Almodóvar ritorna in sala giocando le carte del passato: il re di cuori sul tavolo è Antonio Banderas, uno dei suoi attori-feticcio degli anni ‘80, ritornato già nel 2011 sotto la regia del suo scopritore in La pelle che abito.
Ora è la volta di Dolor y gloria già in sala dal 17 maggio, in cui la lezione di 8 1/2 è più che esplicita: Almodóvar ha creato su misura per Banderas il ruolo del regista Salvador Mallo, suo Guido Anselmi, caricandolo di malattie, inquietudini e dipendenze. Il Pedro nacional è un grande cinefilo e sfrutta a pieno la retorica della settima arte come salvezza, unica via di espressione e riconciliazione con sé stessi e gli altri.
La base del film è questa, intrecciata con un autobiografismo sornione che sa quali tasti premere, a cosa appellarsi per raccontare il malessere dell’artista. Il problema è che questa traccia non è stata creata da Almodóvar e sempre più si ha il sospetto che gli emuli di Fellini si rifacciano all’esempio del mitico riminese in assenza di alternative.
A questi seguaci mancano però la levità quanto la capacità di costruire una narrazione senza scadere nel manierismo. Il senso di dejà-vu è forte, in Dolor y gloria: se il film è amabile, lo è a tratti, perché risultano interessanti dei pezzi sparsi in un film che punta più al testo che non all’immagine.
Lo stile si fa semplice, controllato, a volte freddo e laddove il regista potrebbe caricare l’importanza o certe emozioni di alcune scene (come nei flashback che flashback non sono), i toni chiari di Alcaine ostacolano l’empatia con una secchezza anche eccessiva dei posizionamenti di camera.
Banderas conferma le sue qualità di attore: le dimostra nei passaggi tra le sfumature, nel mantenimento di un fascino da divo che non si perde nemmeno nei momenti più antipatici del personaggio.
Come gli altri attori, che pur non sono al suo livello, è servito male da dialoghi che sarebbero stati più adatti ad un romanzo che ad una sceneggiatura. Resta il fatto che la ricostruzione del passato di Salvador è effettivamente la parte più riuscita, quella dove si percepiscono di più le note della tenerezza, della malinconia: sono scene dove tutto è all’inizio e tutto è già chiaro, per il piccolo e colto sognatore.
Sarà anche per il fatto che è in quei ricordi ricostruiti che il tono didascalico del resto del film è attenuato. Almodóvar si mette in mostra riguardandosi, trasformando e dilatando ricordi ed esperienze filmiche passate, ma non rimane che la maniera mischiata all’astuzia. C’è, alla fine dei conti, poco dolore nel film, cui di certo non è mancata gloria: basti vedere il successo di critica e botteghino per farsi un’idea.