto. Arreso, mi preparai a partire per conto mio in vacanza, ma il giorno prima della partenza non uno ma quattro ragazzi non sarebbero più potuti partire: ero la quinta scelta! In ogni caso partii e sembrava tutto andare benissimo, tanto da ricevere spesso i complimenti. Non che facessi niente di particolare, semplicemente mi divertivo, anche con cose senza senso: considera che una volta mi presentai in anfiteatro con una giacca e dieci cravatte al collo, così. In fondo, non avevo particolari regole a casa, né con gli amici… Perché mai avrei dovuto averne in un luogo dove, tranne quella dell’educazione, non ci sono regole? Quando arrivo in un luogo lo esamino e mi chiedo: dove posso portare la novità? Dove posso fare l’inaspettato? Dove posso creare il teatro dell’assurdo? Lì lo facevo però senza adottare tattiche, seguendo semplicemente quello che mi andava di fare.

Diciamo che con il tempo hai maturato un po’ di esperienza.
Sì, ho capito tante cose. Aspetta però, non è finita la storia.

Prego, l’intervista è tua.
Manca un pezzettino, un altro no. Al villaggio il capo-animatore aveva la propria cerchia personale, non mi vedeva proprio. Era un periodo diverso, quelli più esperti se sapevano qualcosa se lo tenevano per loro, non ti insegnavano nulla. Per un sacco di tempo non mi fece fare neanche uno spettacolo, poi mi ritrovai per la prima volta sul palco per circostanze fortuite, dopo che uno dell’equipe era dovuto andar via all’improvviso dal villaggio; e mi ci ritrovai senza fare nessuna prova. Non perché non ci fosse il tempo eh, ma perché mi ci voleva proprio far arrivare senza nessuna preparazione, per umiliarmi di fronte al pubblico. Mi raccontava le situazioni del cabaret come se fossero barzellette, e io dovevo improvvisare. Fu una standing ovation alla fine. Da lì non sono più sceso dal palco: l’anno dopo ero responsabile diurno, due anni dopo capo-animatore.

Carriera lampo.
Lampissimo. Il primo anno in effetti feci più danni che altro.

Eri anche piuttosto giovane. Quanti anni sono che fai l’animatore?
Ormai sedici.

Non era scontato, date le premesse iniziali.
Le difficoltà all’inizio sono il motore di ciò che cerco di comunicare ogni anno ai nuovi arrivati: non fermatevi al primo no. Soprattutto: non fermatevi al vostro primo no. Non esiste il “non ce la posso fare”, esiste solo il “ci devo provare”. È  impossibile tanto che nella vita non ti accada mai nulla di brutto, è utopico. Inutile impegnarsi a pensare come non far accadere le sventure, perché tanto arrivano comunque, anzi: io ho sempre cercato di affrontarne il più possibile, così che poi quando accadono agli altri so già cosa dire loro. C’è stato un periodo nella mia vita in cui, in uno dei miei slanci di egocentrismo, mi sentivo come John Coffey de “Il miglio verde”, che assorbivo tutto il male degli altri per farli stare bene.

C’è qualche caso emblematico che ricordi con particolare piacere?
Sarà stato una decina di anni fa. Venne un ragazzo solo per accompagnare la fidanzata che faceva l’animatrice quell’anno. Lei era scalmanata, faceva di tutto, lui la portava e stava lì, immobile, una statua di sale. Tra l’altro un ragazzo veramente con la testa sulle spalle, cresciuto in una periferia abbastanza malfamata di Brindisi, la mattina faceva il muratore e il pomeriggio studiava, si è laureato qualche anno fa in ingegneria. Una sera riuscii a convincerlo a provare a fare qualcosa con noi, anche se era convinto che quello non fosse decisamente l’ambiente per lui. Indovina? Dopo qualche giorno faceva di tutto, dalla costumeria agli spettacoli. È questa un’altra cosa importante per me: oltre al fatto di credere in se stessi, scoprire qualcosa di nuovo dentro di te al quale fino a quel momento non avevi proprio pensato.

Di cosa si occupa il capo-animatore all’interno di un’equipe?
È  una sorta di master of puppets. Deve stare lì a rendersi conto di cosa stia andando nel modo giusto e cosa nel modo sbagliato, e trasmetterlo agli altri in modo tale che possano continuare da soli. Se le cose vanno bene, può anche occuparsi di altro, altrimenti deve continuare a muovere le pedine. Poi ovviamente organizzare le serate e dare un’impronta a tutto ciò che avviene sul palco, il suo pensiero deve essere sempre evidente, non può limitarsi a mettere insieme il talento delle persone che ha a disposizione.

Come nasce l’idea di uno spettacolo?
Sicuramente dalla passione. Io faccio uno spettacolo nello stesso modo in cui vivo la mia vita: quando mi piace una cosa, provo per lei immediatamente un amore viscerale, diventa il mio micromondo. Uguale per gli spettacoli: deve diventare il mio micromondo, devo sentire un pugno allo stomaco quando lo guardo realizzato come l’avevo pensato. Poi sono maniacale nella preparazione, faccio ripetere le prove finché non è perfetto, da farmi rizzare i peli sulle braccia.

I cabaret sono il tuo cavallo di battaglia. Quanti ne hai fatti?
Ma tantissimi… Non te li so numerare. Tra quelli estemporanei, le improvvisazioni, quelli di meno di un minuto, quelli che nel corso degli anni ho fatto sempre in maniera diversa… Vorrei dirti un paio di migliaia, ma ripeto, non li ho mai contati.

L’ispirazione da cosa nasce?
Sono sempre situazioni preesistenti, raramente qualcosa nasce da zero, ma quelle tendo a tenerle per me.

A chi ti ispiri, invece?
Per la parte della presentazione, al grande Paolo Bonolis. Sia chiaro, mi ispiro: non lo voglio imitare né assolutamente copiare, anche perché sarebbe impossibile. Per il cabaret invece a Francesco Scimemi, per le sue battute dissacranti e per la sua simpatia al contrario, cioè il trattare male la gente per farla ridere. Poi naturalmente io sono stato cresciuto da mio padre a pane e Totò. Il mio idolo però è un altro, al quale non riesco nemmeno a ispirarmi per quanto è grande, che è Gigi Proietti.

Per chiudere: progetti per il futuro?
Ne ho talmente tanti nella mia testa. Ho un libro intero di progetti irrealizzabili o quasi.

Paolo Palladino

I vinti di Takahata: Pom Poko (1994)

La scelta di campo di Isao Takahata (1935-2018) all’interno dello studio Ghibli è stata precisa quanto quella del co-fondatore Miyazaki, di certo più ristretta ma non meno coerente.

È stato circa quarant’anni fa che il Giappone è diventato lo scenario definitivo per i suoi film ma solo dal 1988 questi sembrano darsi una disposizione da struttura modulare: infatti si può perfettamente parlare di “dittico slice-of-life” per Pioggia di ricordi (1991) e I miei vicini Yamada (1999) così come di “trilogia dei vinti” per Una tomba per le lucciole (1988), Pom Poko (1994) e La storia della principessa splendente (2013).

Nel confronto tra i due capisaldi del mondo Ghibli, appare evidente quanto Miyazaki abbia scelto, per sua predisposizione e desiderio di un incontro-scontro diretto, di assorbire spunti occidentali e mischiarli con il patrimonio perlopiù shintoista.

Il buddhismo, che ha avuto così larga parte nella vita giapponese e scandito la vita della campagna, ha fatto semmai incursione con le preghiere della nonna di Totoro (1988) durante la ricerca della protagonista Mei; anni dopo avrebbe fatto da sostrato archetipico e psicologico per il protagonisti del Castello errante di Howl (2004), come analizzato perfettamente da Dianne Hradsky nel suo blog (https://dhradsky.wordpress.com/).

Takahata non ha sottoposto questo culto a filtri altrettanto forti: il Giappone popolare a cui è così legato, perfino nella resa storica, lo ha portato a rendere quella religiosità con una fedeltà più serrata.

Per iniziare a trattare la trilogia dei vinti, si deve avere in mente questo sostrato religioso, così come il dolore che il mondo o la Storia vuole far subire ai protagonisti: li si vedrà subito risaltati per contrasto come statue di marmo con dietro il buio della nicchia.

In Una tomba per lucciole, la seconda guerra mondiale distrugge infanzie che non potranno affacciarsi all’età adulta; alla principessa splendente sono negati amore ed esperienza; agli animali guerrieri di Pom Poko non è dato di sopravvivere al progresso.

Tutti i Poteri delle loro storie potrebbero perfettamente sconfiggerli (riuscendoci) ma non fanno mai dir loro che la lotta sia inutile a priori, che tutto sia vanità. Vessati, loro non vogliono rinunciare alla vita: il mondo e gli affetti non sono un’illusione. Che la richieda il Buddha o la Storia, la rinuncia non è gradita.

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Stavolta non si parlerà che di Pom Poko (1994), dei suoi tanuki goliardici e solari, abili nel trasformismo e dallo scroto estendibile. Queste creature del folklore giapponese, simili ai cani procioni, si ritrovano con le spalle al muro quando la Nuova Tokyo comincia a farsi spazio tra le montagne di Tama.

All’inizio dell’era Heisei (1989-2019), i tanuki decidono di fare resistenza agli umani unendosi nella lotta. Non bastano però la violenza di Gonta, gli insegnamenti di Oroku “palla di fuoco”, il raziocinio di Shoukichi o l’aiuto dei tre patriarchi chiamati in soccorso. 

Non c’è scelta che accettare la sconfitta e vivere da umani se capaci di trasformismo. Gli altri rimarranno indietro o nell’ombra.

Questa storia eccentrica e briosa è a suo modo il racconto di una guerra con dei combattenti che non conoscono la crudeltà e nei cui confronti i personaggi de La gang del bosco (2006) sembrano avere parecchi debiti.

Se in Italia “sono sparite le lucciole” (Pasolini), Takahata afferma che in Giappone sono scomparsi i tanuki. Non è difficile vedere in loro i giapponesi provinciali prima dell’occidentalizzazione ma il filtro del regista smussa al punto giusto questa corrispondenza con l’umorismo dei tanuki, che fa più pensare ai romani di Luigi Magni in Nell’anno del signore (1969): la bontà è una disgrazia per chi vuole sopravvivere e loro concorderebbero perfettamente col Cornacchia di Nino Manfredi quando dice “Maledetto er core e chi ce l’ha”.

Non è tanto un appello ambientalista quello di Takahata ma piuttosto un desiderio di vita semplice, piaceri piccoli, di festa spontanea e canto pronto a scandire i momenti minimi della vita, come accadeva nelle poesie popolari perfino da noi, nel Mediterraneo antico. 

Aiuta in questo senso il fraseggio fluido ed elegante che è dato ai tanuki in sceneggiatura, che sceglie le parole giuste nei botta e risposta amorosi, nella sentenziosità raffinata delle riunioni che li fa percepire immersi in un altro tempo, come se oltre il loro bosco ci fossero ancora gli shogun. L’adattamento in italiano di Cannarsi rende bene il flusso del giapponese originale.

Lo stile di Takahata, qui lo si vede bene, ha la concisione grafica e l’asciuttezza cromatica che fa subito pensare alla prosa della favola. Il lirismo è nelle pieghe del racconto, nell’attenzione al quotidiano dei protagonisti cui non resta che il sogno e la simulazione collettiva del loro bosco verso il finale.

Nota di pregio è la mutevolezza del disegno dei tanuki, che va da una resa realistica a due gradi di stilizzazione, per non contare l’esattezza delle loro rispettive versioni umane.

È bello pensare che il racconto Futago no hoshi di Kenji Miyazawa abbia stimolato a tal punto, per questo film, il brio e la vena elegiaca di Takahata.

Antonio Canzoniere

Il mio vicino Totoro

Il film che ha fornito allo Studio Ghibli il suo stesso simbolo è un racconto scritto “in corsivo”, senza la monumentalità degli spazi di Laputa che Miyazaki aveva realizzato nel 1986. 

Il mio vicino Totoro (1988) è un’opera di riassestamento dopo i tre film della fase d’esordio: per il regista de La città incantata la concisione e la misura di stile passano per la campagna giapponese, quella che è pure cara al suo collega e co-fondatore dello studio Ghibli Isao Takahata, anche se per altri motivi.

La storia è semi-autobiografica e forse anche questo fatto spiega l’attenzione premurosa verso le due protagoniste, la scelta di rendere la paura per la malattia della loro madre con il dosaggio di non-detti ed ellissi. Qui c’è già il gusto della sintesi e dello sfumato narrativo che si inturgidisce con Porco Rosso e si mostra al meglio nel Castello errante

Se gli spettatori occidentali trovassero in Totoro qualche ricordo di Lewis Carroll non si sbaglierebbero ma l’assurdo mischiato al satirico non abita in questo film: c’è piuttosto il racconto di una sintonia tra Infanzia e Natura, che La città incantata approfondirà nella direzione di un amore più adulto e cosciente.

Totoro non è un Haku o un Calcifer: non c’è in lui una vena dolente o gotica che lo definisca. S’impone per la dolcezza delle forme da tanuki bombato, l’andamento sospeso e stralunato connesso con la lentezza della Natura, il sorriso da Stregatto.

È lui a portare sollievo alle due sorelle Satsuki e Mei, che nella campagna si dedicano al gioco e scoprono l’inquietudine di una possibile perdita. Si è assai distanti dal racconto della malattia in Si alza il vento che sbilanciava il film e lo rendeva addirittura bicefalo.

Non è difficile trovare nella magica creatura della foresta un richiamo agli amici immaginari che hanno popolato certe infanzie solitarie, anche se è la Magia insita nel creato miyazakiano a dargli un corpo e tramutarlo in un segreto che gli adulti non possono conoscere.

Totoro è una figura che nel suo silenzio già esprime il senso di una svolta, di un passaggio nell’opera di Miyazaki, che da allora in poi lascerà più spazio alla mente degli spettatori nell’approfondimento dei personaggi.

Che sia proprio lui il “Guardiano della Soglia” nel corpus del regista dà grande soddisfazione: ha insegnato al suo creatore la misura, il tocco lieve ma preciso nella caratterizzazione, gli ha fatto raffinare la propria “Grazia”.

Antonio Canzoniere

 

Il castello errante di Howl

Spesso capita che certi film memorabili non siano stati per forza concepiti per essere diretti dal loro regista definitivo. Nostra fortuna è che Miyazaki abbia preso le redini del progetto Ghibli ispirato a Il Castello errante di Howl (1986), romanzo di Diane Wynne Jones, dopo averne per anni accarezzato il soggetto.

Definire questo film “fantastico” non spiega nulla del contenuto o dello stile. Sempre poco è dire che sia la storia di una fioritura interiore o di un amore immerso in un mondo dove la magia esprime sia l’oppressione che la libertà.

Troviamo davanti a noi una sorta di Mitteleuropa reinventata dalle suggestioni dell’Alsazia, della Berlino ottocentesca o delle Alpi svizzere, attraversata da brividi bellici vicinissimi a quelli della prima guerra mondiale.

In questo mondo di guerrafondai vive la cappellaia Sophie, ligia al lavoro, remissiva, che non si considera bella né degna di attenzioni. La sua vita in chiave bassa, senza passione o svaghi, ricorda a modo suo quella di certo più confusionaria dell’inesperta Kiki, che consegnava a domicilio a bordo della sua scopa.

La sua sarebbe la storia di un’inerzia, non fosse per la magia e per un uomo che le travolgono la vita. Il mago Howl la coinvolge in una delle sue fughe dai famigli della Strega delle Lande, che lui ha mollato tempo addietro, scatenandone l’ossessione per il suo cuore.

Dopo che il mago la lascia dalla sorella, Sophie rimane sognante col ricordo di lui. La Strega delle Lande però si scaglia su di lei per dispetto e la rende vecchia con una sua maledizione.

Lasciato il negozio, si mette in cammino fuori dalla sua città ed è tra le montagne che vede il castello di Howl, venendo accolta dalla sgangherata casa in movimento. Sophie s’impone come donna delle pulizie, lega con gli abitanti del castello e non potrebbe essere più diversa dalla sé stessa precedente.

L’amore per Howl, anche lui maledetto e legato da un patto al suo amico demone Calcifer, come avviene in altri film di Miyazaki, le farà da tonico.

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Proprio in relazione a Sophie il regista coglie e rielabora un dato fondamentale della fantasia artistica femminile, che parte dalla storia di Amore e Psiche e arriva ad Emily Brontë, passando per La Bella e la Bestia (1740): “l’immaginazione che fa dell’altro sesso un mostro(Chesterton)

Con Howl e l’Haku de La Città Incantata (2001) questo assunto è mostrato letteralmente e spiegato attraverso la magia ed il fascino del primo sta proprio nell’essere diviso tra innocenza e bestialità, con una caratterizzazione che al secondo manca, non per piattezza ma per l’assenza di umanità in senso stretto.

La sensibilità di Miyazaki ragiona sui luoghi secondo lo stesso dualismo applicato sui personaggi: gli spazi hanno un’anima e se il castello appare come una creatura di Bosch, gli aerei militari sono identici a quelli di Nausicaa della Valle del vento (1984) per la loro impersonalità fredda, demente e distruttiva.

Stesso discorso pure per il lusso frigido del palazzo reale e della serra di Suliman (più sottile e crudele di Yubaba della Città Incantata) in confronto al calore del focolare di Howl. E che dire ancora dei paesaggi estatici in cui fa muovere i protagonisti a contatto con la natura, delle stelle e degli amuleti intrisi di potere magico o le scelte cromatiche unite alla fluidità dei movimenti e del disegno?

Non è solo per la colonna sonora di Joe Hisaishi che il Castello errante è una lezione di musica, tralasciata l’importanza a livello cinematografico. Non c’è climax migliore per questo film lirico se non la scena del lago verso il finale, dove le stelle cadenti possono essere colte ed esaudire i desideri (a costo del cuore).

Noi guardiamo insieme a Sophie un ragazzino che si rivolge ad un astro ed ecco che il segreto rivelato si trasforma in emozione estetica. È uno dei risultati definitivi dell’arte di Miyazaki, così come il percorso di Sophie che si conclude all’insegna di un “bello interiore tradito” (Argan) e quello di Howl, riflesso inverso e vitale di Porco Rosso (1991).

Sfoderato quel livello di intensità, il regista non può che lasciarci con delle immagini e un augurio di appagamento totali, lontani dal Potere, dalla Storia, dalla Guerra che per Miyazaki è sempre orrore e non-senso.

Antonio Canzoniere