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L’eredità retorica di Ronald Reagan

Sono passati ormai quasi quarant’anni dal discorso di insediamento alla Casa Bianca di Ronald Reagan, e cinque altri presidenti si sono succeduti alla guida degli Stati Uniti d’America. La vittoria di Reagan alle presidenziali del 1980 contro la seconda candidatura del Presidente democratico in carica Jimmy Carter e l’indipendente John Anderson significò molte cose per la nazione, e per il mondo intero. Esponente di spicco della corrente neo-conservatrice americana, che sul finire degli anni ’70 aveva guadagnato un’influenza crescente nel dibattito politico americano, Ronald Reagan seppe sfruttare prima – e meglio – di chiunque altro le abilità maturate durante un’esperienza che per l’epoca si poteva considerare quantomeno singolare per una figura politica. Prima di divenire uomo politico, infatti, Reagan conobbe un discreto successo nel mondo del cinema, prendendo parte a una serie di pellicole per la Warner Bros a partire dal 1937, per poi passare al mondo della televisione negli anni ’50. L’esperienza di attore avrebbe consegnato al futuro Presidente degli Stati Uniti gli strumenti fondamentali per la costruzione e il consolidamento di un livello di consenso pubblico mai sperimentato prima di allora. Inoltre, dopo il ritiro dalla carica di governatore della California (1967-1975), Reagan rimase sotto i riflettori nazionali tramite la conduzione di programmi radiofonici, che gli permisero di raggiungere un pubblico smisurato  (secondo le stime, tra i venti e i trenta milioni di ascoltatori settimanali tra il 1975 e il 1979). L’utilizzo del tono della voce, le pause sapientemente inserite tra una frase e l’altra, l’ironia, la mimica facciale, l’agio di fronte ad una telecamera e ad un pubblico furono ingredienti fondamentali per il successo politico di Ronald Reagan, tuttora ricordato come uno dei Presidenti più amati – e controversi – della storia degli Stati Uniti d’America.

Gli anni di Reagan, passati alla storia come “la Rivoluzione Reaganiana” furono un’epoca segnata da profondi cambiamenti a livello economico, politico e sociale. Sono gli anni delle liberalizzazioni economiche adottate dalla piattaforma neo-conservatrice, ispirate alle teorie neoliberiste di Milton Friedman e di Arthur Laffer, e della crescita esponenziale del debito pubblico americano. Sono gli anni del rilancio dello status di superpotenza mondiale per gli Stati Uniti e del ritorno ad un’aperta ostilità con l’Unione Sovietica, seguita da una graduale distensione dei rapporti tra i due blocchi e dalle fasi finali della Guerra Fredda. I meriti di Reagan, considerato da molti il catalizzatore della “vittoria” degli Stati Uniti su quello che lo stesso Presidente arriverà a chiamare, durante le fasi più accese del conflitto, “l’impero del Male”, devono però essere soppesati contro le fasi più critiche dei suoi otto anni a Washington. Il ritorno ad una retorica ferocemente anticomunista fu infatti accompagnato da una linea dura in termini di politica estera: l’appoggio alle oligarchie militari in America Latina, gli interventi militari in Libano, la guerra internazionale al terrorismo collegato alla Libia di Gheddafi, il supporto ai contras in Nicaragua per rovesciare il regime sandinista insediatosi nel 1979 e il successivo scandalo Irangate che rischiò di innescare un processo di impeachment ai danni del Presidente. Decisioni che danneggiarono Ronald Reagan, ma non fatalmente: la capacità di capitalizzare i successi tramite la padronanza delle potenzialità dei media a scopi politici permise al presidente repubblicano di “navigare tra le complessità della politica statunitense”, per mutuare un’espressione dello storico John Ehrman.

Non è un caso che l’attuale amministrazione statunitense si rifaccia all’era Reagan nel delineare la propria strategia d’immagine e di propaganda: anche se l’utilizzo della formula make America great again (che Reagan pronunciò per la prima volta nel 1980) venne rivendicato come idea originale di Trump – tanto da volerlo rendere un marchio registrato ad uso esclusivo – basterebbe una breve visita alla sezione National Security and Defense del sito della Casa Bianca per vedere come l’attuale amministrazione si sia appropriata testualmente di un altro punto cardine della politica estera reaganiana, dichiarando l’intenzione di “preservare la pace attraverso la forza”. E se il revival della Dottrina Monroe dopo l’archiviazione dell’era Obama non bastasse a fornire un ulteriore parallelismo (con la designazione del triangolo degli Stati ostili pressoché identica a quella dell’era Reagan, con Caracas a sostituire Mosca nella rete di relazioni con l’Havana e Managua), il recente riferimento alla creazione della Space Force nell’ultimo discorso di Trump sullo Stato dell’Unione tende un ulteriore filo tra il 2020 e gli anni ’80. Nel 1983, infatti, Reagan annunciava la Strategic Defense Initiative, un grandioso progetto di difesa dall’eventuale aggressione nucleare sovietica, completo di scudo spaziale e sistema di laser per la distruzione preventiva di missili nemici, veicolando l’idea che gli Stati Uniti rivendicassero un primato anche nello spazio cosmico al di fuori del pianeta. Dopo trentasette anni, Donald Trump include nel suo discorso alla nazione una richiesta di finanziamento per il progetto Artemis per assicurare che la prima bandiera su Marte sia quella a stelle e strisce. Nell’epoca del trasferimento del dibattito politico sulla sfera del virtuale e  della comunicazione lampo, l’eredità retorica dell’epoca Reagan risulta ancora di fondamentale importanza nella strategia di comunicazione dell’amministrazione Trump, in quanto testimonianza della prima efficace sintesi tra utilizzo dei mass media e capacità di coinvolgimento delle masse, tanto da riecheggiare a distanza di decenni, e più attuale che mai.

Marco Tumiatti

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Reiwa: una nuova Era per il Giappone

Lunedì 1 Aprile, il Segretario Generale del Governo Yoshihide Suga ha rivelato il nome della nuova era che avrà inizio a maggio di quest’anno, quando l’imperatore Akihito, imperatore del Giappone dall’ 8 gennaio 1989, abdicherà in favore del figlio Naruhito.

L’abdicazione ha suscitato molto scalpore sin da quando l’imperatore ne ha mostrato l’intenzione nel 2016, poiché essa costituisce la prima abdicazione al trono dal 1817, anno in cui abdicò l’imperatore Kōkaku.

Il nome scelto per la nuova era è 令和 reiwa, ed è il primo nome non preso dalla Letteratura Cinese ma da un classico della Letteratura Giapponese, il Man’yōshū, la più antica raccolta di poesia giapponese esistente, risalente all’incirca al VII-VIII secolo d.C.

I due caratteri singolarmente possono essere tradotti approssivamente come “ordine” e “pace, armonia”, e il Primo Ministro Abe ha spiegato come il nome significhi che la cultura nasce e cresce quando le persone si riuniscono e si prendono meravigliosamente cura le une delle altre.

Il nome della nuova era è stato scelto da una commissione di esperti nel campo delle letterature cinese e giapponese scelta appositamente da Abe stesso; questi hanno scelto alcune opzioni tra una grande varietà e seguendo le rigide regole che dominano la scelta del nome di un’era, come per esempio che i caratteri siano facili da leggere e non siano stati usati per indicare le ere precedenti.

Ma come mai la scelta del nome della nuova era è così importante?

Questa pratica, chiamata 年号 nengo o 元号 gengo in giapponese, è stata presa in prestito dal Giappone come da molti altri stati asiatici dalla tradizione imperiale cinese che utilizzava nomi di ere scelte dall’imperatore per suddividere il tempo e molto spesso, sia in Cina che in Giappone, sotto un imperatore si potevano susseguire ere diverse. Ciò è cambiato in Giappone con la riforma del periodo Meiji del 1868, per cui ad ogni imperatore corrisponde una singola era con un nome preciso, ad esempio l’era del quasi ex-imperatore Akihito, iniziata nel 1989 e che terminerà a fine aprile 2019, venne chiamata 平成 heisei, “pace raggiunta”.

La notizia della nuova era è stata accolta con notevole entusiasmo dalla popolazione giapponese sui social, e con un po’ di diffidenza dalla popolazione straniera, essendo in molti un po’ allarmati dalle posizioni conservatrice di Abe che a volte sanno un po’ di Kokugaku dei primi decenni del XX secolo.

Il Primo Ministro ha garantito che si impegnerà a rendere la nuova era un’era di speranza.

Non sono mancati memes e battute sulla presentazione dei kanji

riproduzioni fedeli del segretario Suga sotto forma di bentō

e fanart con personaggi famosi di manga e anime.

https://www.instagram.com/ma_07n/p/BvsxwpwhGB-/?utm_source=ig_share_sheet&igshid=kiub5v5vj3pe

Annabella Barbato


Sitografia

 

Più dell’oro

Siamo in un quartiere nella città di Karachi in Pakistan, le persone sono da sette ore in coda per avere l’acqua. In un reportage della Unreported World si sentono le urla di rabbia degli abitanti verso la commissione dell’acqua: “siamo da due mesi senza acqua” è il commento di un signore anziano. Pensano infatti che l’ufficiale della gestione dell’acqua del loro quartiere non si preoccupi di loro: “non vi vergognate?” chiede una donna con due bambini in braccio.

La città di Karachi è la città più popolosa del Pakistan (più di venti milioni di abitanti) ed è la capitale della provincia del Sindh; è anche il centro della crisi di acqua più grande che il Paese abbia mai subito negli anni. Tra tutti i suoi abitanti sono pochi quelli che si possono permettere l’acqua, mentre i restanti, come afferma la giornalista di Unreported World, lottano per averne un po’. La giornalista segue durante il suo reportage Lakma (una donna del posto che aspetta l’arrivo dei camion con le cisterne d’acqua), che dice “l’acqua vale più dell’oro qui: ho una figlia con gravi disabilità e ogni giorno è una battaglia continua, se non la puliamo ogni giorno, le sue feci e le urine creano un forte odore nella stanza“; per Lakma è più facile comprare vestiti usati (20 rupie) per “pulire la figlia”, cambiandola due o tre volte al giorno, ma purtroppo i vestiti usati non possono essere puliti poiché non c’è l’elemento primario. Continua a leggere

Quando cominceremo ad occuparci del Tibet?

My heartfelt wish is that my story may create some understanding for a people whose will to live in peace and freedom has won so little sympathy from an indifferent world.”  ― Heinrich Harrer, Seven Years in Tibet

Esistono nella storia tanti episodi di occupazione di territori deboli da parte di attori più potenti o influenti. Nessuno di questi episodi, è una storia felice. Ma alcuni riescono ad avere, almeno, un finale felice.

La tragedia di cui scrivo oggi è quella del Tibet, sotto occupazione da parte della Cina. Ed è una di quelle storie il cui finale non sembra felice. L’occupazione del Tibet è una storia conosciuta ma ignorata, e che per questo vede le sue possibilità di ottenere la propria indipendenza diminuire. Continua a leggere