Ancora ricordo quello stagno. Mi ricordo di quando gli ho scattato una foto. E ricordo che mi era stato detto solo un momento prima che loro gettavano le ceneri in stagni come questo, nella terra intorno Oświęcim. Era una tranquilla e soleggiata mattina d’agosto sei anni fa ad Auschwitz-Birkenau. Ero con un gruppo di giovani tedeschi, studenti liceali e universitari, accompagnati da una donna bielorussa, che era sopravvissuta ai campi della morte da bambina, e lo staff di un sito commemorativo tedesco. Il giorno prima eravamo stati in quello che è chiamato “Stammlager”, o Auschwitz I, il primo campo ad essere costruito lì nel maggio 1940. Era più piccolo, e affollato. Siamo passati attraverso la famigerata porta con la frase “Arbeit macht Frei”. I campi erano pieni di gruppi di turisti, e sembrava più un’attrazione turistica che un luogo di commemorazione. Le persone non aiutavano: puoi fare foto quasi ovunque ad Auschwitz – tranne che nella camera a gas ricostruita, di fronte alla quale un cartello chiede di non fare fotografie per rispetto nei confronti dei molti che sono morti in queste stanze. Questo non ha fermato i flash mentre camminavamo. Certo, ci sono nonostante ciò immagini che non posso dimenticare di quel giorno. Nella mostra israeliana, il grande Libro dei Nomi pendeva dal soffitto, contenente 4.2 milioni di nomi. I mucchi di valigie su cui le persone avevano scritto il loro nome, che aspettavano di ritornare indietro. Ho riconosciuto un indirizzo familiare – c’era sopra la strada della mia scuola elementare, ad Amburgo. Altri mucchi: occhiali, cucchiai, scarpe ed infine: capelli. Continua a leggere
