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Re Johnson, Impero d’Inghilterra: il senso della Brexit nella strategia della “tribù”

“Do or die”: Brexit o morte. A un anno dalla schiacciante vittoria dei Tories, a quattro dalla vittoria
del Leave, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea sembra essere tutt’altro altro che
vicina ad un accordo.
Il preannunciato disastro economico – per l’economia reale, per le aziende, per i lavoratori – appare
ancora più imminente e minaccioso nel Paese europeo (ancora) con il più alto numero di vittime
di covid-19. Eppure, la bandiera della Brexit non vacilla.
Così come non vacilla Boris Johnson, nonostante il ciclone sanitario e politico portato dalla
pandemia: più che un leader, un simbolo, la cui missione autoimposta corrisponde al destino del
Regno Unito, sulla strada per tornare ad esistere come grande potenza atlantica, giocando sulla
consanguineità, strategica e storica, con la ben più fortunata figlia a stelle e strisce.
Ma dove nasce la visione del mondo di Boris, il bambino che sognava di diventare re? E su quali
basi è possibile criticarla? Per rispondere ci porremo tre domande: chi è Boris Johnson? Qual è il senso della Brexit? Che cos’è il tribalismo?

Re Boris
Si racconta che Paul Ricoeur, filosofo ermeneutico, quando qualcuno dei suoi studenti gli poneva
una domanda, rispondeva sempre: “Da dove parla, lei?”. Ciascuno, infatti, per il francese proviene
da un certo retroterra, un humus che è la prima situazione in cui si forma l’individualità, con i suoi
caratteri e le sue mancanze.
Nato a New York, da una famiglia di origine turca che di cognome portava Kemal, e che lo
dismise in favore di Johnson, Alexander rinunciò al doppio passaporto anglo-americano, e si
inventò un nuovo nome, Boris: segno pseudo-battesimale del suo secondo originale ingresso al
mondo. E, chissà, forse tra i grandi della Storia.
Proprio l’ambizione è il tratto che ha accompagnato, anzi diretto l’iperbolica formazione
dell’attuale premier britannico: l’essenza di fenice che ha bruciato nelle fiamme “Al”, il bambino
semi-sordo che sognava di diventare re del mondo, e ha partorito Boris, l’eccentrico arrogante,
brillante studente di Oxford che alla preparazione e alla tenacia ha dovuto la sua non scontata
carriera. E che, alle velleità da Caesar, sostituì una più modesta, ma altrettanto morbosa,
ammirazione per Churchill, cui dedicò anche una biografia: “How One Man Made History”.
Una biografia con speranze autobiografiche, dato che lui, Boris, la Storia la annusa da tempo,
da quando tentò la carriera nella presidenza dell’Unione studentesca di Oxford, e fallì una prima
volta. Da allora, la passione per la competizione lo ha portato in Parlamento, nei ministeri dei
governi Howard e Cameron e alla guida di Londra per due volte. Sempre in lizza per guadagnare
la leadership dei Tories, obiettivo raggiunto nel luglio del 2019.
Come appare chiaro dalle elezioni del dicembre scorso, lo scettro guadagnato re Boris intende
mantenerlo, puntando tutto su un solo obiettivo: la Brexit. Almeno, prima dell’urgenza di
contenere la pandemia.
L’espressione di sovranità popolare- il referendum in sé- divenuta espressione di sovranismo
dell’Inghilterra (più che della Gran Bretagna), a casa e nei confronti dell’Europa, e di uno
sbilanciamento dei poteri a vantaggio del governo, investito di una missione epocale. Anche a
costo di una (probabile) uscita senza accordo.
Insomma, il premier britannico sembra essere l’interprete perfetto del “tribalismo” di cui lo hanno
accusato dalle file in dormiveglia del Lib Dem Party, il cui nazionalismo populista neanche i
Labour sanno sfidare con un’alternativa credibile.
L’interprete, certo, ma non l’autore di un pensiero diffuso, che ha nella Brexit il suo evento più
recente e rumoroso.

Impero d’Inghilterra
Albione, la “Grande Gran Bretagna” è ciò che rimane della potenza egemone dei mari: non una
nazione, troppo stretta e claustrofobica, non un impero, troppo impegnativo da controllare e
di fatto disgregato. È quella che Lucio Caracciolo ha definito una nazione imperiale, sospesa in
bilico sulla necessità di un ripensamento del suo ruolo.
A rischio non c’è solo la tenuta dei rapporti privilegiati intessuti con pazienza a Est, a Ovest
e a Sud del mondo, ma anche e ancor di più la coesione delle (quasi) quattro nazioni che
compongono il Regno Unito: Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord.
La Brexit è il prodotto di una tensione naturale tra l’Europa e l’Inghilterra, centro della potenza
britannica: il risultato della convergenza tra la tendenza regional-localistica che l’idea d’Europa
favorisce nei suoi Stati membri e la contromisura (al processo di integrazione) centripeta
attuata dall’amministrazione nazionale inglese. È possibile, infatti, leggere il referendum che
sancì il Leave come una controffensiva al tentativo di indipendentismo scozzese che fu il motivo
del precedente referendum del settembre 2014.
La frammentazione della realtà britannica, del resto, è evidente anche a chi osservi
semplicemente le percentuali dei voti distribuite sul territorio: una scacchiera ben divisa tra
Irlanda del Nord e Scozia, schierate per il Remain, e Inghilterra e Galles, dove la compattezza dei
pro-Brexit è intaccata dal solo voto dissonante di Londra.
Dunque, la realizzazione della Brexit, nella strategia di molti e di Johnson tra questi, avrebbe la
doppia motivazione di fuggire dall’Europa, e dal rischio di rimanere incastrati nei suoi gangli, e
di restaurare l’unità nazionale, o, meglio, di instaurarla con una tattica sovranista, mascherata da
consultazione e quindi ammantata di sovranità.
Il progetto è quello della creazione di una “Global Britain”, liberamente ispirata al modello
statunitense, estensione dello Stato e della “razza” di religione, lingua e cultura inglesi che
dal Canada alle isole delle Indie Occidentali, dall’Australia al Sudafrica all’India percorra tutto
il globo. Con una rete di accordi commerciali che costituiscano una fitta rete capace di
rivaleggiare con l’Europa (e di scavalcarla) e di dialogare – con ribrezzo americano – con la Cina,
nuovo “polo antipodico”.
Un’operazione per proteggersi, dunque, ma soprattutto per ribadire, citando Churchill, che, se
anche l’Inghilterra è stata nella sua storia spesso con l’Europa, tuttavia non si è mai mescolata
con essa.

Il tribalismo della grande nazione
Ambizioni di grandezza, sogni di recupero di un potere dirottato dalla Storia altrove, narrazioni
finto-imperiali in un’epoca di “piccole patrie”, in cui il destino di Grande Nazione educatrice non
può che ridursi alla specchiata paranoia di un’importanza sul globo sempre più flebile e avvizzita:
è dall’insicurezza che nasce l’atteggiamento tribale. Tanto nell’individuo, quanto nella persona,
singola o collettiva che sia, come lo Stato.
Tale atteggiamento è stato definito da Eco “Urfaschismus“, fascismo eterno e radicale,
in senso kantiano. Zagrebelski ha, sulla Repubblica (24 novembre 2018), riassunto così
alcuni suoi caratteri: “identità aggressiva e purismo etico […]; rigetto dei diritti individuali;
primato dell’azione sulla riflessione e sulla discussione; decisionismo; culto della forza; anti
parlamentarismo; esaltazione del senso comune; concezione del popolo come un tutt’uno
indifferenziato; razzismo […]; nazionalismo contro cosmopolitismo; complesso di unicità e
superiorità”. Aspetti, tutti, tipici di una società chiusa il cui archetipo ideale è il modello della tribù
(un modello, per la verità, che ha poco a che fare con la realtà storica delle tribù). Essere tribali
significa richiamarsi a quel modello, cioè dar voce al fascismo radicale che alberga nell’uomo
storico.
Ciò che inaugura questo modello è quello che Levi-Strauss ha definito il “gesto selvaggio” che
distingue un “noi” da un “non-noi”, che ci è estraneo e che va eliminato, tenuto fuori dal limes delle
nostre sicurezze, entro il quale e grazie al quale siamo sovrani.

Si tratta, perciò, di rimarcare costantemente la separazione, per conservare l’identità e la
purezza, la razza, che possiede un territorio e un ordinamento: nel caso inglese una Common
Law i cui interpreti sono i cittadini stessi.
Il concetto che forgia il modello tribale è stato descritto da Roberto Esposito a partire da una
distinzione terminologica tra communitas e immunitas: la prima è la congrega umana che
condivide (“cum”) una mancanza, un vuoto (“munus”) strutturale e connaturato, sul quale fonda,
senza fondare veramente, una società e una storia, necessariamente aperte. La seconda è il
suo contrapposto: una collettività che si immunizza, nascondendo il suo bisogno originale e
originario rendendosi impermeabile ad ogni estraneo, barricandosi nelle poche e futili certezze
del proprio.
Resta, allora, da chiedersi se il tribalismo di cui è accusato Johnson, interprete di un sentire
diffuso non solo in Inghilterra, sia effettivamente il segno di una rinuncia alla condivisione
di un destino europeo o se non sia proprio il segnale più lampante di quella insufficienza e
deficienza di ideali comuni, di vera fraternità, che è l’autentica cifra dell’Europa, terra ambigua
dell’ambizione e della delusione.

Lorenzo Ianiro

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Imperialismo e Aringhe Affumicate

“Userò i Conservatori, per carpire i tuoi segreti. Per capire cosa pensi, nei tuoi PMQ intensi, nei tuoi Trump americani, così British e così volgari, fatti un po’ a cazzo di cane. Userò gli occhi di Boris come fa un dottore cieco quando che opera i pazienti, stanno tutti molto attenti”

La nuova stagione di Boris è appena iniziata e purtroppo questa volta non riguarda un pesce rosso in un boccia di vetro. È invece iniziata con un pesce avvolto in una confezione di plastica. Proprio quell’aringa affumicata che Boris Johnson sventolava all’ennesimo comizio accusando l’Unione Europea di imporre al Regno Unito regole che costringevano a plastificare il pesce affumicato proveniente dall’Isle of Man, con un forte aumento del costo economico e ambientale per i pescatori e lo Stato di Suà Maestà. Purtroppo è saltato fuori che in verità la legislazione che imponeva questo tipo di conservazione era puramente di stampo britannico e che l’Unione Europea non c’entrava nulla. Poco importa: questo scivolone, assieme a molti altri spergiuri e incorrettezze, non ha impedito a Boris Johnson di diventare Primo Ministro del Regno Unito lo scorso 23 luglio, sconfiggendo il proprio rivale Jeremy Hunt con una percentuale di voti conservatori del 66%, succedendo a Theresa May come nuovo leader del partito al governo.

Nato a New York, ha studiato ad Oxford e lavorato per un bel po’ di tempo a Bruxelles come inviato speciale sulle vicende europee, cogliendo  quest’opportunità per lanciare il suo nuovo ed unico approccio degli euromiti al giornalismo internazionale. Non di grande rilievo attestare la veridicità dei suoi racconti: l’importante è spesso stato perpetrare una visione personale euroscettica più che la realtà dei fatti.

Il suo stile è particolare: noto per frasi lapidarie e senza mezze misure, ha accostato l’aspetto estetico delle donna con il burka alle cassette delle lettere e definito le popolazioni di colore del Commonwealth Britannico con epiteti razzisti e dispregiativi. Nonostante questo, ha sempre dimostrato un grande talento nell’esaltare i bisogni delle persone per farle sentire comprese, giostrando spesso l’opinione con toni forti ma ben indirizzati a quello che i cittadini richiedevano. Banalmente, è stato la massima espressione della campagna Leave nel 2016 la quale ha portato all’attuazione della Brexit. Celebri i suoi double-decker con le mendaci scritte sulle fiancate per fomentare la rabbia dei cittadini britannici (“ogni anno noi inviamo all’Unione Europea 350 milioni di dollari: riusiamoli per finanziare il Sistema Sanitario Nazionale”) per le quali è stata aperta anche un’inchiesta contro alcuni collaboratori di Johnson. Quelle scritte, assieme ad una violenta propaganda mediatica, sono riuscite però a portare alla vittoria quel lato dell’elettorato euroscettico e desideroso di entrare in quella che Johnson ha definito nella sua prima sessione di PMQ, “la nuova era d’oro del Regno Unito”.

Il suo ingresso a Downing Street n°10 non è stato sicuramente leggero né tantomeno sottotono: il nuovo Primo Ministro ha subito provveduto ad una sostanziale sostituzione di Ministri con forte figure sostenitrici della Hard Brexit, per la costruzione di uno dei governi più di destra e conservativi che la Gran Bretagna non vedeva dai tempi della Thatcher. Tra i tanti, il nome che ricorre più spesso è quello di Priti Patel, conservatrice parlamentare della House of Commons per la circoscrizione di Whitam, nominata Ministro degli Interni tra lo sgomento di molte figure poltiche di Westminister. Sì perché Ms Patel ha dimostrato più volte la sua simpatia verso la reintroduzione della pena capitale negli anni passati, costretta alle dimissione nel precedente governo per aver tentato di indirizzare i soldi per l’aiuto straniero del Regno Unito verso l’esercito israeliano. Altri Brexiteers sono presenti all’interno della squadra di gabinetto: Jacob Rees-Moog, Dominic Raab, Andrea Leadsom, Micheal Gove. Ognuno di loro è disposto a seguire Boris Johnson nella sua promessa di uscita dall’Unione Europea il 31 ottobre, con o senza accordo. 

Probabile senza.

Anche l’Europa ha dichiarato di non voler continuare a prolungare le trattative riguardo l’accordo e la varie concessioni richieste dal Regno Unito: l’Unione si rifiuta di rivedere l’accordo già stabilito con la May. Molti cittadini vedono sempre maggiore la necessità di fare marcia indietro nel processo di uscita, tra cui, non sicuramente tra gli ultimi da considerare, il Labour Party: anche il suo leader Jeremy Corbyn ha dovuto cambiare approccio ed esplicitamente supportare il lato Remain per via delle dure politiche minacciate dal nuovo Primo Ministro e dalle spinte interne al suo partito.

Il populismo del cosiddetto Trump Britannico è dunque la grande minaccia del Regno Unito al momento: l’ex-sindaco di Londra e Ministro degli Esteri ha acquisito sicuramente nei suoi anni di carriera politica una grande abilità di convincimento delle masse e strategie politiche non sottovalutabili da parte di nessuno. Lo stile esplosivo, carismatico e verbalmente violento è ciò che i sostenitori della Brexit aspettavano da tempo e che non hanno trovato all’interno della figura di Theresa May.

È partito il countdown per la più grande e spaventosa festa di Halloween nel Regno Unito da tanti anni.

Ora Boris Johnson ha circa un centinaio di giorni per portare avanti il suo piano e trascinare il Regno Unito al di fuori dell’Unione Europea, volente o nolente. Sì perché il punto è questo: non c’è più la voglia di sentire le necessità di un Paese dopo tre anni dal voto, né il confronto è visto come una possibile soluzione. Deal o No-Deal, poco importa. La Gran Bretagna deve uscire dalle catene burocratiche dell’Unione Europea che impacchetta i pesci britannici, senza  alcuna remora, in miseri sacchetti di plastica e sottrae risorse fondamentali al Sistema Sanitario Nazionale. Ci sono troppi immigrati all’interno del Regno Unito che apportano più danni che benefici e le costrizioni commerciali tolgono al Regno di Sua Maestà il suo ruolo egemone ed imperialista di un tempo che, dopo la Brexit, tornerà ad essere “Il più Grande Paese sulla Terra”. 

Poco importa che tutto ciò sia vero o no. La verità non è quello che interessa al momento, né al Partito Conservatore, né tantomeno al Primo Ministro. L’unico punto è che il Regno Unito dovrà uscire dall’Unione il 31 ottobre. Ed uscirà al 31 ottobre.

Volente o nolente.

Matteo Caruso


Sitografia:

https://www.theguardian.com/politics/live/2019/jul/25/boris-johnson-new-cabinet-prime-minister-chairs-first-cabinet-as-critics-say-party-now-fully-taken-over-by-hard-right-live-news

https://www.washingtonpost.com/opinions/2019/07/23/boris-johnsons-victory-proves-its-fiction-not-fact-that-tories-want-hear/?utm_term=.2460a155ab72 

http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Boris-Johnson-Brexit-il-31-ottobre-Diventeremo-il-piu-grande-paese-della-terra-f59fced3-b1f3-4769-b441-e297f2e868a0.html?refresh_ce 

https://www.bbc.com/news/uk-politics-49118107 

https://www.theguardian.com/politics/live/2019/jul/25/boris-johnson-new-cabinet-prime-minister-chairs-first-cabinet-as-critics-say-party-now-fully-taken-over-by-hard-right-live-news  

https://www.independent.co.uk/news/uk/politics/priti-patel-cabinet-home-secretary-boris-views-beliefs-israel-ireland-death-penalty-a9018616.html

https://edition.cnn.com/2019/07/13/uk/boris-johnson-profile-world-king-intl-gbr/index.html

May Day

Il 23 Giugno 2016 la popolazione del Regno Unito veniva chiamata alle urne da un referendum volto a decidere il futuro del Paese all’interno dell’Unione Europea. La scelta, al tempo, era apparsa relativamente semplice: Remain o Leave. Prendere o lasciare, dentro o fuori. Un giudizio limpido e definitivo sull’UE e un pensiero al futuro dell’isola di Sua Maestà.

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