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Tra poesia e politica: la nazione nata dai versi

Fin dagli albori della civiltà ellenica, nell’area balcanica è stato estremamente stretto il legame tra politica e poesia. Non è difficile scorgere questa duplice anima, alla quale spesso si accompagna anche quella di guerriero, in emblematiche figure come Parmenide, Sofocle, Empedocle o Tirteo, solo per citarne alcuni. Nonostante possano sembrare ambiti della competenza umana antiteticamente distanti, netta è la linea che le unisce se si pensa alla politica intesa come origine e in seguito gestione di un percorso di ricerca di un’identità nazionale, dal momento che necessariamente per raggiungere quest’obiettivo dovrà avvalersi di uno strumento potente come il linguaggio comune. 

La lingua è infatti, utilizzando le parole di Hugo von Hofmannsthal, scrittore, poeta e drammaturgo austriaco, qualcosa di completamente diverso da un mezzo naturale per farsi capire, essendo essa il luogo d’incontro necessario a formare una comunità e proprio attraverso essa è possibile partecipare alla proprietà nazionale, essere ricompresi in ciò che rappresenta la nazione e che si realizza compiutamente nella perfetta bellezza della lingua. La figura che principalmente ha a che fare con il linguaggio è quella del poeta. Così come il politico sta nel mezzo della res publica e vivendola può connetterne gli elementi per il fine della comunità, il poeta cerca la giusta maniera per nominare ciò che lo circonda per giungere alla loro essenza, e in tal modo le domina e gestisce. È così evidente come l’attenzione per il linguaggio e l’attenzione per il bene pubblico non siano atteggiamenti separati.

Paradigmatici sono i casi in cui questo legame risulta evidente, essendo le due anime contemporaneamente presenti nella stessa figura. 

Nella prima metà dell’ottocento si distinse la figura di Petar Petrović-Njegoš, nato il 1° novembre 1812 a Njeguši e morto a Cettigne il 19 ottobre 1851. Nell’ambito di un processo di formazione nazionale di cui furono protagoniste le grandi nazioni balcaniche accanto a croati e serbi, altri popoli slavi meridionali svilupparono una propria identità nazionale, tra questi avvenne per la piccola ma agguerrita nazionalità montenegrina che intorno alla sua dinastia di vescovi-principi (Petrovic-Njegos) e ad alcuni intellettuali, come lo stesso Pietro II autore del Serto della montagna o Gorski Vjenac, trovò un senso di appartenenza favorito dall’isolamento tra i monti che peraltro avevano permesso al Montenegro di non essere mai realmente sottomesso al dominio turco.

Saldamente piantato, per le sue origini, per la sua vita e per il suo stesso temperamento, nel primitivismo balcanico-montenegrino, Petrović-Njegoš se ne stacca per le elevate aspirazioni del suo ingegno e più ancora per la tagliente consapevolezza con cui vive i problemi che lo agitano. Continuamente egli cerca di sublimare, trasferendoli in sfere spirituali, modi e norme di vita e di pensiero che egli ha ereditati da lunghi secoli di forzata inerzia culturale – la tradizione secolare ha di per sé stessa alcunché di ieratico e maestoso – e che, per e contro la sua volontà, sono ancora in lui vivi e operanti. Il contrasto è manifesto anche nella forma.

Dopo diverse raccolte di canti e poesie popolari Petrović-Njegoš compone il Gorski Vijenac (Serto della montagna, Vienna 1847), che racconta, in forma drammaticamente dialogata, lo sterminio dei Montenegrini apostati avvenuto, secondo una tradizione poco fondata, tra la fine del sec. XVII e il principio del sec. XVIII. Questo avvenimento assurse per Petrović-Njegoš a un significato simbolico, e il dramma-poema, che ne racconta soprattutto la preparazione morale, se ne stacca di tanto in tanto per approfondire le più recondite ragioni della necessità della fede e del patriottismo e per scandagliare l’essenza dell’uomo e dell’umanità”.

Come riportato da Srdja Pavolovic nel commento “The Mountain Wreath: Poetry or a Blueprint for the Final Solution?” a margine dell’articolo di Alexander Greenawalt “Kosovo Myths: Karadzic, Njegos and the Transformation of Serb Memory”, la strage sarebbe avvenuta durante il regno di Danilo Metropolitano, antenato proprio di Petrović-Njegoš. Nel sottotitolo del Serto della montagna l’autore afferma che il poema tratta degli “Eventi storici dalla fine del diciassettesimo secolo” (“Historicesko Sobitie pri Svrsetku XVII vieka”). La loro datazione è basata sui racconti dello stesso Danilo Metropolitano, nonostante anch’essi risultino ben poco precisi: se risulta certo che la strage sia avvenuta durante la notte di Natale, l’autore indica tre diversi anni in cui essa potrebbe essere effettivamente avvenuta (1702, 1704 e 1707). Curioso è notare come lo stesso Petrović-Njegoš, in un’opera antecedente di due anni rispetto al Serto della montagna, Ogledalo Srpsko del 1845, già cita il “massacro dei convertiti” datandolo “intorno all’anno 1702”.

L’opera di Petar Petrović-Njegoš contribuì fortemente a cementare l’identità cristiana del montenegro. D’altronde, la componente religiosa è sempre stata, fin dai primi anni della sua infanzia, parte integrante e predominante della sua formazione culturale: trascorse la sua fanciullezza parte a Cettigne presso lo zio “vladika” Pietro I e parte in un monastero delle Bocche di Cattaro. All’età di diciotto anni, nel 1830, morto lo zio, fu proclamato capo della chiesa e del popolo montenegrino (le due cariche di capo politico e capo spirituale erano ancora unite nel Montenegro), e nel 1831 archimandrita, ovvero quello di superiore della congregazione dei fedeli montenegrini. Nel 1833 e nel 1834 otterrà in Russia i gradi prima di vescovo e poi di metropolita.  Questo legame con la Russia verrà mantenuto anche nell’esercizio del suo ruolo di principe, in quanto poté contare sull’aiuto politico e finanziario della grande potenza a cavallo tra Europa e Asia per domare la vicinanza dell’Austria, le sporadiche rivolte dei suoi sudditi per la sua severa repressione delle tendenze turcofile comunque presenti nell’area balcanica e soprattutto l’aggressività turca. Non furono infatti poche le lotte con i Turchi, soprattutto quelli provenienti dell’Erzegovina e dall’Albania, specialmente durante i suoi primi anni di governo. Fu solo dopo che l’isolamento geografico e le barriere naturali circondanti il piccolo principato, uniti alla strenua difesa del tenace popolo montenegrino dei propri confini, ebbero scoraggiato definitivamente gli assalti turchi che Petrović-Njegoš poté concentrarsi maggiormente sull’aspetto amministrativo e culturale del proprio governo: appena gli fu possibile, introdusse nel suo minuscolo stato parecchie riforme amministrative e finanziarie, e con la fondazione di una scuola elementare (1833) e di una stamperia (1834) cercò di sollevare il paese dallo stato patriarcale di cultura in cui ancora si trovava.

Alla sua morte, sopravvenuta nel 1850 a causa della tisi, lasciò un Montenegro ben diverso da quello che aveva ereditato, tra la sua maggiore autonomia ai danni dell’impero ottomano e il suo rinnovato apparato burocratico e amministrativo. 

Non è dato sapere quanto sul governo di Petrović-Njegoš abbia influito la sua duplice anima di politico e poeta, ma è evidente il risultato di una fonte comune che è la sensibilità verso ciò che immediatamente gli era più vicino e che teneva insieme l’attività amministrativa e la tensione artistica. 

La sensibilità del principe montenegrino risulta ancor più evidente dal poema filosofico “Il raggio del microcosmo” (Luča Mikrokozma), pubblicato a Belgrado nel 1845, nel quale il poeta cerca di darsi ragione delle sorti dell’uomo tramite ragionamenti di stampo miltoniano.

Certo è che questo non fu sufficiente affinché egli non esercitasse il suo potere in maniera autoritaria, ma la sua politica va pur sempre inserita in un contesto, quello balcanico dell’ottocento, che non poteva permettere certo a un principe di concentrarsi solamente sull’attività letteraria, in quanto seppur un noto adagio reciti che la penna ne ferisca più della spada, Petrović-Njegoš non poteva certo esimersi dall’usarle entrambe.

Paolo Palladino

BIBLIOGRAFIA:

  • Hugo von Hofmannsthal, La rivoluzione conservatrice europea, Venezia, Marsilio, 2003
  •  Francesco Guida, La Russia e l’Europa centro-orientale: 1815-1914, Roma, Carocci, 2014.
  • Giovanni Maver, Enciclopedia italiana, 1935.
  • Srdja Pavlovic, “The Mountain Wreath: Poetry or a Blueprint for the Final Solution?”, a margine dell’articolo di Alexander Greenawalt “Kosovo Myths: Karadzic, Njegos and the Transformation of Serb Memory”, volume 1, ottobre 2001.
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Aluminij parte 2: da agonia a presa per i fondelli

Nell’articolo precedente in cui si parlava della bancarotta di una delle più importanti fabbriche in Bosnia ed Erzegovina abbiamo descritto come i lavoratori e la fabbrica stessa siano stati ridotti a un capro espiatorio tramite il quale il Governo croato e quello bosniaco potessero dare sfogo alla propria retorica nazionalista. Il risultato è stata la dichiarazione di bancarotta e 900 lavoratori che rischiavano di trovarsi per strada. Continua a leggere

Aluminij: un’agonia che dura da più di 20 anni

Il 9 luglio 2019 dopo 44 anni di attività ha chiuso la fabbrica Aluminij a Mostar. Il “gigante dell’Erzegovina”, nome che si era legittimamente affibbiato, è solo uno dei tanti esempi di fallimenti dopo la guerra degli anni ’90 nei paesi che un tempo componevano l’ex-Iugoslavia.

Ma cos’era l’Aluminij? Si trattava della più grossa industria di produzione dell’alluminio nella regione balcanica che dal 1975, anno della sua fondazione, è riuscita non solo a imporsi a livello locale creando un’enorme rete di cooperazione con diverse aziende, cooperative e fabbriche minori e non, come il cantiere navale di Ploče o come la storica compagnia Jedinstvo, ma anche a livello internazionale, siglando partnership ad esempio con la Chrysler tedesca, la Fiat italiana e l’Hydro ASA norvegese.
Un colosso del genere come ha fatto allora a fallire? La risposta è semplice ed è benissimo riassunta da un modo di dire Serbo-Croato: “Balkanska Posla” (tradotto significa “Business balcanico”). Questo “business” fa riferimento alla malagestione tipica dei governi post-socialisti e degli imprenditori che hanno acquisito le fabbriche. Nel caso specifico dell’Aluminij si riferisce alle polemiche che i governi croato e bosniaco hanno creato attorno alla fabbrica, accusandosi a vicenda di aver sabotato il suo corretto funzionamento. Prima di analizzare nello specifico quali sono queste accuse e quali sono i fatti dietro ad esse, bisogna precisare che l’azienda è detenuta per il 44% dal Governo bosniaco, per un altro 44% dai lavoratori ed ex-lavoratori e per un 12% dal Governo croato, secondo l’accordo siglato nel 2007 dai due paesi coinvolti.
Da una parte, quindi, abbiamo il Governo bosniaco che accusa quello croato di sfruttare il partito locale che rappresenta i croati, l’HDZ (Hrvatska Demokratska Zajednica, Unione Democratica Croata) per assumere solo lavoratori di etnia croata e in questo modo incrementare la percentuale reale di proprietà dell’azienda. Dall’altra parte abbiamo il Governo croato e i diversi partiti che rappresentano i croati in Bosnia che accusano il Governo bosniaco di sabotare volutamente l’azienda per forzare l’assunzione di ulteriori lavoratori di etnia “bosgnacca” (fede islamica) ma anche per costringere la Croazia ad accettare una revisione dell’accordo che permetta la completa cessione dell’azienda alla Bosnia.

Alla fine, le accuse di entrambi sono veritiere, perché l’HDZ sfrutta realmente i suoi agganci politici per far assumere solo croati nell’Aluminij, tanto che anche l’Amnesty International in un suo report ha confermato la presenza di soli lavoratori croati, accusando lo stesso partito e l’azienda di compiere di fatto una “pulizia etnica”. Il Governo bosniaco, invece, aumenta in modo spropositato i costi dell’elettricità all’Aluminij quando la Bosnia è un paese che ha un elevato export di energia elettrica. L’azienda diventa un mezzo tramite il quale i due governi regolano i conti tra di loro per accordi che ritengono insoddisfacenti ma che sono stati siglati in presenza di supervisori internazionali.
Tutto ciò si ripercuote sui lavoratori, dove in questo caso 900 di loro si trova di punto in bianco senza lavoro. Se aggiungiamo a questo tipo di “gestione” anche gli accordi loschi che i governi siglano con figure ancora più losche, la gestione clientelare di certe aziende da parte dei partiti, il nepotismo che si instaura non solo in aziende private ma anche in quelle pubbliche, la vendita a prezzi bassissimi di interi assetti pubblici a profittatori di guerra nel pieno “dell’isteria di privatizzazione”, manovre segrete per falsificare i bilanci o debiti privati coperti dai conti pubblici e la mancanza di una reale volontà politica nel sostenere una rilancio effettivo dell’economia, ecco che si ha il quadro tragico di questi paesi.

Per 20 anni queste scelte hanno portato a un accumularsi di problemi che ora lentamente stanno uscendo allo scoperto, non facendo altro che rendere più lunga l’agonia per i cittadini. Per citare alcuni esempi: il fallimento dell’Agrokor, che costituiva un gigantesco impero economico al quale però il Governo croato falsificava il bilancio e nascondeva i debiti esponenziali che aveva accumulato il proprietario Todorić; il fallimento della catena “Kerum” dell’omonimo proprietario ed ex-sindaco di Spalato, dopo i debiti che lui stesso aveva accumulato giocando ad azzardo; la chiusura della storica azienda “Zastava” in Serbia per l’incapacità del Governo serbo di impedire alla Fiat di delocalizzare; la chiusura di interi cantieri navali come quello di Fiume o di Pola perché il Governo croato non aveva voluto pagare gli stipendi ai lavoratori preferendo invece aumentare il bilancio positivo dei conti pubblici; la chiusura della fabbrica di tabacco in Bosnia dopo che il Governo l’aveva venduta a un magnate bulgaro…

La cosa più tragica del caso Aluminij resta però il fatto che da questa azienda dipendessero migliaia di altre aziende minori o cooperative e che ora, con il fallimento, i 900 lavoratori rischiano di diventare decine di migliaia e che rischia di ripercuotersi anche al di fuori del confine della Bosnia, andando a colpire ad esempio, il cantiere navale di Ploće in Croazia che già rischia un calo del 50% di attività. Una tragedia causata da polemiche nazionaliste tra governi miopi e sordi che continuano a sostenersi tramite una rete clientelare.

Una tragedia che rischia soltanto di aggravarsi col tempo, perché anche davanti a questi disastri i governi preferiscono continuare a polemizzare, anziché riflettere su piani per una ripresa economica effettiva.

Andrea Zamboni Radić