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Pesi e misure: qualche considerazione sugli eventi ungheresi

Le ultime notizie dall’Ungheria risuonano sinistramente, provocando non poche apprensioni a livello nazionale e internazionale. Le parole “pieni poteri” sono pregne di una memoria storica che riporta ai decenni più bui dello scorso secolo, due parole che iniziano ironicamente per suoni “plosivi”, quasi a monito della portata esplosiva intrinseca nel loro accostamento. La richiesta e l’ottenimento dei pieni poteri da parte del Primo Ministro ungherese Viktor Orbán, sebbene giustificata dalla straordinarietà dell’emergenza sanitaria globale, presenta però alcuni caratteri “super-straordinari” rispetto al novero delle reazioni dei governi nazionali alla pandemia, che vale la pena di considerare.

La prima questione è quella dell’assenza di un limite temporale all’esercizio dei pieni poteri. A livello europeo, la facoltà di applicazione di misure di contenimento straordinarie da parte dei governi è stata concessa dai parlamenti nazionali sotto la necessaria menzione di un limite temporale, una specificazione di vitale importanza per scongiurare il rischio di derive autoritarie. La durata dello stato d’emergenza è stata fissata per sei mesi nel caso italiano, due mesi per quello francese, ed è stato stabilito un limite massimo di due anni per quanto riguarda l’Inghilterra, con l’obbligo di rinnovo periodico ogni sei mesi. Una richiesta in tal senso era arrivata anche dall’opposizione nel parlamento ungherese, che si era espressa a favore della concessione di poteri straordinari ad Orbán, a condizione che questi fossero ancorati ad una data di scadenza a novanta giorni. Il Primo Ministro ha invece fatto leva sulla maggioranza parlamentare del suo partito sovranista Fidesz, strappando i voti necessari per l’approvazione della legge e assicurandosi la possibilità di by-passare completamente il controllo del parlamento. Orbán detiene ora la facoltà di governare per decreto, sospendere le elezioni e abrogare le leggi già in vigore. A completare il quadro si aggiunge il fatto che la Corte Costituzionale, unico organismo competente per la revisione dell’operato governativo, è composta da membri fedeli allo stesso Orbán, il che contribuisce ad alimentare le perplessità riguardo le dichiarazioni del leader ungherese circa l’assenza di rischi per la democrazia nel paese.

Una secondo punto problematico risiede nella disciplina dei comportamenti perseguibili a seguito dell’applicazione della “Legge di autorizzazione”. Secondo quanto stabilito dalla normativa, i trasgressori del coprifuoco rischiano fino ad otto anni di carcere, ma quello che più balza agli occhi è la pena detentiva da uno a dieci anni per i colpevoli di diffusione di notizie false che “creino interferenze con le misure di protezione del popolo, o che lo pongano in stato di allarme o di agitazione”. L’utilizzo di formule vaghe, combinate all’esclusiva discrezionalità nel processo di definizione delle notizie false in capo ad Orbán, si traduce in un margine di manovra alquanto preoccupante, che consentirebbe al primo ministro di imprigionare i cittadini in disaccordo con le politiche governative anche al di fuori della sfera sanitaria.

L’ultima considerazione riguarda i commenti dell’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini, ed in particolare la strumentalizzazione implicita dei concetti di fake news e democrazia. A poche ore dalla diffusione della notizia degli eventi in Ungheria, il leader leghista salutava i nuovi poteri ottenuti da Orbán con il seguente tweet:

“Poteri speciali a Orban per combattere con forza il virus? Saluto con rispetto la libera scelta del parlamento ungherese (137 voti a favore e 53 contro), eletto democraticamente dai cittadini. Buon lavoro all’amico Viktor Orbán e buona fortuna a tutto il popolo di Ungheria”

Decostruendo la narrazione, il significato di queste parole sembrerebbe attribuire caratteri di democraticità alla sospensione stessa della democrazia. Salvini cerca quindi di far leva sulla manifesta indifferenza del bersaglio elettorale medio riguardo alla curiosità di comprendere le implicazioni degli avvenimenti, bollando il proprio messaggio con i sigilli della democrazia e della libertà di scelta e riferendosi ad un provvedimento che difficilmente potrebbe essere qualificato come “libero” o “democratico”.

Cosa direbbe, il nostro ex-ministro, se si trovasse in una realtà in cui la distorsione selettiva delle informazioni per fini di propaganda fosse perseguita con l’arresto?

Marco Tumiatti

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Oligarchia, alleanze improvvise e tentativo di colpo di stato… cosa sta accadendo in Moldavia?

La Repubblica di Moldova in questi giorni sta attraversando uno dei momenti più difficili della sua storia. Da anni questo paese è rappresentato dalla stampa internazionale come uno stato tra i più poveri d’Europa e alla mercé del leader del partito democratico (PDM) Vlad Plahotniuc. Questo personaggio detiene il potere (Corte Costituzionale, Procura, Polizia, Mass Media) grazie a una tecnica ad hoc: assicurarsi il potere tramite la minaccia esplicita di far muovere dossier compromettenti da parte degli organi di Giustizia, da lui stesso controllati, nei confronti di funzionari pubblici che detengono i posti chiave nell’amministrazione dello stato. Quindi gli stessi funzionari pubblici – e non – sono obbligati a subordinarsi ai suoi ordini, per non perdere il posto di lavoro e fare i conti con la giustizia.

Con questo metodo ha controllato il governo e la maggioranza del parlamento fino alle elezioni parlamentari del 24 Febbraio 2019, anche se fino a quel momento “ufficialmente” conosciuto come una persona esterna al processo politico. Così facendo ha esteso la sua influenza con la nomina di parenti stretti o persone fidate persino nella Corte Costituzionale (2018), nel Parlamento e in altre istituzioni di spicco tra cui i servizi segreti e l’organo abilitato all’anti-corruzione. Di fatto ha spianato la strada verso la conquista “legale” del potere, come leader del suo partito, tramite le elezioni parlamentari di febbraio di quest’anno.

Con le elezioni parlamentari del 24 febbraio si aggiudica un seggio al parlamento e il suo partito risulta essere al secondo posto con 30 seggi, dopo il Partito dei Socialisti della Moldova (PSRM) con 35 Seggi e la coalizione pro-europeista ACUM con 26 Seggi.  Dopo circa tre mesi da queste elezioni non si è giunti ad un accordo e quindi non si è creata la maggioranza parlamentare necessaria in grado di formare un governo. Fino all’8 giugno, quando è successo un fatto che ha sorpreso tutti.

Il partito socialista di Igor Dodon (che è anche il Presidente della Repubblica), insieme alla coalizione ACUM tra partiti di centrodestra europeisti e anticorruzione, guidati da Maia Sandu, sono riusciti a trovare un accordo per formare il governo. Questo è stato uno sviluppo inaspettato, perché sono due partiti di orientamenti completamente opposti, senza contare che tra i due leader c’è stata un’aspra competizione nel 2016, dopo che si sono sfidati alle presidenziali dove è risultato vincente Dodon di appena 80.000 voti, accusato dalla stessa Maia Sandu di aver diffuso notizie false e diffamanti sul suo conto e di aver usato i media filorussi nella campagna elettorale.
Hanno accettato di allearsi con l’unico scopo di escludere dal governo il partito di Vlad Plahotniuc, riuscendo ad ottenere così la maggioranza con 61 deputati su 101, la nomina di un nuovo Presidente del Parlamento e delle Commissioni Permanenti, la nomina di Maia Sandu come Primo Ministro e quindi di un nuovo esecutivo, come anche la nomina di nuovi funzionari per il Centro anti Corruzione ed altri. Questo incontro si è svolto in un modo molto spartano, poiché il segretario del Parlamento non si è presentato al lavoro. È stata tolta la luce intenzionalmente all’intera rete del Parlamento, senza contare che c’è stato anche un allarme bomba in precedenza dato dalle forze dell’ordine. Tutto questo solo per rallentare i lavori o fermarli completamente. A questo incontro anche i rappresentanti diplomatici hanno avuto difficoltà ad accedere alla struttura, come nel caso dell’ambasciatore Ue a Chisinau, Peter Michalko.

Russia, Unione Europea e Stati Uniti si sono espressi a favore della nuova coalizione già dall’incontro avvenuto a Chisinau lo scorso 3 giugno tra i principali rappresentati esteri, quando forse per la prima volta nella storia sono riusciti a trovare un’intesa sull’argomento.

Vlad Plahotniuc attualmente detiene il controllo della Corte Costituzionale e degli organi giuridici del paese, come il controllo della polizia e dei Mass Media, soprattutto tv. Tutti questi mezzi sono risultati vincenti per una mobilitazione di persone esortate a uscire e protestare, poiché le stesse persone mobilitate escono sotto la minaccia della perdita del lavoro o degli alloggi per gli studenti. Già da sabato sera le mobilitazioni erano effettive, poiché si vedevano già le prime tende installate davanti alle diverse istituzioni, dove il nuovo governo avrebbe dovuto cominciare il suo lavoro lunedì 10 Giugno. Da notare che la polizia (diversamente dal solito), non ha fatto resistenza rispetto ad altre proteste come quella di Petrenco di qualche anno fa davanti alla Procura Generale, o quella del 26 agosto 2018 dove ha immediatamente evacuato e arrestato i manifestanti, perfino gli stessi Maia Sandu e Andrei Nastase, leader della coalizione pro-europeista ACUM. Si evidenzia come i vari funzionari pubblici non si siano ancora subordinati agli ordini del nuovo governo, ma eseguono gli ordini del vecchio governo di Plahotniuc. Lo stesso Igor Dodon e Maia Sandu chiedono che ci sia una transizione pacifica dei poteri dello stato al nuovo governo.

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Il 9 giugno la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la plenaria del primo Parlamento e la formazione del governo di Maia Sandu del giorno precedente, una sentenza che è stata decretata in un modo sorprendentemente veloce. La stessa Corte ha investito l’ex Primo Ministro del governo di Plahotniuc, Pavel Filip, come Presidente della Repubblica, che a sua volta ha firmato il decreto per lo scioglimento immediato del Parlamento, stabilendo inoltre la data delle prossime elezioni anticipate per il 6 settembre, che è un venerdì e non una domenica come da prassi in Moldavia. Il nuovo governo di Maia Sandu e il Presidente della Repubblica Dodon hanno dichiarato a loro volta l’invalidità dell’investitura del Presidente Filip dalla Corte Costituzionale, poiché la stessa Corte è sotto l’influenza diretta di Vlad Plahotniuc, e quindi ogni decisione da essa presa sarebbe invalida. Su questa posizione è d’accordo l’intera comunità internazionale, tra cui fino ad oggi Unione Europea, Russia, Stati Uniti, Romania, che riconoscono il governo di Maia Sandu come quello legittimo, come lo stesso Presidente della Repubblica Igor Dodon e il Parlamento eletto il 24 febbraio 2019.

In questo giorno Vlad Plahotniuc ha mobilitato molte persone dall’intera Moldavia, sempre con le stesse minacce, ad una grande protesta nel centro della capitale partecipando egli stesso alla manifestazione (mai accaduto) e atteggiandosi da salvatore della patria e inneggiando ad una condanna ai traditori che hanno fatto la coalizione. Per la prima volta sono stati “lanciati” dei tacchini (alcuni vivi, alcuni morti) come atti intimidatori oltre la recinzione della sede del Palazzo del Presidente della Repubblica, soprattutto nei confronti del Presidente della Repubblica che è stato costretto a far ospitare la sua famiglia nell’ambasciata russa per precauzione. Il gesto è stato condannato da un’associazione animalista, ma che comunque pone molti interrogativi su un metodo che è usato principalmente da cosche e Mafia, non da rappresentanti di un partito.

I 61 Deputati che adesso detengono la maggioranza in Parlamento vengono minacciati continuamente già dalla formazione del nuovo governo, principalmente con dossier compromettenti nei loro confronti e dei loro familiari. Per il momento nessun atto intimidatorio così forte è stato fatto nei loro confronti o ai loro parenti, ma si attendono vicissitudini importanti nelle giornate a venire.

In questo momento storico la Moldavia chiede il sostegno di tutta la comunità internazionale, contro questo abuso verso i diritti umani e il tentativo di una minoranza di accaparrarsi il potere e attentare direttamente al sistema delle democrazie liberali.

Dan Munteanu


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La Rivoluzione sotto le Ruote

Purtroppo, da ormai qualche anno, siamo abituati a sentire e vedere storie di cruda violenza a livello internazionale. Le stragi di Strasburgo, Parigi, Berlino, Barcellona hanno scosso il cuore di europei ed extra comunitari per gli attacchi messi in atto da organizzazioni terroristiche o da singoli individui, spesso con una matrice di guerra religiosa. Sulla famosa strada La Rambla di Barcellona, al Christmas Market di Berlino, nel cuore di Strasburgo singoli individui sono stati uccisi da estremisti portatori di un messaggio di odio e terrore alla guida di camion e furgoni, volontariamente investendo dei civili con una sentenza di morte in nome di una fantomatica guerra all’Occidente. Sono storie recenti che rimangono impresse, che fanno paura ma che ci uniscono contro l’odio dell’estremismo. Singoli fanatici che devono essere isolati e fermati. Abbiamo dalla nostra la solidità di intere istituzioni e la cooperazione tra i governi. Comprendiamo il dolore della perdita ma reagiamo ed andiamo avanti, sappiamo essere più forti dei singoli estremisti.

Cosa succede però quando è proprio il governo stesso a guidare dei camion sopra i cittadini in rivolta? Questa è purtroppo una domanda che in Venezuela si stanno facendo in molti e che richiede delle risposte amare e non sempre soddisfacenti.

Il Venezuela sta affrontando una delle più intense crisi interne che il Paese abbia mai visto: dopo le elezioni di gennaio, lo storico Presidente Nicolas Maduro è stato politicamente fronteggiato da Juan Guaidó, capo dell’opposizione autoproclamatosi ad interim Presidente del Venezuela contro gli abusi di potere del dittatore, succeduto al regime di Hugo Chavez, accusato di aver vinto le elezioni del 2018 in maniera fraudolenta e con metodi dittatoriali. “È mio dovere chiamare libere elezioni perché c’è un evidente abuso di potere e le persone in Venezuela vivono in una dittatura” ha dichiarato Mr. Guaidó. Una forte crisi ha colpito l’economia venezuelana negli ultimi anni, portando il Paese ad un’iperinflazione e un crollo della valuta di proporzioni storiche. La dittatura di Maduro ha fronteggiato diversi disordini negli anni passati, soprattutto per quanto riguarda l’opposizione americana al regime. La situazione di disagio del popolo venezuelano è andata crescendo fino al colpo di Stato dell’opposizione di Guaidó che, se da un lato ha portato alla luce le richieste della popolazione in difficoltà, dall’altro ha aggravato notevolmente lo stato del Paese.

La presenza di due diversi premier all’interno del Venezuela ha infatti dato spazio ad opportunità di schierarsi da un lato o dall’altro per fini meramente relativi ai giochi di potere tra le Grandi Potenze. Il governo americano supporta incessantemente il governo di Guaidó contro la dittatura di Maduro e i suoi crimini mentre la Russia, d’altro canto, sostiene fortemente quest’ultimo per poter consolidare la propria influenza contro quella americana tramite il sostegno del dittatore. Molti Paesi europei si sono schierati con il rivoluzionario Guaidó, assieme al Presidente del Brasile Jair Bolsonaro. Gli alleati di Maduro nella regione, Cuba e Bolivia, hanno pubblicamente condannato il colpo di Stato. I disordini interni hanno da mesi subito una crescita vertiginosa mentre le condizioni dei cittadini venezuelani è arrivata a livelli allarmanti, con cittadini inabili a procurarsi del semplice pane per il proprio sostentamento.

La situazione pareva fosse arrivata a un momento di distensione nelle ultime settimane. Nella giornata di ieri però, il Presidente sovversivo Juan Guaidó ha lanciato un messaggio online tramite un video nel quale invitava i cittadini a dimostrare scendendo in piazza, che il Paese è pronto ad un cambiamento e che i cittadini sono volenterosi di una svolta che ponga fine a quest’incertezza. “Il tempo è adesso. Stiamo per ottenere libertà e democrazia in Venezuela”. Nel video, il Presidente è circondato da dozzine di soldati uniti alla causa. Non si conoscono bene i numeri, ma centinaia di manifestanti si sono presentati davanti la base aerea dove hanno avuto uno scontro a fuoco con i soldati dell’esercito di Maduro.

In quest’occasione, con altri manifestanti per le strade della capitale Caracas, veicoli blindati militari del governo reggente sono stati filmati muoversi verso i cittadini, visibilmente con lo scopo di investire i manifestanti, gravemente ferendone decine, reprimendo la rivolta nel più cruento dei modi: con la violenza deliberata verso gli oppositori del regime. Al momento, il centro medico vicino ai luoghi del conflitto civile ha riportato 50 persone in cura per ferite da proiettili di gomma. Oltre a Caracas, le proteste si sono accese e sparse per altre città del Paese tra cui Valencia, Puerto Ordaz e Barquisimeto. Uno dei maggiori alleati dell’opposizione Leopoldo Lopez ha intanto trovato rifugio nell’ambasciata cilena in Venezuela contro la persecuzione da parte del regime.

In questo momento, il Venezuela sta effettivamente sperimentando sulla pelle dei suoi cittadini gli effetti di una dittatura prolungata e la conseguente Guerra Civile che ne è scaturita. Il vicepresidente della Casa Bianca Mike Pence sostiene la rivoluzione assieme al Segretario di Stato Mike Pompeo; il Presidente Turco Erdogan condanna il colpo di stato, a suo modo di vedere perpetrato per conto degli Stati Uniti; l’Unione Europea, tramite il suo Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, richiede una pacifica soluzione del conflitto. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres invita gli attori coinvolti a cessare le ostilità per trovare una soluzione pacifica alla crisi. La comunità internazionale non appare in grado di fronteggiare esternamente una situazione politica così delicata e la poltrona da spettatore inerme appare l’unica soluzione adottata da molte parti.

Per anni i cittadini hanno subito una condizione di grave disagio, dove l’inflazione ha reso impossibile l’acquisto anche di beni primari, quali pane e carta igienica, e i diritti umani sono stati troppo spesso calpestati dal regime. Dopo tanto tempo, la soluzione politica è rappresentata dal colpo di Stato di gennaio da parte dell’opposizione, che ha racchiuso in sé la rabbia e la frustrazione di un popolo sofferente da troppo tempo. Ciò nonostante, la situazione non pare propendere ad una soluzione immediata e la violenza raggiunta da entrambe le fazioni fa presagire un’escalation di disordini in continua crescita. Si attende di capire quale parte riuscirà a prevalere sull’altra e se le istituzioni internazionali riusciranno ad avere un ruolo decisivo per la soluzione del conflitto. Per adesso il popolo venezuelano si ritrova con la propria rivoluzione sotto le ruote dei veicoli militari e i colpi del proiettili sui manifestanti in rivolta, con la speranza di una stabilità politica, economica, e sociale che appare ancora più lontana.

Matteo Caruso


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