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Principessa Mononoke

In Giappone gli autori tendono ad essere visti sotto una lente strettamente morale: devono essere esempi di correttezza fin nella loro vita privata, il rigore deve valere più dell’estro.

L’attenzione di Miyazaki verso questi dettami è così forte da essere stata fin dagli inizi della sua carriera condivisa e assimilata e non è mancato, in questo punto specifico, l’influenza dell’Occidente. Il regista del Castello errante di Howl non è un Oshima che protende con veemenza verso l’anarchismo in senso stretto, né un Kurosawa che va verso il teatro o la danza per la gestione del profilmico.

La sua grazia gli permette di trattare l’avversione alla guerra, il potere femminile, la crescita interiore ed il rapporto con la natura senza mestizia né aggressività: le istanze pacifiste, vitalistiche e libertarie sono così ben assimilate dal suo organismo artistico da esprimersi in totale armonia con il rigore pacato della rappresentazione.

La Principessa Mononoke del 1997 è un kolossal dove uomini e spiriti combattono nell’arena della natura: tutto ruota intorno al dominio dello spazio e delle risorse e né l’industria nascente né i clan delle divinità locali accettano compromessi. 

Per accompagnare lo spettatore nella comprensione delle rispettive fazioni, Miyazaki si serve del giovane Ashitaka, principe degli Emishi nel Giappone del periodo Muromachi (1378-1573).

Maledetto da un dio cinghiale impazzito per il dolore di un proiettile d’arma da fuoco, il ragazzo si mette in viaggio verso l’Ovest, dove si avvicina lo scontro finale tra il clan della lupa Moro, la comunità retta da Eboshi signora del ferro e i cinghiali di Okkoto, in fase discendente.

Ashitaka rimane attratto da San, la figlia adottiva di Moro, accudita dai lupi dopo l’abbandono dei genitori, ormai né donna né lupo, conosciuta come la Principessa Spettro (Mononoke-hime).

In questo soggetto estremamente giapponese, l’influenza shintoista trionfa nei paesaggi quanto nelle figure divine e l’esempio massimo dell’importanza di quel sostrato culturale è dato dal sommo Dio Cervo, divinità che può ricordare agli amanti della cultura celtica la figura del dio Cernunnos, simile anche per gli attributi.

Gli spiriti divini, così come nella Città Incantata e nel Castello errante, abitano la Natura, la esprimono nel suo senso più profondo: sono cristallizzazioni delle sue forze, i lati di un prisma. Moro e Okkoto non avranno forse i silenzi sospesi e i sorrisi da Stregatto del tenero Totoro ma la loro presenza ed il fraseggio concesso in sceneggiatura li impone per autorevolezza.

Sta proprio nella caratterizzazione di queste forze estranee all’umanità la parte più lirica della Mononoke, mentre il mondo umano s’esprime in rapporti che potrebbero far pensare ad un film di Kurosawa e attraverso questo filtro, strizzare l’occhio allo Shakespeare del Re Lear, quello che è più vicino alla fiaba e alle atmosfere del film.

La costruzione degli eventi è fitta ma più asciutta rispetto a quel gioiellino precedente, estroso ed eccentrico che era Laputa – Castello nel cielo (1988). A parte lo slancio narrativo, che nella Mononoke è incanalato meglio e più coscientemente nei giusti contenitori, Laputa ha ben poco in comune con il film del ‘97.

Se il castello nel cielo veniva distrutto in un racconto più giocoso che demonizzava l’avidità e la grettezza degli adulti, qui Miyazaki ricerca l’ordine che dalla forma (lo stile, il disegno) deve passare al contenuto.

In questo film dai ritmi ampi, tutti cercano l’appagamento ma ciò di cui c’è bisogno è la pace, che è esatta dalla Natura stessa, cioè il Divino (Kami) del film, che pacificato può curare sia umani che animali.

Antonio Canzoniere

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Porco Rosso

Le maledizioni nel mondo di Miyazaki hanno la magia per matrice e la psicologia per motore, tanto che si attivano solo nel momento in cui protagonisti sentono su di sé lo sguardo degli altri.

La Sophie de Il castello errante di Howl ha in questo senso un percorso narrativo più fortunato del pilota di Porco Rosso: il maleficio subìto è una molla che attiva in lei la forza e la magnifica entropia che la fanno arrivare alla massima fioritura, all’esposizione del suo “bello interiore tradito” (Giulio Carlo Argan).

Il virtuoso dell’idrovolante Marco Pagot (omaggio agli animatori Toni e Nino Pagot), invece, rimane per tutto il film nel suo limbo di uomo-maiale che non va spiegato tanto per l’azione di un mago quanto per la sua misantropia ed il suo distacco dai sentimenti: Porco Rosso è la storia di una stasi che deve essere rotta sotto pressioni esterne, così come di un uomo che sotto la disillusione ama la vita profondamente, pur nella solitudine (reale o percepita).

Questo sogno di Miyazaki recupera con fantasia le visioni di un’Europa non più esistente e reinventata al contempo, dove l’Italia sognata è incisiva quanto quella reale. Il gusto è innanzitutto estetico, perché questi colori chiari del film, questo suo tratto pulito, immacolato, onesto si sedimentano perfettamente, con delicatezza, nel ricordo.

porco

Il lato più strettamente politico di Miyazaki si mostra senza peso (imparino le registe occidentali) nella resa dell’ambiente lavorativo degli stabilimenti Piccolo di Milano, dove la cura dell’idrovolante distrutto del Porco è affidata ad un’équipe di donne instancabili.

Non sarà l’unica volta che le donne faranno il lavoro pesante nei suoi film: l’esempio più fulgido verrà dato nel ‘97, cinque anni dopo Porco Rosso, con la shakespeariana lady Eboshi e le sue operaie in Principessa Mononoke.

In Porco Rosso, però, il tono non sfiora il tragico come nel film successivo: all’intraprendente Fio Piccolo, aiutante del Porco, non manca la levità e la fresca grazia che viene spontanea per la giovane età.

In questi anni ‘30 dove si fanno strada l’interferenza americana, il fascismo e la guerra c’è ancora tempo per l’amore: la cotta di Fio per il protagonista va a braccetto con l’amore sospeso e malinconico di Gina, madame dell’hotel Adriano, che è attratta dagli uomini dell’aria ma ne aspetta solo uno.

Tutti questi personaggi col corpo e la testa per aria aspettano tutti il loro “tempo delle ciliegie”: Miyazaki ha voluto ricreare proprio questo tempo, denso di affetti, onore virile e senso dell’avventura nel sogno, nel cinema. Lo si vive così per interposta persona, grazie a dei personaggi che volano per noi e consegnano al mondo il messaggio, spronando, nonostante tutto, i più attenti e sensibili all’azione.

Antonio Canzoniere

La città incantata

Durante una sosta del trasferimento in macchina con la famiglia, Chihiro s’imbatte in una città vuota scambiata per un parco giochi abbandonato. Da profani quali sono, i genitori s’ingozzano del cibo preparato per gli ospiti assenti, mentre la ragazzina, inquietata, vede il luogo riempirsi di spiriti.

Lei, fuori posto in quel mondo, sparirebbe di sicuro non fosse per l’aiuto di Haku, ragazzo (?) con poteri magici che le rivela l’unico modo per sopravvivere: chiedere alla strega Yubaba, la padrona locale, di essere assunta nello stabilimento termale per yokai (spiriti giapponesi). 

Con la sua tenacia, Chihiro si rivela capace di tener testa alla strega, di poter reggere il lavoro e di non lasciarsi inghiottire da quel mondo del tutto nuovo per lei. 

In quella dimensione aliena lei sfodera il meglio di sé uscendo dall’infanzia prima del tempo, all’interno di una struttura che è insieme immagine del capitalismo e della globalizzazione, del Giappone svendutosi alla modernità e dell’industria dell’intrattenimento.

Che questo film premiato con l’Orso d’Oro nel 2002 e poi col Premio Oscar sia la storia di una crescita e di un coraggio è dire poco, se non si conta che è soprattutto un racconto di purificazione.

L’immaginario delle terme e della ricerca interiore potrebbe portare noi occidentali verso 8 ½ (1963) di Fellini e non si sbaglierebbe: la differenza cruciale, però, sta nei protagonisti. Il Guido Anselmi di Fellini fagocita l’esterno filtrando tutto con la sua interiorità, dando alla vita esterna il passo della sua mente. Il suo percorso è tutto svolto all’interno e lo porta al perdono, all’accettazione e alla comprensione commossa di tutti i fatti e i personaggi della sua vita: il suo vero nemico è l’aridità.

Chihiro è invece buttata in un mondo sconosciuto e l’energia dimostrata contro le forze esterne la rende eroina fino in fondo, perché funge da esempio non solo per quanto sia riuscita sul versante tecnico della caratterizzazione.

È un perfetto personaggio miyazakiano, perchè in lei l’empatia e l’intelligenza non si scavalcano mai l’un l’altra e l’amore non diventa un debolezza.

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Questa Alice nipponica si scontra con la spersonalizzazione del lavoro, che in Miyazaki porta tristezza (per Sophie nel Castello errante) o discordanza con i propri desideri (Porco rosso o Kiki). Non c’è un simbolo più forte di questo approccio nel “furto del nome” operato da Yubaba, vestita d’un abito occidentale blu, colore della forza nel buddhismo, che abita nei piani alti dello stabilimento termale in delle stanze sfarzose nemmeno fosse una zarina russa.

Che ironia che allo stesso tempo lei somigli alla maga Suliman e alla vecchia Sophie di qualche anno dopo; o che sia un diretto riferimento alle classi alte del Giappone, dedite al profitto e ad uno stile di vita occidentale fin dal periodo Meji (1868-1912)!

Non è un caso che per diretto contrasto, nel suo cottage di campagna, Miyazaki ci faccia conoscere la sua gemella Zeniba, che sarebbe stata l’orgoglio dei tradizionalisti europei del XX secolo. Lontana dallo stabilimento della sorella (detta professionalmente Aburaya, mercante d’olio), Zeniba si fa espressione dell’immagine serena del focolare, che a Miyazaki è cara perché opposta alla produzione, simbolo della misura affettuosa contro la velocità ed il massiccio del moderno.

Qui siamo più vicini a Léon Krier, Chesterton e Tennyson piuttosto che a Marx, nella critica contro il mondo contemporaneo.

Sempre su questo tracciato è bene ricordare lo Spirito Senza Volto, che potremmo chiamare perfettamente “Solitudine”, quasi fosse la personificazione di questo stato dell’essere (che è anche emozione), per niente lontano dallo stalker “Me-Mania” di Perfect Blue (1997) di Satoshi Kon.

Lo potremmo vedere come uno spettatore, un patito di junk-food, un drogato di televisione, perfino un pedofilo e nessuna di queste interpretazioni potrebbe essere smentita, per quanto è prismatico il personaggio.

Sono la forza e l’innocenza di Chihiro, che respinge i suoi attacchi e lo aiuta a redimersi, così come la comprensione di Zeniba a cambiarlo, lontano dalla tossicità delle terme che curano solo chi può permettersi un trattamento elevato.

Il punto centrale del film, però, è il motivo del rapporto con la Natura: la sola che per Miyazaki possa offrire libertà, lirismo e rapporto col divino. Questo stesso fulcro spiega il rapporto tra Chihiro e Haku.

Il dio del fiume inquinato è la punta dell’iceberg del lato ambientalista del film: il regalo della polpetta medicinale a Chihiro non è che l’espressione materiale e magica del sentimento che sostiene il legame tra la protagonista ed il suo amore che umano non è.

La Natura nel film guarisce, dà la Grazia ma può anche riceverla: sarà Chihiro ad aiutare Haku come lui ha aiutato lei, restaurando comunione e consonanza perfette tra umano e divino, tra Infanzia/Innocenza e Ambiente/Sentimento cosmico, che sono tra le cose più morbosamente attaccate dalla modernità.

Per segnare l’inscindibilità di questa connessione in Miyazaki forse non serve la prosa ma il verso, anche se di un’occidentale. L’ultima parte della poesia The Night-Wind di Emily Brontë ci mostra il legame tra il vento estivo e la sua amante umana, che inutilmente tenta di resistergli. Non ci sono parole più nette per chiudere il cerchio e mostrare il senso di questa unione interiore, che rimane per sempre in chi ha amato la Natura nell’infanzia e le rimane legato:

Trad.:

‘(…)
Il viandante non m’avrebbe ubbidito;
Il bacio suo si fece ancor più caldo.
‘O vieni!’ sospirò dolcemente;
Contro il tuo volere ti vincerò .
Non eravamo amici dall’infanzia?
Non t’ho amato a lungo?
Almeno quanto hai amato la notte
Il cui silenzio sveglia la mia canzone?
Quando il tuo cuore sarà a riposo
Sotto la pietra del sagrato
Io avrò tempo per piangere
E Tu per star da sola.’

Originale:

‘(…)
The wanderer would not heed me;
Its kiss grew warmer still.
‘O come!’ it sighed so sweetly;
⁠’I’ll win thee ‘gainst thy will.
‘Were we not friends from childhood?
⁠Have I not loved thee long?
As long as thou hast loved the night
⁠Whose silence wakes my song?
‘And when thy heart is resting
⁠Beneath the church-yard stone,
I shall have time enough to mourn,
⁠And thou for being alone.

Antonio Canzoniere