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La comunicazione tra intestino e cervello

L’asse intestino-cervello è uno degli argomenti più studiati negli ultimi anni nel campo scientifico. Cervello e intestino sono due organi ben distinti, che apparentemente non sembrano essere collegati tra loro, ma in realtà sono strettamente connessi e il loro rapporto ha un impatto importante sulla salute dell’organismo.

L’intestino è un organo deputato alla digestione degli alimenti che ingeriamo che ha un sistema nervoso autonomo e grazie a questa caratteristica di autoregolazione nella gestione degli stimoli è definito “il secondo cervello” del corpo umano.

Ultimamente le ricerche si stanno concentrando sul microbiota intestinale, cioè l’insieme dei microrganismi regolatori dell’asse intestino-cervello. Questi microrganismi, i cui principali sono sono Bifidobacterium, Lactobacillus ed Eubacterium, sono pari quasi a tre volte il totale delle cellule dell’intero corpo umano.

Nel libro “L’intestino felice”, la gastroenterologa tedesca Giulia Enders cita l’esperimento del nuoto forzato, che è uno degli studi più significativi su questo tema: un topo viene messo in un contenitore pieno d’acqua e, poiché non tocca il fondo, agita le zampette per cercare di tornare sulla terra ferma. Per quanto tempo il roditore riuscirà a nuotare per cercare di arrivare al suo obiettivo? I ricercatori hanno somministrato alla metà dei topi un batterio fondamentale per l’intestino il Lactobacillus rhamnosus JB-1 e hanno scoperto che i topi con l’intestino in buona salute nuotavano più a lungo e i loro test di memoria e apprendimento erano migliori rispetto a quelli degli altri topi. Se però gli scienziati recidevano loro il nervo vago, non si riscontrava più nessuna differenza tra i topi.

Cosa c’entra il nervo vago e perché è fondamentale? Il nervo vago è il collegamento tra intestino e cervello, è il decimo paio di nervi cranici presenti nell’essere umano. Esso mette in comunicazione il cervello e  l’intestino tramite  neurotrasmettitori comuni, come la serotonina che regola l’umore e viene prodotta per il 90% dalle cellule enterocromaffini, cellule epiteliali situate principalmente nello stomaco e nell’intestino. Molti studi recenti, infatti, hanno individuato una concausa di ansia e depressione nei disturbi gastrointestinali.

Intestino e cervello, quindi, si influenzano reciprocamente e in condizioni di forte stress emotivo attivano i circuiti dell’ansia e della paura, che provocando il rilascio di citochine, irritano la mucosa intestinale e questa infiammazione può generare delle patologie come la sindrome del colon irritabile. Infatti, le persone che soffrono di colon irritabile, mostrano un rapporto cervello-intestino non ottimale. 

Nel libro, la Enders cita un altro interessante esperimento: un gruppo di ricercatori ha gonfiato un piccolo palloncino all’interno dell’intestino di alcuni volontari e hanno osservato contemporaneamente le immagini ecografiche dell’attività cerebrale. L’immagine del cervello era nella norma nelle persone che non soffrivano di disturbi intestinali, mentre nei pazienti affetti da colon irritabile, l’elemento di disturbo generava reazione nella zona del cervello dove si elaborano emozioni negative. Quindi, anche in questo caso si conferma l’interdipendenza tra cervello e intestino. Oggi, ancora non esiste una terapia efficace per il colon irritabile, però è stata presa in considerazione l’ipnoterapia. L’ipnosi ha dato ottimi risultati, e spesso ha permesso la diminuzione dei farmaci, soprattutto nei bambini affetti da questa patologia.

Come possiamo prenderci cura dell’intestino e del cervello?

Prima di tutto, il nostro microbiota intestinale è influenzato da alcuni fattori come la dieta, l’esercizio fisico e i farmaci che a loro volta hanno un impatto sullo stress, la paura e i comportamenti alimentari. Alcune patologie già citate come il colon irritabile o i vari problemi intestinali rendono più faticosa la connessione tra intestino e cervello. Ci sono altri disturbi come l’anoressia e l’obesità che sono associati a un microbiota intestinale alterato a causa dell’alimentazione non corretta che caratterizza queste patologie. Per questo motivo, prima di tutto, dovremmo prenderci cura della nostra alimentazione, dato che secondo alcuni studi, le alterazioni della composizione del microbiota possono influenzare le funzioni cognitive. L’alimentazione ha un ruolo fondamentale, bisogna prestare la giusta attenzione a ciò che ingeriamo ed evitare o controllare l’assunzione di  cibi e bevande che tendono a sovraccaricare il nostro apparato gastrointestinale alterando anche il microbiota intestinale, come ad esempio i cibi fritti. 

Oltre ad una buona alimentazione, è molto utile anche l’attività fisica, poiché migliorando il tono muscolare, miglioriamo anche il nostro umore riducendo così lo stress e i suoi effetti sull’intestino, Anche un sonno adeguato può aiutarci a tenere sotto controllo le tensioni e lo stress. 

Prestando attenzione, quindi, ad alcuni aspetti del nostro comportamento quotidiano, potremo apportare vantaggi all’efficienza  del nostro intestino e quindi anche del nostro cervello.

Francesca Motta

Bibliografia e fonti:

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La musica ed il cervello

Vi siete mai chiesti cosa succede nel più prezioso macchinario biologico, ovvero il nostro cervello, ogni volta che ascoltiamo una melodia?

La musica oggigiorno è una componente fondamentale delle nostre vite, la ascoltiamo quasi in ogni momento e luogo e ci accompagna durante l’arco di tutta la giornata. Potrebbe sembrare paradossale data con quanta facilità la ascoltiamo, ma è uno degli stimoli uditivi più complessi che l’uomo possa percepire. I suoni, una volta entrati nell’apparato uditivo, sono scomposti in diversi elementi, come ad esempio ritmo e melodia, che poi saranno ricomposti per generare stimoli motori come battere il piede a ritmo. Complicatissimo è il processo che ci permette di svolgere una semplice azione come battere le mani a ritmo di musica, si può solo immaginare cosa possa succedere quando si suona uno strumento o si canta. Molti ricercatori si sono posti domande a riguardo ed hanno iniziato, negli ultimi 20 anni, a definire quali siano gli effetti della musica sul nostro cervello. La potenza dell’effetto della musica sul nostro cervello è tale che sono state ideate alcune strategie terapeutiche, ancora in sperimentazione, per i pazienti affetti da ictus oppure Alzheimer per permettere loro rispettivamente di tornare ad utilizzare parzialmente la parola e parte della memoria. 

Quali sono le aree implicate nell’elaborazione della musica? 

Grazie ad alcune tecniche come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) o la tomografia ad emissione di positroni è possibile osservare il cervello umano in azione durante l’ascolto o la produzione musicale. In pratica con la fMRI si possono vedere le aree del cervello attive in un determinato momento accendersi come lampadine. Avete presente il macchinario della risonanza magnetica? Ecco, l’fMRI è molto simile nel funzionamento ed anche nella forma. Ponendo i soggetti dell’esperimento in questo macchinario e facendoli cantare o parlare si può osservare cosa succede, momento per momento, nel loro cervello. Immaginate ora che facciano ascoltare al soggetto un brano durante il monitoraggio, cosa vedranno i ricercatori sullo schermo? Piccoli fuochi d’artificio! Ovvero, durante l’ascolto musicale tantissime aree del nostro cervello si attivano contemporaneamente. Particolarmente stimolata dall’ascolto è la circonvoluzione temporale superiore, che si trova poco sopra l’orecchio e contiene l’area che processa le frequenze sonore. I neuroni di quest’area sono raggruppati in modo tale che quelli responsivi ad una determinata gamma o combinazione di frequenze si trovano nello stesso gruppo. Gli scienziati, esaltati dal numero enorme di aree attivate dal semplice ascolto musicale, hanno iniziato ad indagare sugli effetti di ogni tipo di musica sul cervello umano (pensate, c’è addirittura uno studio pilota che esplora il risultato di una particolare composizione di Bach, le “Variazioni di Goldberg” sull’attivazione di particolari aree del cervello umano). 

Musicisti di ogni tipo sono stati oggetto di studio da parte di scienziati dall’ indubbia indole creativa per monitorare il loro cervello durante la produzione musicale. È stato scoperto che tantissime aree del cervello si accendono contemporaneamente, creando un vero e proprio spettacolo di fuochi di artificio! Gli studiosi li hanno messi alla prova facendoli suonare uno strumento (sempre nel macchinario di risonanza, cosa a dir poco scomoda) e leggere contemporaneamente la musica; hanno osservato l’accensione contemporanea di quasi tutte le aree conosciute del cervello, con particolare intensità la corteccia visiva, motoria e uditiva. Immaginate che il cervello si trovi in quel momento inondato da stimoli provenienti da ogni dove e che riesca, come un esperto direttore d’orchestra, ad organizzarli ordinatamente e produrre un raffinato schema motorio per generare suoni in armonia fra loro. È stato osservato che durante l’improvvisazione si attivano le aree responsabili della creatività e dell’inventiva. 

Molti studi affermano che suonare è l’equivalente per il cervello di fare un allenamento completo. Come in ogni esercizio fisico allenare determinate aree del cervello permette di rafforzarle, la forza acquisita può essere utilizzata in ambiti dove è richiesto il funzionamento delle stesse. Suonare inoltre aumenta il volume e l’attività del corpo calloso, l’area che connette i due emisferi; permettendo quindi ai messaggi di passare da una parte all’altra del cervello in modo più veloce e attraverso vie neurali sempre più complesse ed elaborate. Questi dati confermano le storie riguardanti le capacità dei musicisti di risolvere problemi in modo efficace e creativo sia nell’ambito accademico che sociale. Altri studi ci dicono che non è necessario essere dei musicisti esperti per risentire dei benefici della pratica musicale, ovviamente a maggiore esercizio corrispondono maggiori vantaggi (ergo, gli anni passati a suonare il flauto alle medie non sono andati persi!). 

Quali sono le applicazioni della musica in ambito terapeutico? 

Ovviamente nell’ascolto e nella produzione musicale entra in gioco anche la comprensione dell’emotività e la produzione degli stati emotivi di cui è artefice la “sensibile” amigdala. Anche senza alcuna conoscenza dell’armonia o senza avere alcuna idea di come si legga uno spartito chiunque può interpretare il messaggio emotivo di un brano. Ricordate qual era il vostro pezzo preferito da piccoli? Immagino che stiate già canticchiando le sue note. In alcuni malati affetti da demenza senile oppure da Alzheimer che avevano perso il linguaggio, l’ascolto della musica preferita nell’infanzia ha avuto proprietà benefiche, tra cui un aumento delle capacità cognitive e della memoria. Sfortunatamente il meccanismo biologico sotteso non è stato ancora chiarito. È possibile che la musica, in alcuni casi, possa stimolare alcune aree del cervello e rafforzarle in pazienti affetti da Alzheimer o demenza senile? Molti studiosi stanno ancora lavorando per avere una risposta precisa a questa domanda. 

Pazienti affetti da ictus oppure che hanno subito un trauma (fisico o meno) che ha portato al danneggiamento dell’area del linguaggio (anche detta area di Broca) con conseguente afasia (quindi impossibilità di proferire parole con un senso logico) possono essere attualmente trattati, al fine di tentare di recuperare il linguaggio, con la melodic intonation therapy (MIT). Questa tecnica si basa sul principio che per cantare non è necessaria l’attivazione dell’area di Broca e che quindi una parziale comunicazione verbale potrebbe essere recuperata facendo intonare ai pazienti frasi in melodia. Immaginate una persona che, in seguito ad un ictus, intonando una melodia riesce a tornare a pronunciare frasi quotidiane e a comunicare. Nonostante i successi di questi studi, bisogna essere molto cauti nell’affermare che la MIT possa essere risolutiva poiché i risultati sono stati osservati solo in seguito ad una lunga terapia ed è più probabile che i pazienti pronuncino solo le frasi apprese durante la terapia piuttosto che frasi nuove composte spontaneamente. 

Indubbiamente la musica ha un impatto ed un’influenza enorme sia sui nostri stati emotivi che sulle nostre capacità cognitive. Anche se gli studi in questo campo sono moltissimi, le domande aperte che gli studiosi si stanno ponendo restano molte. 

Ilaria Serangeli

Restare in forma senza fare jogging: si può, imparando una nuova lingua



“Non ho tempo”, “non ho soldi”, “non fa per me”, “non conosco la grammatica italiana, figuriamoci quella di una lingua straniera!”: queste sono solo alcune delle scuse più frequenti che usiamo per rifuggire lo studio di una lingua straniera e tentare di giustificare la nostra pigrizia nell’imparare qualcosa di nuovo. Eppure, studiare una nuova lingua apporterebbe molteplici benefici non solo al nostro cervello, ma anche alla nostra salute psicofisica. Può sembrare insolito, ma è stato appurato che immergersi nello studio di una lingua sconosciuta aiuta a rimanere sani e in forma: il bilinguismo, oltre a rafforzare e migliorare la memoria, ritarda di circa cinque anni la comparsa dei primi sintomi del morbo di Alzheimer. La Professoressa Ellen Bialystok dell’Università di York a Toronto, che studia da anni l’impatto delle lingue sul cervello umano, ha constatato col suo team di ricerca che, tra circa duecento pazienti affetti da Alzheimer, coloro che hanno parlato due lingue per la maggior parte della propria vita hanno saputo fronteggiare meglio la malattia grazie a una riserva cognitiva che ha ritardato i primi sintomi (perdita di memoria e confusione), rispetto a chi, invece, ne ha padroneggiata solo una. Infatti, una persona bilingue ha un sistema di controllo esecutivo sempre attivo: il bilingue deve sempre compiere una scelta lessicale in base al proprio interlocutore. L’esercizio costante di questa area del cervello permette al bilingue di riuscire meglio in alcuni compiti, fare più cose contemporaneamente o passare velocemente dall’una all’altra. Difatti, studiare una lingua straniera è considerata una buonissima palestra per la mente anche perché modifica effettivamente il cervello, che, grazie all’allenamento, cresce. Imparando una nuova lingua, il cervello tende a moltiplicare il numero di connessioni tra le cellule nervose: maggiori sono queste, migliore sarà l’agilità della mente di immagazzinare informazioni, ricordi e dati ed elaborarli. E non solo: parlare in un’altra lingua migliora la creatività, affina l’udito, potenzia l’attenzione e la capacità di prendere decisioni. È inoltre dimostrato che la lingua parlata ha effetti sul comportamento e sul modo di concepire il mondo: imparando un’altra lingua si diventa più tolleranti e comprensivi nei confronti del diverso, ci si apre a nuovi orizzonti e nuove vedute, si conoscono nuove culture e nuovi modelli di vita e di pensiero, anche grazie alla possibilità di viaggiare più spesso e facilmente, avendo il vantaggio di poter comprendere ed essere compresi. Ampliando le nostre conoscenze e migliorando le nostre capacità di comunicazione, aumenteranno automaticamente anche la nostra autostima e la fiducia nelle nostre potenzialità: un toccasana, quindi, per le persone insicure, timide e indecise.
Un ultimo punto a favore dei giovani che si avvicinano allo studio delle lingue è ovviamente costituito dalla maggiore facilità nel trovare un’occupazione vantaggiosa: se state progettando di intraprendere una carriera importante e redditizia, è importante che sappiate almeno due lingue. A seguito del processo di globalizzazione, infatti, la maggior parte delle aziende opera sempre di più a livello internazionale e richiede che i propri dipendenti abbiano ampie competenze linguistiche.
Dunque, what are you waiting for?

 

Francesca Moreschini